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Lucca - Acquedotti di Lucca - Arcivescovati della Toscana (Arcivescovato di Lucca) - Zecche Diverse (Lucca) - Via, Strada ferrata da Lucca a Pisa - Via, Strada ferrata da Lucca al confine del Ducato con Pescia

 

(Lucca)

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    LUCCA, LUCA , in Val di Serchio. – Città insigne, di origine etrusca, poi ligure, quindi romana prefettura, colonia, e municipio: più tardi residenza di duchi Greci e Longobardi, cui sottentrarono i conti e marchesi imperiali, sotto i quali Lucca si costituì in repubblica; e tale quasi continuamente si resse fino al principio del secolo XIX, quando fu destinata capitale di un principato napoleonico, siccome attualmente lo è divenuta di un borbonico ducato.
    Trovasi la città di Lucca sulla ripa sinistra del fiume Serchio che le passa circa un terzo di miglio distante, in mezzo ad una fertile e irrigatissima pianura, circoscritta, dal lato di scirocco e libeccio dal monte, per cui i Pisan veder Lucca non ponno ; da ponente a maestro mediante le branche dell’Alpe Apuana; da settentrione a grecale le fanno spalliera le balze dell’Appennino fra le quali scendono il Serchio, la Lima e le Pescie; mentre di là dalle foci che si avvallano a levante e a libeccio di Lucca, giacciono i due laghi più vasti della Toscana attuale.
    Incontrasi la stessa città sotto il grado 28° 10’ di longitudine e 43° 51’ di latitudine, sopra un piano appena 32 braccia toscane più elevato del livello del mare Mediterraneo; 13 miglia toscane a settentrione-grecale di Pisa, passando per Ripafratta, e sole 10 miglia toscane per l’antica strada del Monte pisano; 26 miglia toscane per la stessa direzione lontana da Livorno; 24 miglia toscane a levante-scirocco di Massa di Carrara; 12 a ponente-libeccio di Pescia; 14 a ostro dei Bagni di Lucca; e 46 miglia toscane a ponente di Firenze.
    Senza far conto della congettura sull’etimologia del suo nome, di Lucca etrusca e ligure s’ignorano non solo le vicende, ma qualunque siasi rimembranza istorica al pari, se non di più, di quelle che si desiderano per altre città antichissime della Toscana. Dondechè quel più che di Lucca si può sospettare, come un indizio di opera etrusca, sarebbero i
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    fondamenti superstiti delle sue antiche mura ciclopiche, che in qualche parte a scirocco dentro la città, tuttora fra le muraglie di più moderna età si nascondono. – Vedere LUCCA COMUNITA’.
    Non vi sono tampoco dati positivi, tostochè gl’istorici del tempo non ne parlano, per farci conoscere, in qualche anno le armi romane cacciassero da Lucca i Liguri che al loro arrivo nella Valle del Serchio dominavano.
    Nonostante rispetto a Lucca e Pisa, essendo queste le due città della Toscana che conservano a preferenza maggiori memorie tanto dei tempi romani, quanto dei periodi più oscuri dell’istoria del medio evo, sarà gioco forza discorrerne più di quanto comporterebbe il nostro libro. Quindi gioverà che io percorra le vicende civili e politiche di Lucca 1°. sotto i Romani ; 2°. sotto i re Longobardi ; 3°. sotto i re Franchi e Italiani ; 4°. sotto i re Sassoni e Svevi ; 5°. durante il periodo della sua repubblica ; 6°. finalmente Lucca nei primi sette lustri del secolo XIX .

    LUCCA SOTTO I ROMANI

    Quantunque non manchino valenti scrittori, i quali, appoggiandosi a un aneddoto di strategia militare raccontato da S. Giulio Frontino nella sua opera degli Stratagemmi , opinarono, che Lucca era in potere dei Liguri quando alla testa de’soldati romani un Gneo Domizio Calvino l’assediò, e poi con semplicissimo inganno le sue genti v’introdusse: contutto ciò, se io non temessi di porre il piè in fallo, azzarderei dire, che quella sola e troppo vaga asserzione non sia sufficiente a decifrare, se la comparsa ostile di Gneo Domizio Calvino sotto le mura di Lucca abbia a risalire all’epoca in cui i Romani conquistarono la prima volta sopra i Liguri questa città; o sivvero, se lo stratagemma raccontato da Frontino debba riportarsi a qualcuna delle guerre civili e delle grandi fazioni di partito fra le città italiane sul declinare della
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    repubblica romana guerreggiate.
    Né io credo che osterebbe alle mie dubbiezze l’avere Frontino qualificato Lucca oppidum Ligurum , volendo probabilmente quello scrittore riferire alla contrada ligustica, nella quale Lucca fu per molti secoli dai Romani conservata; nella stessa guisa che il geografo Pomponio Mela, coetaneo di Frontino, chiamò Luna Ligurum , per quanto questa ultima città, già da gran tempo innanzi staccata dalla provincia ligure, facesse parte della Toscana.
    Quantunque la perdita della seconda Decade di T. Livio ne privi di documenti meno equivoci, relativi a chiarirci rapporto all’epoca, nella quale Lucca venne conquistata dalle armi romane, altronde i fatti istorici intorno alle prime guerre e al primo trionfo riportato dai consoli nell’anno 516 di Roma e quelli immediatamente posteriori ai libri perduti, ci danno a divedere che innanzi alla seconda guerra punica i Lucchesi già ubbidivano o almeno erano alleati di Roma; tostochè dopo la battaglia della Trebbia (anno 536) in Lucca potè con sicurezza fissare i suoi alloggiamenti il console Sempronio. – E se è vero, come ne assicura lo storico patavino, che l’impresa delle guerre lingustiche e galliche soleva dal senato affidarsi ai consoli, cui talvolta veniva prolungato il comando, è altresì noto, che niuno dei Domizj Calvini ottenne il consolato nel secolo sesto di Roma, tempo cui ci richiama la conquista del paese fra l’Arno e la Magra.
    Per altro di un Gn. Domizio Calvino, stretto in amicizia con Cesare e con Ottaviano, parlano gl’istorici Dione Cassio e Ammiano Marcellino ; talchè sembra lostesso personaggio che ottenne la prima volta il consolato nell’anno di Roma 701, e la seconda nel 714: cioè, due anni dopo la battaglia di Filippi. Fu allora quando Ottaviano Augusto faceva dispensare alle sue legioni, in ricompensa della riportata vittoria, sostanze e terreni a scapito degl’inquilini e dei loro legittimi possessori in tutta Italia. Si trattava nientemeno che di saziare l’avidità di circa 170 mila soldati a danno e a
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    carico di vecchie colonie, di nobili municipii, di ragguardevolissime città.
    Non è questo un libro, né io sono tale scrittore da dovermi permettere, quante volte manchino documenti istorici, delle congetture, dopo che ho preso per mia norma e divisa quel passo di Cicerone: Ex monumentis testes excitamus . Quindi io lascerò volentieri ai più valenti l’incarico d’indagare, se lo stratagemma raccontato da Frontino, relativamente alla città di Lucca dei Liguri , quando essa fu assediata da Gneo Domizio Calvino, fosse possibilmente accaduto in quella calamitosa età, in cui Piacenza dovè a forza di denaro redimersi dall’avidità dei legionari; allorchè Virgilio fu costretto ad abbandonare la patria per essergli stato rapito il suo piccolo podere, e ciò nel tempo medesimo in cui molte altre città coraggiosamente si opponevano alle sfrenate coorti di Ottaviano.
    Rimetterò pure a chi ha fior di senno la soluzione del quesito: se il popolo lucchese, a imitazione di quello di Norcia, di Sentino e di Perugia, potè allora sentire di sé tal forza e tanto stimolo di patrio onore da chiudere le porte della città in faccia alla prepotente milizia condotta da un luogotenente dei due primi Cesari, siccome più tardi ebbe coraggio di fare lo stesso contro un più numeroso esercito guidato dal vittorioso Narsete.
    Comecchè sia di tutto ciò, non vi ha dubbio che Lucca sino da quell’età doveva essere città di solide mura e di valide difese munita, siccome lo dà a congetturare la ritirata costà del Console Sempronio dopo la sinistra giornata della Trebbia.
    Quello che fosse in tal epoca dello stato politico e della condizione civile di Lucca, è tale ricerca che rimansi ancora tra le cose da desiderare. Avvegnachè di tante guerre lingustiche nei lucchesi confini guerreggiate, di tanti fatti d’arme da Tito Livio con minute particolarità e con enfasi oratoria raccontate, neppure una volta venne a lui fatto di nominare la città di Lucca. – Solamente, e quasi per incidenza, la
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    rammentò all’anno di Roma 577, quando vi fu dedotta una colonia di diritto romano, composta di 2000 cittadini; a ciascuno dei quali vennero consegnati jugeri 51 e 1/2 di terreno stato tolto ai Liguri, aggiungendo egli, che quel territorio, prima che fosse dei Liguri, apparteneva agli antichi Etruschi.
    Non dirò della lite insorta nove anni dopo, e piatita da Roma davanti ai Padri Coscritti, quando i Pisani querelavansi di esser respinti dal loro contado dai coloni romani di Lucca, e all’incontro i Lucchesi affermavano, che il terreno di cui si contendeva dai triunviri della colonia era stato loro consegnato; né dirò del luogo fra i due popoli controverso, non trovandosi specificata la località; né altro resultato sapendosi dopo che il senato mandò i periti a conoscere e giudicare dei confini fra i due paesi disputanti, non se ne può arguire da qual parte i Lucchesi penetrassero nell’Etruria, ossia nel territorio della colonia di Pisa, spettante a quest’ultima regione. (LIV. Histor. Rom . Lib. 45.). – Solamente aggiungerò che la città di Lucca anche innanzi la deduzione della sua colonia possedeva senza dubbio un territorio suo proprio, siccome avere doveva una magistratura civica e leggi diverse da quelle che erano peculiari della sua colonia.
    Vi furono è vero molti, i quali opinarono, che i Lucchesi all’arrivo della romana colonia (177 anni avanti Gesù Cristo) dovessero restare spogliati delle proprie leggi e dei loro magistrati municipali per godere dei privilegii e dei diritti portati insieme con i costumi e la forma di governo dai nuovi coloni; e ciò tanto più, in quanto che di casi simili si contavano esempj da A. Gellio; il quale ne avvisò che molti municipj, rinunziando ai loro usi e alle proprie leggi, cercarono di ottenere il diritto delle colonie.
    Quando però si vogliono contemplare le espressioni di due autori non meno classici di A. Gellio, si dovrà concedere che più frequenti furono i casi, nei quali si combinavano in
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    un paese medesimo colonie di diritto romano e magistrati municipali con leggi proprie.
    Il primo è Cicerone, il quale nell’arringa a favore di P. Silla (cap. 21) chiaramente distingue i cittadini di Pompei dai coloni stati colà inviati dal dittatore L. Silla. Il secondo scrittore è S. Pompeo Festo, alla voce Praefaecturae , là dove in modo generale egli si espresse, che le prefetture erano città ridotte in soggezione dei Romani, e che perciò, se anche avevano colonie di loro, erano in tutto da questo disferenziate. – Dopo le quali testimonianze, (se la storia altro non dicesse) dovrà ognuno concedere, che in un paese medesimo potè trovarsi una colonia con prefettura, cioè, senza i suoi magistrati, ed esservene altri con magistrati distinti da quelli della sua colonia.
    Ecco perché Cicerone in una lettera scritta a Decimo Bruto, quando questi sopravvedeva alla Gallia Cisalpina, raccomandavagli l’amico L. Castronio Peto patrono principale del municipio di Lucca, nello stesso modo che l’oratore arpinate aveva qualificato col titolo di municipio le città di Piacenza, di Cossa, di Arpino, ec., ciascuna delle quali era nel tempo medesimo colonia.
    Così A. Gello appellò illustre municipio la città di Teramo ( Interamna ) sul Liri, nel cui vasto territorio trovavasi fino all’anno 569 di Roma dedotta una colonia latina (Liv. Lib. XXX 5). – Ma per lasciare tanti altri esempj gioverommi di quello solo che più direttamente spetta al caso nostro, citando il compendio dell’opera di Pompeo Festo, scritto da Paolo Diacono, nel quale apparisce, qualmente Lucca, Pisa, Bologna, Piacenza e altre città godevano dei diritti di municipio, e di quelli proprii della colonia. ( De Verborum Significatione , alla voce Municipium ).
    Conchiudasi adunque che, dovendo a buon diritto distinguere i coloni dai cittadini del luogo in cui la colonia fu dedotta, nel caso nostro è buono di avvertire, qualmente il terreno dato ai 2000 coloni lucchesi, non fu tolto ai cittadini indigeni, ma sibbene
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    venne ad essi distribuito tutto, o la maggior parte di quello montuoso lasciato deserto dalle guerre, o dall’espulsione dei Liguri Apuani, de’Friniati e di altre simili congregazioni di Appennigeni fra loro limitrofe. – Vedere LUCCA DUCATO, LUNI e LUNIGIANA.
    La colonia pertanto di Lucca andò prosperando insieme col municipio lucchese: né pare che dappoi decimasse, o che la sua popolazione andasse declinando, siccome avvenne di tante altre città che spontanee chiesero, o forzate dovettero accogliere nel loro seno colonie militari, non più come quelle dei tempi della repubblica. Fra queste ultime, dice Tacito, ( Annal. Lib . XIV c. 27) si vedevano legioni intere co’lor tribuni, centurioni e soldati d’un corpo stesso, perché d’afferto concordi, che amorevolmente avevano formato una piccola repubblica; mentre le altre invece erano di quelle colonie composte di soldati sconosciuti fra loro, di varie compagnie, senza capo, senza affezioni reciproche, quasi d’un'altra razza d’uomini, che alla rinfusa insieme accozzavansi, tali corpi in fine, come in due parole quell’aureo scrittore si espresse, cioè, formati numeris magis quam colonia .
    Non ho creduto totalmente inutile alla storia cotesta disgressione, sul riflesso che potrà essa fornire un titolo a dimostrare, che Lucca per buona sorte restò una di quelle colonie romane non più manomesse da altre carovane di soldati faziosi.
    È altresì vero che di questa fatta la diede a conoscere anche il greco geografo Strabone; il quale, parlando della situazione di Lucca e dell’indole dei suoi abitanti, ne avvisò, come da questa contrada a’tempi suoi si raccoglievano grandi compagnie di soldati e di cavalieri, donde il senato sceglieva le sue legioni.
    Uno degli ultimi e più clamorosi avvenimenti di cui Lucca, mentr’era città della Liguria, divenne teatro, fu quando Giulio Cesare proconsole delle Gallie invitò a Lucca Crasso e Pompeo, per fissare la famosa triumvirale alleanza che decise della sorte politica dell’orbe romano. (anno di Roma 698, avanti Gesù Cristo anno 56.)
    In tale occorrenza Lucca accolse fra le
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    sue mura i primi magistrati di varie provincie romane, moltissimi senatori, e circa 120 fasci di littori che servirono di treno ai proconsoli, ai propretori ec. Al quale proposito non senza ragione uno storico moderno ebbe a esclamare: “Tanto erano allora degenerati i romani dai padri loro, che essi adopravansi a favorire la tirannide con eguale ardore con quanto i prischi travagliato avevano per spegnerla”. – (PLUTAR. e SVETON. in Vit. Caesar . – MAZZAROSA, St. di Lucca Lib. I.)
    Una città, com’era Lucca al tempo dei Cesari, centro di un paese molto esteso e popoloso, doveva necessariamente essere fornita e decorata di grandiosi monumenti e di pubblici edifizj sacri e profani. Che se ora non restano di quella età altro che rarissimi avanzi e sepolte sostruzioni d’informi mura, vedesi però il suo anfiteatro, specialmente nei muri esterni, in gran parte conservato sino alla nostra età. E fu ben provvida la misura presa da quel corpo decurionale di liberare da tanti imbarazzi di orride case l’interna arena per convertirla in una piazza regolare, e tale che ne richiami a prima vista la forme dell’antico edifizio.
    Dal congresso di Cesare a Lucca fino alla disfatta dei Goti data da Narsete, cioè, durante il lungo periodo di circa 600 anni, tace la storia sulle vicende speciali al governo di queste città; e solamente per incidenza è rammentata da Plinio il vecchio la colonia di Lucca, con avvertire che a’tempi suoi, Colonia Luca a mari recendes , non si accostava, come poi avvenne, col suo territorio sino al lido del mare. – Vedere LUCCA DUCATO.
    Sotto il regno di Teodorico gli ordini delle magistrature continuarono però a un di presso come quelli introdotti durante il romano impero; talché si può ben credere, che Lucca al pari di Pisa e di altre città primarie della Toscana annonaria avesse i suoi Decurioni, Duumviri, Edili, Questori, Censori, Quinquennali ed altri magistrati, molti
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    dei quali sono rammentati ai paragrafi 52 e 53 nell’Editto di quel savio re dei Goti.
    Nell’anno 553 dell’Era volgare la città di Lucca sostenne un lungo assedio contro l’esercito dei greci, condotto dal valoroso Narsete. Cosicché nel tempo, in cui le altre città della Toscana inviavano i loro ambasciatori incontro all’armata vittoriosa, Lucca sola osò chiudere le sue porte al favorito eunuco di Giustiniano.
    Che se dopo una resistenza di tre medi questa città fu costretta a capitolare, ciò non ostante, o fosse in riguardo al dimostrato valore, o fosse in vista dei vetusti suoi pregj, fatto è, che Lucca ottenne dal prode vincitore onorevolissime condizioni, e tali da poter contare da quell’epoca il suo primo governatore civile e militare col titolo di duca; titolo che venne posteriormente, e forse con una più estesa giurisdizione, sotto il regno de’Longobardi rinnovato.

    LUCCA SOTTO I RE LONGOBARDI

    Due quesiti lascia tuttora indecisi la storia all’oggetto di sapere; 1.° l’anno preciso dell’occupazione della Toscana per parte dei Longobardi; 2.° qual forma di governo politico nei primi tempi essi vi stabilirono. – Quindi in tanto bujo e incertezza convien limitarsi a dire che, almeno dal lato occidentale della Toscana, e conseguentemente i territori di Pisa, di Lucca e di Luni dovevano essere caduti in balia dei nuovi conquistatori dell’Italia, allora quando un loro duce, Gummarit , verso l’anno 574 o 575, metteva a ferro e fuoco le maremme di Populonia, sicché quella contrada fu poi riunita alla giurisdizione politica lucchese. – Vedere CORNIA, e CORNINO ( CONTADO e SUBURBIO. )
    Ignorasi egualmente, se uno o più duchi esistessero in questa Marca nel tempo medesimo; se vi fossero conti, oppure, se i soli gastaldi regii presedessero nel primo secolo al governo delle città di Toscana. – Avvegnaché ad eccezione del passeggero conquistatore delle maremme di Piombino, e di un duca Allovisino rammentato nella
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    copia di un diploma del re Cuniperto, dato in Pavia nell’anno 686, riguardante la fondazione della chiesa di S. Frediano a Lucca: ad eccezione di due lettere di S. Gregorio Magno, che danno un cenno del ministero municipale di Pisa e di Sovana, poco più ne sappiamo dei Longobardi e del loro governo ( ERRATA : nel secolo IV) sulla fine del secolo VI dell’Era cristiana introdotto in Toscana.
    In una penuria di tanta sproporzione in confronto del desiderio che avrei di porgere qualche munuscolo all’istoria patria, mi converrà imitare quel villico, che per bisogno di pane va e poi torna più volte a spigolare il suo piccolo campo, per raccattare anche le più sterili spighe.
    Per quanto Lucca possa dirsi fra tutte le città della Toscana la sede prediletta di alcuni duchi, per quanto essa conservi negli archivii della sua cattedrale documenti vetusti e preziosissimi, pure conviene ingenuamente confessare, che di Lucca longobarda e dei suoi duchi non si scuoprirono finora memorie sicure anteriori al secolo VIII.
    Il primo frattanto a comparire alla luce col titolo speciale di duca lucchese è quel Walperto, di cui troviamo fatta menzione in un istrumento di donazione stipulato in Lucca nel mese di agosto dell’anno 713, cum gratia Domni Walperti Duci nostro (sic) civitatis nostre Lucensis . (MURAT. Ant. Med. Aevi .)
    Mancato ai vivi il duca Walperto, incontrasi nella cronologia dei duchi di Lucca una lacuna, dal 737 al 754, non ancora ch’io sappia, riempita da memorie coeve. Lo stesso Muratori trasse fuori da quel dovizioso venerando archivio arcivescovile una pergamena dell’anno 755, che il Bertini per intiero, esattamente copiandola dall’originale, ristampò nel T. IV delle Mem. Lucch . Nella medesima carta si rammenta un altro duca per nome Alperto, il quale nell’anno 754 (di luglio) aveva preseduto a un contratto di permuta di beni che il pittore Auriperto teneva dal patrimonio regio, per cambiarli
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    con altri della chiesa lucchese.
    Né vi sono documenti sufficienti a far ammettere fra i duchi lucchesi Desiderio, che fu poi re, e il di lui figlio Adelchi, per quanto il primo tale venisse contemplato dal Sigonio, ed il secondo dallo storico lucchese Niccolò Tucci.
    All’ultimo periodo del regno dei Longobardi dovrebbe bensì appartenere il duca Tachiperto rammentato col titolo di duca in una pergamena dell’Archivio Arcivescovile Lucchese del giugno 773. Sebbene anche in quella carta non sia specificato altro che una casa del duca Tachiperto dentro Lucca, pure alcune circostanze sembra che concorrano a dar peso alla congettura, cioè, che il duca Tachiperto corrisponda allo stesso personaggio, il quale assisteva come testimone a un istrumento celebrato nel luglio del 783 in Cantignano nel lucchese. Col quale atto Perprando figlio del fu Walperto (forse di Walperto che trovammo nel 713 duca di Lucca) donò ad una sua figlia terreni posti nel distretto di Rosignano, cui si sottoscrisse come testimone, Tachiperto flilius b. m. Ratcausi de Pisa testis . – (ARCH. ARC. PIS.)
    Se io qui male non mi appongo, questo documento mi sembra di tale importanza da farci rintracciare nel donatario Perprando , e nel testimone Tachiperto , i progenitori di due illustri famiglie longobarde stabilite fino d’allora nella città di Pisa. Voglio dire, in Perprando il fratello del vescovo di Lucca Walprando e di Petrifunso, figli tutti di quel Walperto che fu duca della città di Lucca; mentre in Tachiperto , figlio del fu Ratcauso pisano, potria per avventura trovarsi un fratello di S. Walfredo fondatore del monastero di Monteverdi, che nacque pur esso da Ratcausi cittadino di Pisa, e che possedeva insieme con Tachiperto corti, predii e saline nel territorio di Rosignano e di Vada.
    Fino a qui dei duchi lucchesi sotto il regno dei longobardi, durante il quale regime Lucca ci fornisce un pittore regio, qualche orefice
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    e dei lavori d’oro e di cesello, mentre al medesimo periodo gli archeologi assegnano alcuni dei più vetusti tempj esistenti tuttora in Lucca. – Finalmente contasi tra i privilegii più segnalati che gli ultimi re Longobardi concederono a Lucca egualmente che a Pisa, quello della zecca per battere in queste due città moneta di argento e d’oro; giacché fino dall’anno 746 si contrattava in Toscana a soldi buoni nuovi lucchesi e pisani. ( Murat. Ant. M. Aevi Dissert. 74. )

    LUCCA SOTTO I RE FRANCHI E ITALIANI

    Se la storia non fu generosa abbastanza per indicarci il tempo preciso della conquista della Toscana fatta dai Longobardi, essa per altro non ne ha in qualche modo ricompensati col mostrarci fino dai primi anni della venuta di Carlo Magno in Italia un duca di Pisa e di Lucca nella persona medesima e al tempo istesso.
    Intendo dire di quell’Allone di nazione longobardo, il quale verso l’anno 775 tentò di far uccidere l’abate Gausfrido pisano, tornato ostaggio dalla Francia. Che cotesto Gausfrido fosse abate del Monastero di S. Pietro a Monteverdi, e succeduto immediatamente al governo di quella badia dopo la morte dell’abate Walfredo suo padre, ce lo disse il terzo abate di quel cenobio nella vita di S. Walfredo, riportata negli Annali benedettini, e ce lo confermano tre documenti dell’Archivio Arcivescovile di Lucca pubblicati nel T. IV delle più volte rammentate Memorie . – Vedere l’Articolo ABAZIA di MONTEVERDI.
    Non si è a parer mio fatto quel conto che merita di una lettera del Pontefice Adriano a Carlo Magno, registrata col numero 55 nel codice Carolino: sia per rapporto al personaggio qui sopra nominato, che Adriano raccomandava alla clemenza del re: sia per rintracciare l’epoca in cui dové quella lettera essere scritta, e a quali vittorie di Carlo volesse appellare.
    Nella stessa occasione Adriano supplicava la benignità del re, affinché, come aveva fatto di
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    Gausfrido dopo le vittorie da lui riportate, col rimandarlo a casa, così volesse favorire i vescovi delle città di Pisa, di Lucca e di Reggio, che egli riteneva sempre in ostaggio: ut ipsi Episcopi propriis sedibus restituantur etc.
    Presedeva in quel tempo alla chiesa lucchese il vescovo Peredeo, della di cui assistenza e richiamo in Francia fa egualmente fede una pergamena di quell’Archivio del 16 gennajo 783. Ma poco dopo la sconfitta dell’esercito di Ratcauso duca del Friuli (anno 776) Peredeo dové essere ritornato libero alla sua sede; avvegnaché nel marzo del 777, in Lucca egli stesso firmava un contratto di compra di beni per conto della cattedrale di S. Martino. (BERTINI, Mem. Lucch . T. IV).
    Da questo ultimo fatto ne conseguita, che le vittorie, cui appellava nella epistola 55 Adriano I, debbono richiamarci all’anno 776, quando Carlo Magno vinse e castigò i ribelli del Friuli. Alla stessa epoca pertanto doveva governare, se non tutta, una gran parte della Toscana quel duca Allone, contro cui nuovamente il Pontefice Adriano ebbe a reclamare presso il re Carlo, allorché nella lettera 65 del codice citato egli si lagnava di Allone medesimo, a motivo che non poté mai indurlo ad armare una flottiglia per dar la caccia e incendiare le navi dei Greci, i quali scendevano nel lido di Toscana per raccogliere i Longobardi, costretti dall’indigenza e dalla fame a sacrificare la propria libertà. Dalla qual lettera resulta, che l’autorità del duca Allone non ristringevasi al solo territorio di Lucca, tostoché Pisa e molta parte delle toscane maremme dipendevano dagli ordini di un solo governatore.
    Ciò sembra dimostrato eziandio dalla già indicata lettera 55 di Adriano I, con la quale pregava lo stesso re a ordinare al duca Allone di restituire le masse concesse a Gausfrido abate di Monteverdi. Le quali possessioni è noto, che esistevano in Pisa e nelle sue maremme, là dove tuttora conserva un vasto territorio
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    la casa illustre della Gherardesca discendente da quella prosapia. Inoltre sappiamo, che a confine dei beni della Gherardesca, fra Bibbona, Casale e Bolgheri, possedeva terreni ed un palazzo di campagna lo stesso duca Allone, palazzo che fu designato per molti secoli sotto il nome speciale di Sala del Duca Allone . – Vedere BOLGHERI della Gherardesca .
    L’ultima memoria del duca Allone sembra quella di un placido contro un chierico, celebrato in Lucca nell’agosto del 785, cui presedé con il Vescovo Giovanni anche il duca che si sottoscrisse: Signum Allonis gloriosi ducis, qui hanc notitiam judicati fieri elegit . – (MURATORI Ant. M. Aevi T. I.)
    Deve finalmente Lucca al duca medesimo la fondazione di una delle sue più antiche chiese con monastero, quella di S. Salvatore, alla quale nel secolo susseguente (anno 851) fu dato il nome che porta tuttora di S. Giustina, e che l’imperatore Lottario I assegnò in benefizio ad Ermengarda sua consorte e a Gisla loro figlia.
    Successe ad Allone nel governo di Lucca il duca Wicheramo, di cui si conservano tre documenti scritti; il primo dell’anno 796, il secondo dell’800, e il terzo dell’810, tutti originali esistenti nell’Archivio Arcivescovile Lucchese.
    Due fatti, per la storia dei tempi che percorriamo meritevoli di qualche attenzione sono questi; cioè, l’intervento e l’annuenza ( secundum Edicti paginam ) dell’autorità regia per mezzo dei duchi, gastaldi o altri messi regj, la maggior parte delle volte, se non in tutti i casi, in cui si trattava di permutare dei beni spettanti al patrimonio ecclesiastico. L’altro fatto degno di considerazione è quello di trovare Wicheramo (dall’anno 799 all’801) qualificato Duca , mentre in altra carta del 13 ottobre 810 si sottoscriveva col semplice titolo di Conte .
    Vero è che intorno a quest’età incominciò ad introdursi l’uso di dare al personaggio medesimo talvolta il titolo di Conte , e tale
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    altra quello di Duca , siccome sul progredire del secolo vi si aggiunse anche il qualificativo, forse con una giurisdizione più estesa, di Marchese . – Di un Duca e Conte nel tempo stesso può citarsi in esempio quel famoso conte Bonifazio I che, nel marzo dell’anno 812, intervenne in qualità di Duca a un placido celebrato in Pistoja, dove assisté pure, come delegato del Pontefice Leone III, Pietro Duca romano : mentre in altro giudicato celebrato in Lucca nell’aprile dell’813, al testé rammentato Bonifazio fu dato il titolo d ’illustrissimo conte nostro (cioè di Lucca); essendo intervenuto al giudicato medesimo uno Scabino di Pisa in qualità di delegato di Bonifazio, che ivi la seconda volta è chiamato laudabilis Ducis .
    Con il medesimo titolo di Conte , Bonifazio I è dichiarato nell’istrumento dell’823, quando Richilda del quondam conte Bonifazio fu ordinata badessa del monastero de’SS. Benedetto e Scolastica in Lucca; al quale atto prestò il suo consenso il di lei fratello Bonifazio II, che ivi si sottoscrisse dopo Richilda così: Signum Bonifatii Comitis germanus suprascriptae Abbatissae, per cujus licentiam hoc factum est . – Le quali ultime espressioni denotano a parer mio, non solo il consenso dato da Bonifazio come fratello di Rachilda, donna libera, ma ancora la licenza dell’autorità regia che Bonifazio II a quell’anno esercitava probabilmente in Lucca come conte della città.
    Dopo Bonifazio II incontrasi fra l’838 e l’845 un conte Agnano, del quale ci forniscono notizie varj istrumenti lucchesi e pisani. – Il primo di essi consiste in un deposto di testimoni esaminati in Lucca nel mese di aprile all’anno 838; nella qual scrittura si dichiara Agano comes istius civitatis , e con lo stesso titolo di Conte ivi si sottoscrisse.
    Il secondo atto rogato lì 31 marzo dell’839, verte
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    sopra un cambio di beni fatto da Berengario vescovo di Lucca a nome della sua chiesa, ricevendone altri posti in Sorbano; al qual contratto di permuta il conte Agnano diresse i suoi messi e periti.
    Lo stesso conte nell’840, di febbrajo, sedeva in giudizio in Lucca nella corte della Regina con i messi imperiali e con altri giudici straordinarii per decidere di una controversia fra il Monastero di S. Silvestro e quello di S. Ponziano fuori Lucca.
    Finalmente in due carte dell’842 e del 844 si rammentano le terre che possedeva in Lucca il conte Agano , chiamato talvolta conte Aganone .
    Ma questo conte, non si sa per qual causa, privato che fu della sua carica, per contratto del 2 novembre dell’anno 845, ottenne da Ambrogio vescovo di Lucca ad enfiteusi precaria per sé e per la sua moglie Teuberga per 5 anni i beni che la chiesa di S. Michele in Foro possedeva in Cascio nella Garfagnana col padronato della stessa chiesa, obbligandosi di retribuire ogn’anno un censo di 20 soldi d’argento.
    Finalmente in quella scrittura fu dichiarato, che se l’ex conte Agano , innanzi che terminassero i cinque anni dell’enfiteusi suddetta, ricevesse dal suo sovrano un benefizio super illud quod modo habemus, allora il contratto in questione dovesse rescindersi e dichiararsi nullo, e la chiesa di S. Michele con i suoi beni ritornasse tosto in potere e dominio della cattedrale di S. Martino senza alcun danno. (BARSOCCHINI, Mem. Lucch . T. V, P. II, p. 375.)
    Come andassero tali bisogne non lo so; la verità è, che del conte Agano dopo l’anno 845 non se ne parla più, e solo si rammenta in una carta dell’Archivio Arcivescovile di Pisa all’anno 858, quando si tenevano i giudizii in questa città in sala olim Aganonis comitis ; lo che è nuova conferma che i conti e duchi
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    di Lucca presedevano al governo di queste due città.
    Il successore più immediato di Agano, già conte di Lucca e di Pisa, lo presenta l’istoria nel potente Marchese Adalberto I figlio di Bonifazio II, che trovammo nell’823 conte in Lucca. – La memoria più antica relativa al figlio di Bonifazio II la fornisce un placito del 25 giugno 847 pronunziato in Lucca nella corte ducale dall’ illustrissimo Duca Adalberto, assistito da Ambrogio vescovo di essa città, dal gastaldo, da varii scabini giudici e da altri personaggi, in causa di beni reclamati dall’avvocato della pieve di Controne. – Vedere CONTRONE in Val di Lima.
    Egli è quello stesso Adalberto, che col titolo e in qualità di Marchese, come inviato dell’Imperatore Lodovico II, unitamente a Giovanni vescovo di Pisa, sentenziò in Lucca in una causa d’appello, nell’aprile dell’853, ad oggetto di annullare un contratto enfiteutico. È quell’Adalberto medesimo, che nell’anno istesso e pochi giorni innanzi (13 marzo 853) come Conte di Lucca, inviò i suoi messi a S. Gervasio in Val d’Era per accordare il consenso regio a un contratto di permuta di beni di una chiesa di quel pievanato ( S. Maria di Val di Chiesa ) presso Feruniano , situata alla destra del fiumicello Rotta . Nella stessa qualità di conte di Lucca e per un consimile oggetto troviamo di nuovo Adalberto I nominato in altri istrumenti di permute di beni ecclesiastici, fatti in Lucca li 29 giugno dell’855, e sotto i 26 agosto dell’856. (BARSOCCHINI, Memor. Lucch . T. V. P. II)
    Per quanto dai documenti poco sopra accennati resulti che il figlio del conte Bonifazio II usasse, ora del titolo di marchese, ora di quello di duca, e più spesse volte di conte, non sempre per altro egli riunì le doppie ingerenze di conte della città di Lucca e di marchese della Toscana.
    Avvegnaché, se nel giudicato del 25
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    giugno 847 egli figurava in Lucca come duca, non comparisce però in un placito straordinario del dicembre 858, celebrato nella corte ducale dai giudici dall’imperatore Lodovico II destinati a rivedere le cause nelle parti della Toscana, dove v’intervenne con Geremia vescovo di Lucca il conte Ildebrando di lui fratello. All’incontro in qualità di duca il Marchese Adalberto, nel 27 giugno 873, tornò a presedere nella corte ducale di Lucca in una causa promossa a nome di quella cattedrale. – (MURATORI, e BARSOCCHINI nelle Opere citate ).
    Che il nominato conte Ildebrando nell’857, ed anche diversi anni dopo, esercitasse le funzioni di conte in Lucca, dove era vescovo il di lui fratello, e dove teneva la sua più costante residenza il di lui amico Adalberto marchese di Toscana, mi confortano a crederlo due altri documenti di questa stessa città.
    Il primo è un contratto del 9 ottobre 862, fatto in Lucca e firmato dal conte Ildebrando figlio del fu Eriprando , riguardante un cambio di beni che la mensa vescovile lucchese possedeva nelle maremme di Roselle, cambiati con altri possessi del conte Ildebrando situati in Val di Serchio, e che il contraente medesimo rilasciò a Geremia, il quale ivi si qualifica gratia Dei hujus Lucanae ecclesiae humilis episcopus germano meo.Vedere ISCHIA d’OMBRONE.
    Verte il secondo contratto intorno ad altri beni, che il vescovo Geremia a nome della sua cattedrale, li 29 marzo 863, affittò al di lui fratello conte Ildebrando, consistenti in certe possessioni che quest’ultimo nell’anno antecedente aveva cambiate con altre della chiesa lucchese situate nelle Maremme.
    In questo suddetto anno nel dì 20 di agosto, trovavasi pure in Lucca il duca Adalberto, la di cui annuenza fu interposta in una delle solite permute di beni spettanti a una chiesa di Marlia; e nella stessa città due anni dopo capitò, inviato dall’Imperatore Lodovico II come messo straordinario, il
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    conte Winigisi, quello stesso che più tardi ritroveremo conte ordinario della città di Siena e del suo contado.
    Come duca viene il Marchese Adalberto designato in altra memoria dell’anno 866 (11 ottobre), e con doppio titolo di conte e di marchese trovasi qualificato in un placito celebrato in Lucca li 17 dicembre dell’anno 871; al quale atto furono presenti non solo i vescovi di Lucca, di Pisa, di Pistoja e di Firenze, ma ancora il conte Ildebrando ed Ubaldo fedele dell’imperatore Lodovico II.
    Questi due personaggi uniti al Marchese Adalberto I sono celebrati dagl’istorici di quell’età: mentre il Marchese Adalberto I figura per un sempre più crescente potere, non che per la sua versatile politica negli affari diplomatici dell’Italia; il secondo personaggio ci richiama a quel conte Ildebrando che lo storico Liutprando disse conte assai potente , e che fu costante amico ed alleato dei due marchesi Adalberti; dal quale Ildebrando trasse la sua origine la casa principesca dei conti Aldobrandeschi di S. Fiora e di Sovana.
    Nel terzo personaggio veggo quel Marchese Teubaldo di legge ripuaria , ossia quel valoroso Ubaldo , che Cosimo della Rena segnalò padre del Marchese Bonifazio di Spoleto e Camerino; cioè lo stesso di quello che nell’892 alla presenza di tre eserciti regj nei campi di Pavia con la spada fece valere l’onore italiano vilipeso da un’insolente soldato tedesco (LUITPRANDI, Histor . LIB. I cap. 7.)
    In una parola dai documenti del secolo IX accennati dal Fiorentini, e resi di pubblica ragione dal Muratori o dagli Accademici lucchesi nelle Memorie per servire alla storia del ducato di Lucca , si ha motivo di concludere, che non solo il Marchese Adalberto I fece in Lucca la sua più ordinaria residenza, ma che egli qualificossi senza alcuna distinzione di tempo, conte, duca ed anche marchese.
    Basta
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    per tutti il contratto del 25 aprile 873 riguardante una delle consuete permute di beni spettanti alla chiesa di S. Donato fuori la porta di Lucca, beni che confinavano con il prato e le terre della contessa Rotilde conjux Adalberti comitis ; ad esaminare l’utilità della quale permuta Adalbertus Dux direxit missos suos . Questo documento giova anche a scuoprirci l’epoca, nella quale il prato di S. Donato, attualmente detto il prato del Circo, prese e conservò per lunga età il nome di prato del Marchese.
    Fra le pergamene inedite pubblicate di corto nelle Memorie lucchesi trovasi un diploma di Carlomanno spedito in Verona li 22 novembre dell’877, a favore e ad istanza del vescovo di Lucca Gherardo che trovossi presente a quell’atto. – Se in compagnia del Vescovo si recasse a Verona presso Carlomanno anche il conte della città non è noto. Furono bensì rese note dalla storia le violenze che il marchese Adalberto I usò contro il Pontefice Giovanni VIII per favorire il partito di Carlomanno, allorché nell’anno 878 insieme col suo cognato Lamberto duca di Spoleto corse a Roma con gente armata per indurre quel sommo gerarca a porre la corona imperiale sul capo del re Carolingio. Il quale affronto tirò addosso ai due principi l’ecclesiastiche censure, benché restassero nell’anno dopo assoluti. – In questo mezzo tempo il Marchese Adalberto era ritornato alla sua residenza ordinaria di Lucca, dove lo ritroviamo nel novembre dell’anno 878, ed anche nel settembre successivo, insieme col suo potente amico il conte Ildebrando degli Aldobrandeschi. – Dissi alla sua sede ordinaria di Lucca, mentre lo stesso marchese governava anche altre città, e forse fin d’allora da lui dipendeva tutta la Toscana. Infatti in una delle consuete permute di beni, fatta nell’ottobre dell’anno 878 da Giovanni vescovo di Pisa, v’intervenne un messo d’ Adalberto , che in quella carta viene qualificato col semplice titolo di conte ,
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    quasi per dirci che un solo conte presedeva, come un solo duca ai tempi dei Longobardi, alle due città e contadi lucchese e pisano. – (MURAT. Ant. M. Aevi T. III).
    Dal settembre dell’879 al giugno dell’881, e quindi da questo mese al maggio dell’anno 885, mancano istrumenti che diano un qualche cenno del governo di Lucca e del suo reggitore Marchese Adalberto; ed è ben pochissimo ciò che le pergamene superstiti dell’Archivio Arcivescovile Lucchese accennano di lui, del suo figlio e molto meno dei di lui nipoti succeduti quasi a titolo ereditario nel marchesato della Toscana.
    Uno fra i più importanti documenti relativi al Marchese Adalberto I è quello della fondazione della Badia dell’Aulla, rogato in Lucca li 26 maggio dell’884; documento, in cui si nominano tre generazioni di quella potente prosapia; cioè, il conte Bonifazio e la contessa Berta sua moglie, dai quali nacque Adalberto I che ebbe in prime nozze Anansuare, ed in seconda moglie Rotilda figlia di Guido duca di Spoleto. Quest’ultima partorì Adalberto II ed un altro conte Bonifazio, entrambi sottoscritti col padre a piè dell’istrumento di fondazione testé citato.
    Quando precisamente cessasse di vivere Adalberto I non è ben chiarito. Giova bensì aggiungere, qualmente fra l’888 e l’889, Adalberto I cominciò a dar saggio della sua torbida politica; mentre, dopo aver giurato fedeltà al re Berengario, ribellò la Toscana affidata al suo governo per favorire il re Guido zio della sua seconda moglie, a di cui sostegno accorse alla testa di 300 corazze anche il valoroso Ubaldo, quello stesso che tre anni dopo ritornò sotto Pavia seguace sempre del re Guido. – (ANONIM ., Panegiric. Berengarii in Rer. Ital. Script . T. II. P. I.)
    Come segno indubitato del riportato trionfo sopra Berengario, e della gratitudine del re Guido verso il marchese Adalberto I, può contarsi un diploma spedito da questo re li 26 maggio 890 dal contado di Pavia, ad istanza del Marchese Adalberto
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    suo diletto nipote in favore di Zanobi vescovo di Fiesole. – Vedere FIESOLE.
    Frattanto andavano di male in peggio gli affari del re Berengario, troppo soperchiato da maggiori forze dell’Imperatore Guido e dei molti principi suoi fautori.
    Altro ripiego non avendo, egli si rivolse al potente Arnolfo re di Alemagna, dal quale, nell’anno 893, ottenne valido ajuto, coll’inviare un’armata sotto il comando di un figlio, il quale s’incamminò a dirittura alla volta di Pavia, dove era postato col nerbo delle sue genti lo stesso Imperatore Guido.
    Fu in questa circostanza, e in mezzo agli accampamenti di Pavia, quando il valoroso Ubaldo, non volendo soffrire le invettive di un soldato dell’esercito di Arnolfo contro gl’italiani, andò ad incontrarlo nel campo, e venuto seco a duello, gli trapassò con la lancia il cuore.
    Da questo fatto presero ardire gl’Italiani, terrore i Bavaresi, ed il figlio del re Arnolfo, o per pecunia avuta, o com’altri vogliono, per richiamo del padre, se ne tornò con le sue truppe in Baviera: cui tenne ben tosto dietro Berengario per supplicare con più efficacia il re Arnolfo di venire egli stesso in Italia a prendere possesso del regno che gli avrebbe rinunziato. Alla qual risoluzione Arnolfo fu indotto dalle istanze eziandio di molti baroni italiani inviati dal Pontefice Formoso con lettere piene di lamenti sulle oppressioni fatte dall’Imperatore Guido alla chiesa romana, per cui caldamente lo invitava a sollecitare quella spedizione.
    Dondeché Arnolfo avendo raccolto una formidabile armata, sulla fine dell’anno 893 si mosse verso l’Italia, accompagnato dal suo protetto Berengario. – Dopo le prime favorevoli imprese nella Lombardia, corsero i marchesi d’Italia a sottomettersi al vittorioso re; fra i quali specialmente si contarono Adalberto II marchese di Toscana, e Bonifazio suo fratello. E perché non piacquero ad Arnolfo le indiscrete pretensioni di questi, che volevano l’investitura di varii feudi o governi, prima di tutto li fece arrestare, poi liberare, previo giuramento di fedeltà; comecché i due fratelli
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    se ne fuggissero di là senza far caso della giurata fede. – (MURAT. Annal. all’ann. 894 .)
    Gl’istorici lasciaron con tuttociò a desiderare, se fu per non dispiacere Arnolfo, o piuttosto per qualche altra ragione, che in Lucca al pari che in altre città della Toscana si lasciò di notare il nome e i titoli del re Berengario, dopo morto l’Imperatore Guido (dicembre dell’894). Imperocché un istrumento dell’archivio Arcivescovile Lucchese, rogato li 30 novembre di quell’anno, segna la data cronica: regnante domino nostro Wido gratia Dei Imp. Augusto, anno imperii ejus tertio, pridie Kal. Decembris, Indit. XIII , e in altro di data posteriore leggesi: Anno ab Incarnatione Dom. nostri J. Xti 894 post ovito Dni. nostri Widoni imperatoris anno primo. Kal. Januarii, Indit. XIII .
    Durò bensì pochi mesi a stare Lucca in siffatta incertezza di regnanti, tostoché nell’aprile dell’895 essa già riconosceva per sovrano Lamberto, siccome lo dimostra una carta del citato Archivio Arcivescovile scritta, Regnante Dno. Nostro Lamberto gratia Dei Imp. Aug. Anno imperii ejus quarto, quinto idus aprilis, Indit XIII .
    La stessa nota leggesi in tutti gl’istrumenti lucchesi posteriori all’aprile dell’895, mentre quelli del più volte citato archivio arcivescovile, all’anno 896, non hanno data cronaca di alcun regnante, notandovisi solamente quella dell’Era volgare. ( Memor. Lucch . T. V. P. II.)
    Ciò starebbe in armonia con la istoria del tempo, la quale ne insegna, che il re Arnolfo stimolato da nuove e calde istanze del papa Formoso, nel settembre dell’anno 895 s’incamminò per la seconda volta con un numeroso esercito nell’alta Italia, che prestò soggiogò; in modo tale che, nel dicembre dell’anno medesimo, con una grossa divisione varcando l’Appennino di Pontremoli egli recavasi in Toscana, dove l’attendeva il Marchese Adalberto II per degnamente festeggiarlo, non a Luni, ma nella città di Lucca, dove Arnolfo celebrò il S. Natale. (MURAT. Annal. all’ann. 895 .)
    Mentre però questo monarca con parte del suo
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    esercito svernava in Toscana, egli ebbe sentore che il marchese Adalberto II, forse mal soddisfatto del procedere del re bavaro, segretamente si maneggiava con Berengario per ribellarsi contro esso lui; sicché Arnolfo avviatosi a Roma, dopo essere stato dal Pontefice Formoso incoronato imperatore, se ne ritornò in Germania, lasciando campo ai suoi rivali di risorgere dall’abbattimento e riacquistare più sicuro dominio, a Berengario e Lamberto sulla Lombardia, ad Adalberto sulla Toscana.
    Infatti da un documento dato alla luce nel T. V. P. II. delle Memorie lucchesi, si conosce, che sul finire dell’anno 896 l’autorità dell’Imperatore Lamberto era nuovamente riconosciuta in Lucca, siccome lo doveva essere per tutta la marca, e segnatamente in Firenze. Realmente in quest’ultima città, nel 4 marzo dell’897, fu tenuto un placito da Amedeo conte del S. palazzo, in qualità di messo straordinario, inviato dall’imperatore Lamberto in Toscana, dove sedé col giudice imperiale il Marchese Adalberto II.
    Però questo nostro marchese non istette lungo tempo fermo nel partito dell’Imperatore Lamberto; avvegnaché alcuni istrumenti lucchesi, del marzo dell’anno 897, notano solamente l’epoca dell’Era volgare, tacendo il nome e gli anni del sovrano che allora dominava in Italia.
    Alla primavera dell’anno 898, per istigazione della principessa Berta figlia del defunto Lottario re della Lorena, il di lei marito Adalberto II tornò ad alienarsi dall’augusto Lamberto; per modo che egli con il suo amico conte Ildebrando, dopo aver ragunato per la Toscana un esercito tumultuario s’incamminarono insieme per Pontremoli e monte Bardone fino a Borgo S. Donnino.
    Intanto avvertito di questa mossa l’Imperatore con una mano di gente a cavallo venne da Marengo incontro ai ribelli, i quali al primo impeto si dispersero con la fuga del conte Ildebrando, e la prigionia del marchese Adalberto.
    Quindi ne conseguì che, prima del settembre dell’848, Lamberto tornò ad essere riconosciuto imperatore in Lucca e nella Toscana, siccome lo dimostrano le note cronologiche di un istrumento della cattedrale lucchese, sotto il di 13 agosto 897, senza dire
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    degli altri, dal marzo alla fine di settembre dell’anno 898, celebrati nella stessa città o nel suo territorio, i quali atti portano tutti la nota cronica: Regnante Domno nostro Lamberto gr. Dei Imperatore Augusto, anno regni ejus septimo. – Simili avvertenze giovano a confermare, che realmente al principio di ottobre dell’898 dovè accadere il caso funesto che tolse di vita il giovine imperatore.
    Tale inaspettato accidente fece risorgere la fortuna del re Berengario suo emulo, in guisa che questi assai presto senza aperta opposizione venne accolto nella capitale dei re Longobardi; e in seguito di ciò il Marchese Adalberto, Lucca e le altre città della Toscana prestarono a Berengario obbedienza ed omaggio.
    Il primo fra gl’istrumenti lucchesi dati alla luce, con il nome di Berengario segna l’anno XII del suo regno, e porta la data del 24 ottobre dell’899, nella città di Pavia, dove quel sovrano liberò dalla prigionia il Marchese Adalberto, per rinviarlo al suo pristino governo della marca di Toscana.
    Che realmente questa provincia di buon ora si assoggettasse, e riconoscesse in Berengario il suo monarca, ne fanno piena fede i documenti lucchesi comparsi recentemente alla luce; dai quali si ha pure indizio che, nel novembre dello stesso anno, il Marchese Adalberto II era tornato alla sua residenza di Lucca.
    Appartengono a quest’ultimo periodo del secolo IX due gravi sciagure pubbliche quella, cioè, dei fierissimi Ungheri scesi a devastare l’alta Italia, dove fecero provare tutta la loro rabbia e furore ad un esercito numerosissimo comandato dal re Berengario; l’altra fu la comparsa di qua dalle Alpi di un’armata di Provenzali e Borgognoni condotta da Lodovico III figlio di Bosone re di Provenza; il quale, per broglio di alcuni magnati italiani della fazione dei due estinti imperatori, Guido e Lamberto, fu invitato a calare in Lombardia, comecchè dovesse egli tosto rivalicare le Alpi per essere corso a combatterlo con forze molto maggiori il re Berengario assistito eziandio dal Marchese Adalberto.
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    /> Fuvvi anche chi scrisse, esser nato in seguito di ciò qualche dissapore fra Berengario e Adalberto; sicchè questi, ad instigazione specialmente dell’ambiziosissima sua moglie Berta, movesse desiderio in altri principi d’Italia d’invitare di nuovo Lodovico di Borgogna e unire in comune le forze e maneggi, per assisterlo alla conquista di un sì bel regno.
    Comunque sia è certo, che Lodovico III tornò a ripassare di qua dalle Alpi, e già nell’ottobre dell’anno 900 egli era signore della capitale di Lombardia. Fu costà in una gran dieta di vescovi, di marchesi, di conti e notabili del regno, quando ad istanza di Adalberto illustre marchese della Toscana il nuovo re d’Italia concedè un privilegio a Pietro vescovo di Arezzo, con la data del 12 ottobre anno primo del suo regno. Il qual privilegio venne poi dallo stesso monarca riconfermato li 2 marzo dell’anno successivo (901) davanti al Pontefice Benedetto IV in Roma, dove Lodovico erasi recato a ricevere la corona imperiale.
    Accadde probabilmente al ritorno dall’alma città, allorchè l’Imperatore Lodovico III, si trasferì con tutta la sua corte a Lucca. Tale fu la magnificenza e lo sfarzo, di cui in questa circostanza il ricco marchese Adalberto volle far mostra, che l’Imperatore dovè prorompere in non equivoche parole di sorpresa, quasi dicendo: che cotesto signore in nulla cedeva a un re, toltone il nome.
    Ciò bastò ad Adalberto e all’accortissima sua donna per cambiare nuovamente bandiera, e rivolgere più benigni il loro animo verso l’abbattuto Berengario, col fine di ajutarlo a scacciare d’Italia il re provenzale.
    Se non dicesse la storia in qual tempo preciso ciò accadeva, restano negli archivii scritture sufficienti a indicarci che Lucca, allora sede e capitale della provincia Toscana, sino dai primi mesi dell’anno 903 era tornata a riconoscere in sovrano quello stesso Berengario che fu poi dal Marchese Adalberto, nel giorno 10 novembre dell’anno 915, accolto in una sua villa suburbana di Lucca, mentre nell’anno XXVIII° del suo regno
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    quel re passava di Toscana per recarsi a Roma a prendere dal Pontefice Giovanni X la corona e il titolo d’imperatore.
    Intorno a questo tempo alcuni scrittori pongono un atto di donazione, col quale il Marchese Adalberto II, per rimedio dell’anima sua, rilasciò a favore della cattedrale lucchese le decime di 5 corti che egli possedeva in Lucca , a Brancoli , in Garfagnana , a Pescia e nel Borgo S. Genesio .
    Comecchè non si sappia con sicurezza l’anno della morte del Marchese Adalberto II, la quale da molti per congettura fu fissata all’anno 917, è certo per altro ch’egli mancò di vita in Lucca il mese di settembre: “ in sextodecimo septembre notante calendas ”. Così almeno leggesi in una lapida posta in quella cattedrale contenente un lungo elogio di quel marchese, per quanto egli fosse stato frequenti volte terrore dei papi, degl’imperatori e dei re.
    Aggiungasi, che un passo scorretto delle storie di Liutprando ha dato appiglio a molti scrittori per parlare di questo ricchissimo principe anche con più discredito di quel che voleva la verità; e ciò per aver confuso il Marchese Adalberto di Toscana con il Marchese Alberico di Roma: stantechè questo e non quello maritossi alla famosa Marozia patrizia romana. – ( ERRATA : MURAT. Annal. ad anno 817 . – RENA De’March. di Toscana ) (MURAT. Annal. all’anno 917 . – RENA De’March. di Toscana ).
    Se dopo la morte del Marchese Adalberto II non fu tanto presto investito nel governo di Lucca e della Toscana il Marchese Guido con la di lui madre duchessa Berta, ciò accadde probabilmente per trovarsi entrambi arrestati in Mantova d’ordine del re Berengario. Ma non potendo cotesto sovrano cavare dalle mani dei ministri fedeli all’accortissima duchessa le città e i popoli della Toscana, dovè finalmente risolversi a rimettere madre
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    e figlio in libertà col rinviarli in Toscana per governarla a nome di Berengario, e non già del re Rodolfo sopraggiunto di Borgogna. Imperrocchè sebbene questi con l’appoggio di varii principi avesse cacciato da Milano e da Pavia il vecchio Augusto, facendosi riconoscere per re d’Italia (anno 921), gl’istrumenti lucchesi ne accertano, che il duca Guido nel mese di marzo del 924 risiedeva in Lucca, dove egli governava a nome dell’imperatore Berengario, cioè nel mese medesimo, in cui un ingrato traditore a Verona barbaramente trafiggeva il Nestore degl’imperatori italiani.
    Fu compianta dai più la morte di così buon principe, sicchè negli atti pubblici di Lucca e di altri luoghi della Toscana, dal marzo del 924 fino al settembre del 927, riguardavasi come vacante il regno d’Italia. E sebbene Rodolfo credesse di avere in pugno questo regno, egli non doveva oramai ignorare che aspirava a salire sullo stesso trono un figlio del primo letto della duchessa Berta vedova del Marchese Adalberto II. Però questa donna dopo sessantatrè anni di clamorose vicende, nel dì 8 marzo del 925, mancò alla vita in Lucca, dove fu sepolta presso le ossa del marito nella cattedrale con un epitaffio che onora quella duchessa dei titoli di benigna e pia con molte altre pompose, e adulatorie attribuzioni.
    Era in questo mezzo tempo restata vedova per la morte di Adalberto marchese d’Ivrea la di lui consorte Ermengarda, figlia del fu Adalberto il Ricco, e di Berta duchessa di Toscana, la sorella in conseguenza del marchese Guido. Ella dunque non meno intrigante, né meno ardita dei suoi genitori, prevalendosi dell’assenza del re Rodolfo dall’Italia, seppe far tanto che, entrata in Pavia, sollevò contro quel monarca tutta la Lombardia per quindi governare il regno a suo arbitrio. Per la qual cosa accorso Rodolfo dalla Borgogna, ed assediata in Pavia Ermengarda, questa seppe con seducenti lusinghe chiamare a se Rodolfo e staccarlo dalle sue genti in guisa che, sbandatosi l’esercito, fu liberata dall’assedio
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    della città. Laonde sdegnati di tanta leggerezza del re borgognone, i principi italiani, ad insinuazione di papa Giovanni X, nell’anno 926 elessero in re d’Italia Ugo duca di Provenza fratello della stessa donna Ermengarda e di Giulio marchese di Toscana.
    Partì bentosto Ugo dalle coste della Francia per la Toscana, e nell’estate del 926 approdò insieme col fratello Bosone a Pisa, o piuttosto al Porto pisano, dove il Marchese Guido attendeva il fratello uterino eletto re. Appena si seppe il di lui arrivo in Italia, accorsero da Roma e da molte altre parti della penisola ambasciatori, principi e magnati a Pisa; la quale città pare che anche allora avvicendasse con Lucca la sede dei duchi di Toscana; dondeché Luitprando scrittore quasi contemporaneo qualificò Pisa, Tusciae provinciae caput . – (LUITPR. Histor. Lib . III c. 5).
    La prima scrittura pubblica, trovata in Lucca con l’intitolazione del testé nominato re d’Italia, è un contratto del 3 settembre dell’anno primo del regno di Ugo, indizione XV: vale a dire dell’era volgare, anno 926. – Immediatamente dopo la suddetta epoca gli atti pubblici lucchesi e dell’intiera Toscana portarono la nota dello stesso regnante, a nome del quale continuò a governare la provincia il duca Guido figlio di Adalberto II, siccome lo dimostra, tra gli altri, un istrumento di permuta di beni ecclesiastici, previa la disamina dei messi di quel duca. Il quale istrumento di permuta fu rogato in Lucca il dì primo di gennajo del 928, nell’anno secondo del regno di Ugo: ipsa die Kalend. Januarii, Indicatione prima. – Ma nell’anno medesimo 928 il marchese Guido dovè allontanarsi da Lucca e dal governo della Toscana per recarsi in Roma a operare inique cose insieme con la prepotente donna Marozia, dopo essersi unito a lei in matrimonio. Imperocché entrambi, nel 928, avendo segretamente armato una mano di sgherri, penetrarono nel palazzo del Laterano per trucidare sugli occhi del Pontefice Giovanni il di lui
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    fratello; e fu allora, quando per colmo d’iniquità le genti di Guido posero le mani addosso e cacciarono in un’oscura prigione a finire in brevi giorni una vita agitata il gerarca della chiesa apostolica romana.
    È ignoto se, dopo tante abominevoli azioni, Guido tornasse a Lucca e al suo marchesato, come pure resta a sapere l’anno preciso, in cui egli cessò di vivere, poiché nulla dicono su di ciò li scrittori del tempo, e in alcuna memoria, ch’io sappia, tra quelle finora venute alla luce, dopo il 928 si fa di quel marchese menzione.
    Si crede da molti che al Marchese Guido succedesse nel governo di Lucca e nel ducato di Toscana il suo fratello Lamberto, ma gli storici su di ciò non presentano documenti fuori di quanto raccontò nella sua il pavese Luitprando (Lib. III cap. 13) che descrisse in Lamberto un uomo bellicoso capace di gran fatti, e una spina sugli occhi del re Ugo, che temeva in lui un possibile rivale alla corona d’Italia, mentre dall’altro canto il fratello Bosone ardentemente anelava rimpiazzarlo nel governo della Toscana.
    Arroge a ciò che il re Ugo, essendosi deciso di sposare la principessa Marozia vedova di due, se non di più mariti, cercava modo e verso di levar di mezzo l’impedimento della parentela col mezzo di una calunnia sparsa a disonore di sua madre. Andossi pertanto vociferando, che Berta già duchessa di Toscana non aveva avuto dal marchese Adalberto II alcun figliuolo, e che i tre fratelli, Guido, Lamberto ed Ermengarda, erano tutti figli di altre donne, finti da Berta di averli essa partoriti, onde potere continuare anche morto il marito la sua autorità sulla Toscana. Poco dopo essersi sparsa per la corte simile ciarla, il re Ugo intimò al duca Lamberto che non ardisse di appellarsi più suo fratello. Allora quel duca, trovandosi colpito nell’onore, non meno che diffamato in quello dei genitori, fece sapere al re di esser pronto a
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    provare con la spada che, tanto Lamberto come Ugo, erano stati partoriti da una medesima madre. Destinato dal sovrano il suo campione, si venne alla prova dell’onore coll’accettato duello; nel quale Lamberto restò vincitore. Ma non per questo cessò la persecuzione regia contro il Marchese di Toscana: fino a che Ugo, avuto fra le mani l’odiato fratellastro, fece accecarlo, e cacciarlo dal suo governo per conferirlo al di lui fratello carnale. Così dopo la quarta generazione della progenie del primo conte Bonifazio, che signoreggiò circa 120 anni senza intervallo sulla provincia della Toscana, Lucca, dovè accogliere un principe di Provenza. Del dominio peraltro di Lamberto nella suddetta città, o in altri luoghi di Toscana, non esistono, ripeto, documenti che giovino a confermare quanto fu scritto su tale rapporto dallo storico Luitprando.
    Si trova bensì un primo indizio del duca Bosone, eletto marchese della Toscana, in un diploma dato in Lucca nel dì primo di luglio dell’anno 933, indizione V; col quale il re Ugo ad istanza del Marchese Bosone donò al capitolo della cattedrale di S. Martino la corte di Massarosa , quella possessione, cioè, che fu di proprietà della duchessa Berta loro madre.
    Il quale Bosone troviamo insieme col fratello monarca in altre parti della Toscana, e precisamente nel gennajo dello stesso anno 933 in Arezzo, dove il re Ugo, per aderire alle istanze del suo fratello Bosone, inclito marchese , confermò ai canonici della cattedrale aretina i beni lasciati loro dal vescovo Pietro.
    Ebbe Bosone conforme ai suoi antecessori il titolo di marchese promiscuamente a quello di duca, siccome da altri istrumenti lucchesi degli anni 935 e 936 apparisce. Quello del 16 settembre 936 è per avventura l’ultimo documento che faccia fede della presenza e del dominio del marchese Bosone in Lucca; conciossiachè dopo il settembre di detto anno accadde un’atto di soperchieria del re Ugo contro il già ben amato fratello. Aveva questi
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    per moglie Willa, nata da nobile famiglia di Borgogna, la quale partorì a Bosone quattro femmine senza maschi. Pervenne all’orecchio del re Ugo, che Bosone, ad istigazione della moglie, macchinasse contro di lui delle novità. Trovò bene Ugo la maniera di far imprigionare il Marchese di Toscana, e di spogliare i due conjugi delle accumulate ricchezze, ordinando che la moglie di Bosone fosse ricondotta in Borgogna. (LUITPRAND. Hist. Lib. IV, c. 5 – FREDOARD. Chron. ad ann . 936.)
    Dopo la caduta di Bosone mancano per molti anni i nomi dei governatori che ressero la Toscana. Esistono, è vero, negli archivii lucchesi e pisani due carte contenenti i giudicati dei re Ugo e Lottario, celebrati nel marzo dell’anno 941 nella corte regia di quelle due città.
    Dai quali documenti s’intende, che il Marchese Uberto figliuolo spurio del re Ugo, era in quel tempo duca della Toscana, e conte del sacro palazzo; e quasi fosse poco tanto onore egli dal monarca padre fu due anni dopo innalzato al governo della marca di Spoleto e Camerino.
    Peraltro all’anno 944 la sorte sembra che cominciasse a distaccarsi dal re Ugo, reso ormai odioso a tutte le classi della nazione; e già Berengario marchese d’Ivrea nipote dell’imperatore di questo nome, sospirato dall’universale, con poche truppe era calato dal Tirolo in Italia (anno 945) acclamato e festevolmente accolto qual liberatore da molte città della Venezia e di Lombardia.
    Questa repentina mutazione di cose influì non poco sulla fortuna del Marchese Uberto figlio del re Ugo, tostoché intorno al 946 troviamo investito del ducato di Spoleto e di Camerino un Bonifazio che fu figlio del Marchese Teobaldo o Ubaldo, che Cosimo della Rena ebbe ragione di credere lo stesso personaggio di quel valoroso Ubaldo amico del Marchese Adalberto I, più di una volta da noi qui sopra agli anni 871, e 893 rammentato.
    Nel 947 il re Ugo tornossne in Provenza dopo aver raccomandato
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    il re Lottario suo figlio alla fede dell’acclamato Berengario, che in lui qualche altro tempo conservò la dignità insieme con la potestà regia. Infatti Lottario era in Lucca nel 5 luglio del 948, nel qual giorno ad istanza del conte Aledramo egli firmò un privilegio a favore di un suo fedele. (MURATORI Annal . all ’anno 948.)
    È ignoto in quale città il conte Aledramo governasse, se nella marca di Toscana, o seppure egli era un personaggio medesimo di quello che fu poi marchese in Piemonte, nato dal conte Guglielmo e da Gelberga figlia dello stesso re Berengario, personaggio che tiensi per il progenitore dei marchesi di Monferrato.
    Si trovano bensì nell’archivio Arcivescovile lucchese altre pergamene, dalle quali si apprende, che il re Lottario nel marzo del 950, e forse fintantoché egli visse (novembre dello stesso anno), continuò a essere riconosciuto in Lucca per il legittimo sovrano.
    Poco dopo (15 dicembre 950) fu coronato in Pavia come re d’Italia Berengario II insieme col figliuolo Adalberto e con Willa di lui madre nata da quel Bosone che fu Marchese di Toscana.
    Se il Marchese Uberto riavesse il governo della Toscana in nome dei nuovi due re, non ci offrono memorie da poterlo asserire; bensì da un istrumento di vendita di beni posti a Pozzevoli e a Porcari, fatta dal Marchese Uberto a favore del nobile Teudimundo figlio di Fraolmo, si comprende, che nel 3 maggio del 942 in Lucca non si riconosceva ancora l’autorità dei due sovrani novelli, e neppur quella del re Ottone, che era di corto disceso la prima volta in Italia: giacché l’istrumento porta unicamente la data dell’Era volgare. – Che anzi in quel documento nominandosi Uberto col semplice titolo di Marchio filio bonae memoriae domni Ugoni regii , senza specificare di qual marca egli fosse duca, ciò indurrebbe a far credere che il Marchese Uberto si fosse ritirato
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    dal governo di Lucca e della Toscana. Molto meno vien fatta parola di lui in tutto il tempo che regnarono Berengario II e Adalberto, sotto il cui dominio alcuni credettero che signoreggiasse per poco in Lucca il conte Albert’Azzo figlio di Sigifredo illustre magnate lucchese. Dissi, per poco, avvegnacchè il conte Albert’Azzo fu quegli che ben presto si tirò addosso l’odio di Berengario, specialmente dopo che il re fu chiarito avere il Conte Albert’Azzo ricovrata nella sua rocca di Canossa Adelaide restata vedova in fresca età del re Lottario, e dallo stesso conte offerta al grande Ottone, che sulla fine del 951 la sposò in Pavia. Né corse molto tempo dacché Berengario II, dopo il ritorno di Ottone in Sassonia, saputo che la regina Adelaide era in Canossa, si portò con un esercito all’assedio di quella rocca, in cui Albert’Azzo per tre anni e mezzo si tenne saldo, finché nel 956 accadde la sua liberazione mercé di un esercito inviato di Germania dal re Ottone.
    Non ha la storia nostra autore alcuno, né comparvero finora alla luce scritture, dalle quali possa ricavarsi chi fossero i marchesi, che dal 951 al 960 dominarono Lucca. Perciocché del Marchese Uberto, figliuolo spurio del re Ugo, non se ne parla più dopo il maggio del 952, almeno nelle carte sincrone lucchesi.
    Infatti in un istrumento dell’Archivio Arcivescovile di Lucca dell’11 gennajo 960, sopra una rinunzia fatta in mano del Vescovo Corrado da Teuderada vecchia badessa del Monastero di S. Salvatore di Lucca, adesso di S. Giustina, a favore della monaca Grima eletta in sua vece al governo di quell’asceterio, si dichiara fatto quel rogito in Lucca, regnando Berengario e Adalberto, senza accennarsi l’intervento d’alcun duca, marchese o conte speciale di questa città.
    Il più che è da dire intorno ai governatori di Toscana durante il regno di Berengario II e del suo figlio, sarebbe di rammentare un diploma, dato in Verona nel 30
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    maggio 961, a favore dell’abbadia di Vangadizza, per le premure fatte ai due re, da Ugo marchese di Toscana, cioè , interventu ac petitione Ugonis marchionis Thusciae nostri dilectissimi fidelis. Dal che venghiamo a scuoprire, non solo che il Marchese Uberto non risiedeva più in Toscana, ma che gli era succeduto un Marchese Ugo dal Muratori tenuto per il gran conte figliuolo dello stesso Uberto, quando il Rena aveva opinato, che qui si trattava di un personaggio affatto diverso e forse a parere mio, del Marchese Ugo di legge ripuaria autore dei marchesi di Petrella, di Sorbello e del Monte S. Maria.

    LUCCA SOTTO I RE SASSONI E SVEVI

    Stava sempre a cuore del re Ottone, dopo la sua prima discesa in Italia (anno 951), di tornarvi con maggiori forze e con più stabilità, richiesto ed anche stimolato dalle ripetute istanze dei principi laicali ed ecclesiastici, che desideravano di avere un sovrano cotanto saggio non solamente re d’Italia, ma anche di vederlo Augusto, essendo l’imperio vacante sino dalla morte di Berengario I.
    Era già stato dalla dieta germanica dichiarato re d’Alemagna Ottone II, sebbene nella tenera età di sette anni, allorché il di lui padre nel 961 calò per la valle di Trento coll’esercito suo in Lombardia, dove fu ben accolto dall’universale, e in Milano proclamato re d’Italia. Recatosi quindi Ottone I a Roma, fra gli applausi del popolo con gran solennità nel dì 2 febbrajo dell’anno 962 fu dal Pontefice Giovanni XII incoronato Imperatore Augusto.
    Reduce di là i Toscana e in Lombardia, egli trovavasi ai 13 marzo dello stesso anno in Lucca; nel qual giorno spedì due diplomi, uno a favore di Uberto vescovo di Parma, che lo dichiarò conte , ossia governatore di quella città, l’altro ai canonici della cattedrale lucchese, cui confermò le donazioni delle corti lasciate loro da Ugo e Lottario. Un terzo privilegio a favore della badessa
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    Grima e delle sue monache in S. Giustina di Lucca lo stesso Augusto compartì nel 29 luglio dell’anno 964 all’occasione di un secondo suo ritorno da Roma in quella medesima città.
    Anche nel 3 agosto dell’anno stesso 964 Ottone I continuava a stare in Lucca, tostochè porta la data di esso giorno un diploma compartito al Monastero del Monte Amiata. – (ARCH. DIPL. FIOR. Carte della Badia Amiatina ).
    Oltre i documenti qui sopra accennati e quelli citati dal Rena e dai Fiorentini non trovo altre notizie della condizione civile di Lucca sotto il regno dei due primi Ottoni, né di alcun’altro dei suoi governanti, eccetto il gran conte Ugo figliuolo del Marchese Oberto salico e della contessa Willa nata da Bonifazio marchese di Spoleto. – Non sto a dire di un placito dato in Lucca nel 964 dal Marchese Oberto conte del S. palazzo, sotto i due primi Ottoni, trattandosi qui di un giudicato della corte suprema che in ultimo appello soleva darsi dai messi imperiali o dai conti del sacro palazzo, i quali ad intervalli inviavansi dai regnanti a render giustizia ai reclami che all’Imperatore presentavansi nelle varie parti dell’Italia.
    Il gran conte Ugo pertanto dovè governare, finché visse, la marca di Toscana oltre quella dell’Umbria, e fare di Lucca la sede principale. Infatti abitava in questa città la di lui madre quando essa, nel dì 8 luglio del 969, acquistò da un tal Zanobi la chiesa di S. Stefano in Firenze con case e terre annesse, situate nel luogo stesso dove quella pia donna fondò la badia fiorentina. Troviamo lo stesso Marchese Ugo, nell’aprile del 970, e di nuovo nel marzo del 971, ad esercitare atti governativi in Lucca, dove diede solennissime prove del suo potere, non solamente sopra la città ma sopra tutta la Toscana. Appella infatti ad una delle principali prerogative riservate ai regnanti quella per la quale il Marchese Ugo fece battere nella zecca
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    di Lucca moneta in nome proprio. Tali sono appunto quei due denari di argento illustrati dal cav. San Quintino, uno dei quali porta il monogramma di Ugo, e nel giro Marchio , mentre nel rovescio sono le lettere di Luca con la parola in giro, Civitate . Nell’altro denaro sta il nome di Ugo in mezzo e nel contorno Dux Tuscii ; nella faccia opposta la parola Luca e intorno il nome della consorte di Ugo, cioè: Dux Judita . – ( Atti dell’Accademia di Lucca T.I.).
    In realtà il marchese Ugo figurò sopra ogni altro principe italiano alla corte imperiale, tanto durante il regno di Ottone II, quanto sotto la reggenza e la minorotà di Ottone III.
    Dopo la morte accaduta in Sassonia, nel giugno del 991, dell’imperatrice madre del terzo Ottone, è credibile che il marchese Ugo tornasse da quella corte al governo delle sue provincie in Italia, tostoché nell’anno 993 Ottone III mandò ordine al gran conte Ugo di mettere insieme un esercito per condurlo, come fece, a punire i ribelli e gli assassini di Landolfo principe di Capua.
    Di là reduce in Toscana, troviamo nell’aprile del 995 lo stesso Marchese in Lucca, e quivi firmò un atto di donazione da esso fatta alla badia di Firenze fondata dalla Contessa Willa defunta sua madre. Ma sulla fine dell’anno medesimo egli passava dalla maremma di Orbetello, dove nel luogo Marta (ora la Torre delle saline sull’Albegna) nel dì 23 dicembre del 995 segnò un privilegio a favore dei monaci del Mont’Amiata. – (ARCH. DIPL. FIOR. Carte della Badia Amiatina ).
    Nel luglio del 996 il marchese Ugo era tornato a stare nella sua città di Lucca per ricevervi e onorare l’Imperatore Ottone III reduce da Roma; e fu nella villa di Vico poco lungi
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    dalla stessa città, dove quell’Augusto a preghiere del gran conte emanò un diploma per confermare all’abate di S. Salvatore a Sesto, fra le altre cose, il castello di Verruca che quel principe aveva rinunziato al suddetto monastero. Nuovamente nella villa di Marlia, fra l’agosto e il settembre del 998, Ottone III fu festeggiato dal suo dilettissimo marchese, e ciò dopo avere lo stesso toparca lasciato in Poggibonsi un’insigne testimonianza della sua pietà verso l’ordine monastico con una vistosissima dotazione all’abbadia da esso fondata nel poggio di Marturi (Poggibonsi).
    I documenti posteriori al 998 danno a conoscere, che il Marchese Ugo continuò fino all’ultima ora a fare la sua corte ad Ottone III, di cui apparisce che fu costantemente intimo e affezionato consigliere.
    Tale ce lo mostrano due privilegii imperiali, uno dei quali dato in Roma li 3 ottobre del 999, e l’altro in Bologna li 22 settembre del 1001. Con l’ultimo di essi Ottone III, per condiscendere alle istanze del suo dilettissimo duca , e marchese Ugo , donò a un di lui vassallo una possessione del patrimonio regio situata nella villa di Rigoli del territorio pisano. (CAMICI, dei Duchi di Toscana T.I.)
    Il privilegio ora citato sembra per avventura l’ultimo relativo agli affari del marchese Ugo in Toscana. Infatti egli nel novembre del 1001 corteggiava l’augusto sovrano a Bologna e a Ravenna; quindi nell’ultimo mese dell’anno essendosi egli recato insieme con l’imperatore a Roma, insorse costà una rivoluzione, nella quale molti cortigiani, e probabilmente lo stesso Marchese Ugo, per salvare Augusto furono fatti prigionieri o rimasero dai rivoltosi trucidati.
    Accaduta poco dopo la morte eziandio di Ottone III, molta parte dell’alta Italia, e forse anche Lucca, abbracciò il partito di quei principi che avevano chiamato sul trono dell’Italia il marchese Arduino d’Ivrea. Difatti da questo re d’Italia fu spedito in Pavia, li 20 agosto 1002, un privilegio a favore del monastero di S. Giustina, già di S.
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    Salvatore di Lucca. Sennonché due anni dopo il popolo lucchese e le altre città della Toscana, cambiando consiglio, risolvettero di riconoscere in legittimo re d’Italia Arrigo di Sassonia, detto il Santo , che fu primo re e secondo imperatore di questo nome. Quindi è che a nome del popolo toscano, nel mese di luglio del 1004, una deputazione recossi in Lombardia a prestare ubbidienza al monarca alemanno; lo che parve al Muratori indizio non dubbio, che allora la provincia della Toscana fosse senza capo, sia duca, oppure marchese, che la governasse.
    Realmente a quest’anno medesimo 1004 gli annali riportano un fatto d’armi combattuto fra i Lucchesi e i Pisani poco lungi da Ripafratta, fatto che per avventura può designarsi per il primo embrione di due nascenti repubbliche e di due città che rimasero per tanti secoli rivali.
    Se per altro la città di Lucca restò qualche anno priva del suo governatore, non è per questo che alla maggior parte dei Toscani mancasse il suo bassà. Tale ci sembra rappresentato dall’istoria quel Marchese Bonifazio di legge ripuaria figlio del conte Alberto, che può dirsi l’autore più remoto dei conti Alberti di Mangona. Veniva ad essere cotesto Bonifazio, per parte della contessa Willa, nipote del di lei marito, il Marchese Ugo, talché, o fosse astio e mal d’animo contro il defunto zio, o che i beni da quest’ultimo alla badia di Poggibonsi donati, appartenessero alla di lui moglie, sorella del Conte Alberto e figlia di Bonifazio Marchese di Spoleto, cosicché vi fosse ragione di riguardarli come beni allodiali della casa dei conti Alberti (la quale costà ne’contorni di Poggibonsi e per tutta la Val d’Elsa ebbe e mantenne per molto tempo estesa signoria); fatto è, che dopo entrato al governo della Toscana il Marchese Bonifazio, questi spogliò la badia di Poggibonsi d’ogni sostanza, costringendo i monaci ed il loro venerando abate Bonomio ad abbandonare quel claustro. – (ANNALI CAMALD. T. I. – CAMICI
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    Opera citata ).
    Le quali violenze contro i claustrali del poggio Marturi dovevano tre anni dopo essere cessate, seppure un’azione empia con un’azione pia non si voleva contemporaneamente offuscare oppure contrappesare; tostoché nel settembre dell’anno 1004 troviamo lo stesso Marchese Bonifazio nella montagna pistojese, per concedere in dono ai monaci di S. Salvatore di Fonte Taona un bosco o cafaggio con altre terre di sua pertinenza, situate in Baggio sopra Pistoja. – Vedere BAGGIO.
    Arroge a ciò un’altra donazione fatta, li 12 agosto 1009, nel castello di Pianoro nel territorio bolognese dal marchese medesimo alla badia fondata in Firenze dalla sua zia, alla qual badia egli cedé alcune corti poste nel Chianti e nella Val d’Elsa; donazione che fu poi confermata dall’Imperatore Arrigo II nel 1012, quando il Marchese Bonifazio non era più tra i vivi.
    Sebbene alcuni storici non si trovino d’accordo ad ammettere quest’ultimo marchese per governatore della Toscana, pure per tale ci confortano a crederlo due atti, di luglio 1008, e di ottobre 1014, esercitati alla presenza di due gastaldi del Marchese prenominato. (CAMICI. Oper. Cit .) Che più in una scrittura contemporanea appartenuta alla badia di Poggibonsi, quindi alle monache del Paradiso in Pian di Ripoli, ora nell’ Arch. Dipl. Fior ., si legge, Mortuo Ugo Marchio, cum Bonifatius filius Alberti factus esset Marchio, et monasterium, quod Ugo aedificaverat, devastaret, venit Marturi, etc.
    Comunque sia, sembra certo però che, dal 1002 sino almeno al 1016, in Lucca non fosse riconosciuto per capo del governo alcun marchese o duca di Toscana, mentre, né il marchese Bonifazio di legge ripuaria, né un marchese Adalberto di origine longobarda, che in Lucca nel 1002, e nel suo contado nel 1011 alienò dei beni aviti, nessuno di questi due signori sembra avere esercitato mai alcun dominio nella città e contado lucchese.
    Ve lo esercitò bensì il Marchese Ranieri figlio del conte
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    Guido, progenitore dei marchesi del Monte S. Maria e di Sorbello, nominato da S. Pier Damiano; il quale Ranieri sino dal 1014 figurava in qualità di marchese di Toscana; e come tale in nome dell’Imperatore Arrigo II, nell’ottobre del 1016, celebrò in Arezzo un placito assistito da Ugo conte della Città, Rainerius Marchio et Dux Tuscanus .
    È quel marchese Ranieri, rammentato dagli storici agli anni 1026 e 1027, il quale risiedeva in Lucca nel tempo in qui quasi tutta l’alta Italia, eccetto la Toscana, si era sottomessa all’impero del re Corrado. – Infatti fu nell’inverno dell’anno 1026, mentre questo re si avanzava dal Piemonte verso Roma per sottomettere strada facendo i Toscani, ed il ribelle Marchese Ranieri che in Lucca erasi fortificato, fu allora quando i Lucchesi col loro governatore, trovandosi a mal partito, si recarono supplichevoli incontro al monarca per sottomettersi ai suoi voleri. Volendo però stare al cronista Ermanno Contratto, sembra che cotesta sottomissione fosse preceduta da un qualche apparato di assedio, o da altra dimostrazione ostile accaduta nei contorni e sotto le mura della città di Lucca.
    Frattanto abbiamo in tale avvenimento un terzo memorabile esempio della posizione militare di Lucca e delle solide mura che dovettero difenderla, 1.° al tempo della repubblica Romana; 2.° sotto l’impero di Giustiniano; 3.° durante il governo dei marchesi di Toscana.
    Tali dimostrazioni d’insubordinazione a Corrado il Salico, incoronato poco dopo (26 marzo 1027) imperatore in Roma, fruttarono al marchese di Toscana, se non la vita, al certo la carica di governatore e la disgrazia del monarca. Quindi non fa maraviglia, se da quell’epoca in poi non si sente più rammentarlo negli atti pubblici di Lucca, né in quelli di altre città della Toscana.
    Bensì la storia ci mostra sino dall’anno 1028 a governatore della Toscana il padre della contessa Matilde, Bonifazio figlio del Marchese Tedaldo di Lombardia, e ciò nel tempo in cui un fratello del marchese Bonifazio sedeva nella cattedrale aretina.
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    /> Ci appalesa questo nuovo marchese prima di tutti una carta del luglio 1028, pubblicata dall’Ughelli (ITALIA SACRA, in Archiep. florent .) sfuggita alla diligenza di tanti accurati scrittori.– È una conferma di donazione della chiesa e Monastero di S. Miniato al Monte presso Firenze, con la quale il vescovo Lamberto approvò quell’opera pia del suo predecessore Ildebrando a benefizio spirituale del fondatore, dell’Imperatore Corrado, dell’imperatrice Gisla di lui consorte, del figlio loro Arrigo, come pure per la salute del clarissimo marchese Bonifazio .
    Anche più chiaramente questo principe è qualificato col titolo di serenissimo duca e marchese di Toscana in altro istrumento del 1032, mercè cui Jacopo Bavaro vescovo di Fiesole assegnò una dote al clero della sua cattedrale.
    Il valore militare, le ricchezze, l’estensione dei possessi ed i cospicui matrimonii fecero aumentare via via il potere e l’influenza politica del Marchese Bonifazio sulle faccende dell’Italia, talchè uno storico del secolo XII, (ARNULFI, Histor. Mediolan .) parlando dei principali magnati che in Italia fiorirono sotto l’impero di Corrado e di Arrigo III suo figlio, segnalò fra i primi Eriberto arcivescovo di Milano ed il marchese Bonifazio, qualificandoli duo lumina Regni .
    Non debbo omettere che, se Bonifazio non vi nacque, traeva bensì l’origine da Lucca, mentre egli era un discendente di quel Sigisfredo, che il biografo della contessa Matilde dichiarò Principe preclaro del contado di Lucca , equivalente cioè a un conte rurale .
    Che se la distanza dei secoli e l’oscurità dei tempi in cui visse il bisavolo di Bonifazio, non ci permisero di scuoprire in qual luogo fu il castello dov’egli ebbe i natali, restano per altro memorie di una villa del marchese Bonifazio più prediletta, e forse una di quelle ereditate dal bisavo Sigifredo. Intendo dire del palazzo di Vivinaja situato fra l’Altopascio, la Pescia minore e il castel di Porcari sopra una prominenza orientale del poggio su cui
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    risiede la Terra di Montecarlo.
    Infatti era costà il padre della gran contessa nel febbrajo dell’anno 1038, quando nel resedio campestre di Vivinaja con magnificenza regale accolse a onorevole ospizio il Pontefice Benedetto IX, l’Imperatore Corrado con l’augusta consorte e figlio, cioè: infra comitatu lucense intus casa domnicata domni Bonifacii marchionis ; e costà, il 22 febbrajo dell’anno 1038, fu celebrato un placito preseduto dal cancelliere imperiale con l’assistenza di alcuni vescovi, conti e giudici, nel luogo medesimo in cui nel giorno dopo l’imperatore Corrado emanò tre privilegii a favore dei canonici e della cattedrale di Lucca. (FIORENTINI, Memorie della contessa Matilda .)
    Chi volesse rintracciare l’ubicazione della villa signorile, testè rammentata, della sede di tante delizie, dove Bonifazio festeggiava la più illustre comitiva del mondo; chi volesse riconoscere quel luogo famigerato, animato da tanta gente e da tanto brio, non ritroverebbe attualmente che lutto e segni di tristezza; giacchè il luogo dove fu il palazzo ducale di Vivinaja, ora è destinato al riposo dei morti, al camposanto della popolazione di Montecarlo! Sic transit gloria mundi !
    Delle esorbitanti ricchezze di Bonifazio fece pompa strabocchevole egli stesso, sia allorchè contrasse le seconde nozze con Beatrice figlia di Federigo duca di Lorena, dalla quale nacque la gran contessa; sia all’occasione in cui il marchese medesimo fece presentare in Mantova dal suo visconte, e in Piacenza da altri suoi ministri, sontuosissimi ragali all’Imperatore Arrigo III; il quale stupefatto da tal pomposo procedere in un principe subalterno, si vuole che esclamasse: Quis vir habet servos quales Bonifacius?
    Dai versi poi di Donizzone apparisce, come da Guido venerabile abate della Pomposa venne ingiunta al nostro Bonifazio una penitenza, per il mercato abominevole che si permetteva di molti beni di chiese da esso lui sotto varii pretesti appropriatisi; in guisa che il Muratori non potè esimersi da qualificare Bonifazio , bonorum ecclesiasticorum belluo .
    Quindi è che l’abate Camici non potè difenderlo
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    dallo stessa taccia; che anzi ne trovò la conferma in molte memorie da lui prodotte alla luce. Né fu egli solo a dubitare, che la morte violenta, da cui Bonifazio restò colpito, impedisse a questo marchese di restituire alle chiese quanto sotto moltiformi maniere aveva ad esse tolto.
    Nelle Antichità del medio evo trovansi a dovizia argomenti atti a dimostrare, con quale franchezza Bonifazio ed i suoi ministri s’impadronivano dei beni ecclesiastici. Basta leggere, rapporto alle diocesi di Verona e di Volterra, due diplomi di Arrigo III, dal primo dei quali si conosce essere stata la chiesa di Verona afflitta non solo dalle genti estranee, ma anche dalle domestiche, ed in special modo tartassata dal Marchese Bonifazio che tutto il distretto di un’isola arbitrariamente le aveva occupato. In quanto a Volterra havvi un diploma spedito un mese dopo la morte di Bonifazio (17 giugno del 1052) a favore del vescovo di essa città; il quale recossi a piè del trono ad oggetto di reclamare dall’Imperatore Arrigo contro il conte di Volterra, che durante il governo del marchese Bonifazio aggravò fuor di modo tanto esso vescovo, quanto anche il clero, gli amministratori dei beni della mensa, e tutti coloro che tenevano a fitto le sostanze della sua cattedrale. – Lo dice la lunga lista dei castelli, pievi e cappelle che furono con i loro effetti ceduti in feudo dal Vescovo di Reggio al marchese predetto, e poscia da esso lui ad altri suoi vassalli dati o venduti. – Lo dice un diploma dello stesso Arrigo III, spedito da Verona li 11 novembre del 1055, ad istanza dell’abate del Monastero di S. Zenone di quella città; il quale reclamava moltissimi beni che il fu Marchese Bonifazio e i di lui servi ingiustamente e violentemente si erano appropriati. – Ma per avvicinarmi alle operazioni fatte in Lucca e nel suo contado sotto il governo del Marchese Bonifazio, rammenterò un placito celebrato il dì 5 maggio 1055
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    alla presenza dello stesso imperatore nei campi di Roncaglia; dove erasi recato Guido vescovo di Luni per reclamare la terza parte della corte, del monte e del castello di Aghinolfo posto presso Porta Beltrame (Montignoso), che aveva usurpato Gandolfo, essendo proprietà della cattedrale di Luni. – Per quello poi che riguarda il trattamento, le sevizie ed angarie introdotte da Bonifazio a danno dei Lucchesi lo indica il Fiorentini medesimo, quando accenna i privilegi concessi dagl’Imperatore Arrigo IV e Arrigo V, che furono per la città di Lucca i primi segni della riacquistata libertà. Avvegnachè quegli Augusti condannarono e abolirono alcune angarie, e perverse usanze introdotte da Bonifazio a danno dell’antica sua patria, siccome i diplomi si esprimono con le seguenti parole: Consuetudines etiam perversas a tempore Bonifacii marchionis duriter iisdem hominibus (Lucensibus) impositas omnino interdicimus, et ne ulterius fiant praecipimus. – (FIORENTINI, Memorie della Contessa Matilda . Lib. I., e ARCHIV. DI STATO DI LUCCA).
    Quindi non fa maraviglia se Ermanno Contratto, allorchè annunziò nella sua Cronica, sotto l’anno 1052, l’uccisione del marchese Bonifazio accaduta presso Mantova, non difficultò dare al ricchissimo Marchese il brutto nome di tiranno . Fu detto ancora che la gran potenza di Bonifazio, cagionasse in Arrigo II tal gelosia, da cercare modo e verso per allontanarlo dall’Italia, e togliergli le redini del governo marchionale. Che per altro ciò fosse una mera congettura, lo fece conoscere l’evento dopo la morte di Bonifazio, nella cui carica marchionale della Toscana sottentrò pacificamente la sua consorte Beatrice. Diede bensì ombra ad Arrigo III il nuovo matrimonio senza sua saputa nell’anno 1054 conchiuso dalla vedova di Bonifazio con Goffredo duca di Lorena, tanto più che il secondo marito fu ribelle dell’Imperatore. Quindi avvenne, che al ritorno di Arrigo III in Italia (marzo del 1055), non potendo egli avere nelle mani il duca Goffredo, ritenne in ostaggio la sua moglie con i figli da
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    lei partoriti al Marchese Bonifazio. – Nella primavera del 1055 Arrigo III inviò Erberardo vescovo di Ratisbona suo rappresentante a Lucca; e costà nel palazzo dell’Imperatore presso le mura della città, sedendo quel messo in giudizio con Ubaldo conte di Pisa e con altri magnati, pronunciò un placito a favore del vescovo e della cattedrale di Lucca, a cagione della corte e chiesa di S. Terenzio a Marlia. – (BERTINI, Memor. Lucch . T.IV. P.II.)
    Venne poco dopo in Toscana passando per Lucca e Pisa lo stesso Imperatore non tanto per assicurarsi dell’inclinazione dei popoli governati dal successore di Bonifazio e dalla sua donna, quanto per far posare le armi ai Pisani e ai Lucchesi, ch’erano tornati a farsi guerra nei campi di Vaccoli sotto il Monte pisano.
    I Lucchesi, sebbene allora mancassero di un proprio governatore, stavano in pace con i loro vicini, quando Augusto, infermato in Germania e assistito dal romano pontefice, cui raccomandò il figlio, a dì 3 ottobre del 1056 passò all’altra vita.
    La morte assai sollecita di Arrigo III, e la troppo tenera età del figliuolo Arrigo IV (la cui tutela fu appoggiata all’imperatrice madre) furono le prime cause di mali immensi e dell’orribile sconvolgimento di cose, che, non solo a Lucca e alla Toscana, ma a tutta Italia apportarono; tostochè di qua incomincia la storia che fu esordio di tali avvenimenti politici, per i quali si emanciparono quasi del tutto i conti e i marchesi dal loro monarca, i sudditi dai marchesi, dai duchi e dai conti, gli uni per governare a loro arbitrio, gli altri per costituirsi a poco a poco in regime repubblicano.
    A intercessione del pontefice Vittorio II il fanciullo rè perdonò al duca Goffredo, e liberò dall’ostaggio la sua moglie contessa Beatrice con la superstite figlia, le quali donne dopo due anni di prigionia tornarono a dominare la Toscana.
    Accaddero poco appresso due avvenimenti gloriosi a Goffredo e alla città di Lucca;
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    il primo quando fu acclamato in Roma per pontefice, sotto il nome di Stefano IX, Federigo il fratello del duca di Toscana. Dondechè Federigo nel giro di pochi mesi eletto abate di Monte Cassino, poi cardinale ed infine papa, non piccolo aumento di reputazione e di potenza preparava al fratello suo e alla cognata contessa Beatrice; per modo che, al dire di Leone Ostiense, disegnavasi fare di Goffredo un re d’Italia al momento in cui mancò di vita il Pontefice Stefano. – L’altro avvenimento assai più glorioso pei Lucchesi fu l’esaltazione avvenuta nel 1061 dalla cattedra di S. Martino di Lucca a quella di S. Pietro di Roma di Anselmo da Badagio, eletto dopo la morte del testè nominato Stefano IX. Il quale novello gerarca favorito dal duca e duchessa di Toscana, e massimamente dal cardinale Ildebrando de’conti Aldobrandeschi, fu intronizzato col nome di Alessandro II.
    Eccoci frattanto al punto dove cominciano gli Annali di Tolomeo lucchese, nei quali trovansi accennate le principali vicende istoriche, e più specialmente quelle di Lucca, a cominciare dall’anno 1062 sino al 1304; vicende che vennero più tardi con aurea latinità ed eloquenza rifuse dal padre Bartolommeo Breverini, con l’aggiunta dei fatti accaduti dal 1304 sino al declinare del secolo XVII.
    Che se a queste due opere celebratissime si aggiungano l’altre non meno egregie delle Memorie scritte da Francesco Maria Fiorentini, di quelle che vanno tuttavia pubblicando i deputati dell’Accademia lucchese, e la Storia di Lucca recentemente data alla luce dal marchese Antonio Mazzarosa, avranno i cultori delle cose patrie in questi sullodati libri pascolo copioso alla loro dotta curiosità, nel tempo che tali opere servono a me di motivo per tralasciare discorrere di tante minute fazioni ostili, di tante piccole guerre di municipio, cui tennero dietro brevissime paci, in guisa che, limitandomi a discorrere delle principali mutazioni civili e politiche, potrò progredire più franco nel cammino del presente articolo.
    Per le notizie dell’annalista Tolomeo, per i documenti dal Fiorentini accennati,
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    e dai compilatori delle Memorie lucchesi testè pubblicati, veniamo in cognizione che papa Alessandro II, imitando il suo predecessore Niccolò II vescovo di Firenze, ritenne, oltre il triregno, anche la mitra e il pastorale del suo vescovato, e che in Lucca più volte egli tornò. Per più mesi vi si trattenne nel 1064, quando accordava privilegii alla cattedrale di S. Martino, quando alla città di Lucca donava un sigillo del Comune con l’impronta del Santo patrono, siccome vedremo qui appresso, e quando decorava i canonici di essa cattedrale della mitra cardinalizia da portarsi nelle processioni, al pari de’canonici di Ravenna e di Campostella.
    Ebbe occasione lo stesso pontefice di passare nel 1067 e ripassare di Lucca nel 1068, prima e dopo aver preseduto un concilio che si adunò in Mantova. Nella quale ultima circostanza (giugno del 1068) stando nel Brolio , o giardino dell'episcopio di Lucca, la duchessa Beatrice, alla presenza di molti vescovi, conti e visconti, emanò un placito a favore della mensa vescovile lucchese, col quale fu confermata l’investitura di alcuni beni posti ad Asciano e a Vico Auseressole nel territorio di Pisa.
    Tornato in Lucca Alessandro II nel 1070 consacrò ed elargì nuovi privilegii al rinnovato tempio della cattedrale di S. Martino, nel cui episcopio, se non continuamente, molti mesi degli anni 1071 e 1072, egli abitava corteggiato e onorato dalle sue governatrici della Toscana, Beatrice e Matilde.
    Finì di vivere il buon pontefice nell’aprile dell’anno 1073 in Roma, dove nel giorno successivo alla morte fu eletto in successore suo quel cardinale arcidiacono Ildebrando della casa Aldobrandesca, che, dopo avere singolarmente influito all’elezione di quattro papi suoi predecessori, salì egli stesso sulla cattedra di S. Pietro col nome di Gregorio VII. Il qual pontefice nelle emergenze tra la chiesa e l’impero mostrò tanta fortezza, da renderlo celebre a tutti i secoli avvenire.
    Frattanto Matilde, ora sola, ora in compagnia della madre, esercitava atti
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    di dominio quasi assoluto sopra Lucca e su tutto il restante della Toscana.
    Dissi, quasi assoluto , perché ancora un’ombra di dipendenza regia in qualche modo nella celebrazione dei placiti di lei traspariva. Tale, per esempio, fu quello dell’8 febbrajo 1073, dato nel Borgo S. Frediano fuori delle mura di Lucca , cui assistè con la contessa Matilde un messo di Arrigo IV; tale un giudicato del 25 febbrajo dello stesso anno, emanato in Firenze nel palazzo vescovile da Beatrice Marchesa di Toscana , ad istanza di Berta priora del monastero di S. Felicita presso il Ponte vecchio di Firenze, tostochè il suo avvocato invocava il bando del re .
    Ma poco si stette, dacchè il pertinace monarca alemanno, sordo ai decreti di due romani concilii, che fulminarono terribili anatemi contro i fautori o complici di simonie, e contro l’abuso delle investiture ecclesiastiche; ed irritato dalle scomuniche della S. Sede Apostolica, la sprezzò a segno che in una dieta di vescovi e abati avversi a Gregorio VII, da Arrigo riunita in Vormazia (anno 1076) fu qualificato illegittimo il vero pontefice e scomunicato. In questo mezzo tempo medesimo nel palazzo Laterano, alla presenza delle due principesse di Toscana, erasi aperto un terzo concilio, nel quale si dichiarava Arrigo IV fuori della chiesa, decaduto dal regno, mentre si assolvevano i sudditi, i vassalli ed i ministri di lui dal giuramento di ubbidienza e di fedeltà.
    D’allora in poi la devota contessa Matilde cominciò a regnare da assoluta padrona con intitolarsi negli atti pubblici, che se ella contava qualcosa, era tale per la sola grazia di Dio ; cioè, Matilda Dei gratia si quid est.
    Quantunque i Lucchesi ed in generale i popoli toscani non avessero motivo da lodarsi del suo governo, pure a confessione del panegirista di questa principessa, essi per amore o per forza doverono uniformarsi ai voleri di quella padrona: Marchia volendo sibi
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    paruit, atque nolendo
    .
    Per consiglio del Pontefice Gregorio prese Matilde per cappellano e consigliere Anselmo nipote di Alessandro II, che a lui successe nel vescovato di Lucca, sebbene viaggiava con la contessa anche dopo la sua elezione episcopale. Infatti nell’agosto del 1073 troviamo Anselmo in Verona in compagnia delle due duchesse di Toscana, e costà fu testimone a un atto pubblico, col quale le stesse donne rinunziarono, o piuttosto restituirono, al monastero di S. Zenone di Verona alcune terre prese dal marchese Bonifazio, di quelle che facevano parte delle stesse possessioni, delle quali Arrigo III sino dal 1055 aveva ordinata la restituzione al monastero prenominato.
    Sono troppo noti per non dovere rammentare gli avvenimenti politico-ecclesiastici che dopo la scomunica di Arrigo IV posero sossopra i popoli e principi della Germania e dell’Italia, e per conoscere qual parte attiva la contessa Matilda prendesse nelle infauste contese fra il trono e l’altare, fra due re di Germania rivali, fra un papa legittimo e tre scismatici. Solamente dirò che Matilde, appena rimasta orbata della madre, e vedovata del marito Gozzelone duca di Lorena, si dichiarò più francamente quasi propugnacolo della S. Sede Apostolica e il braccio forte del Pontefice Gregorio VII.
    A sostegno di questo e di quella la gran contessa armò un esercito, che di ottobre del 1080 nel territorio di Mantova fu battuto e disfatto dai combattenti fautori del IV Arrigo. Al quale monarca piuttostochè alla marchesana di Toscana aderiva a quei tempi un buon numero di Lucchesi, e una gran parte del loro clero, tostochè molti canonici, trascurando i precetti di una disciplina più severa e più casta, ricusarono ubbidire al legittimo loro pastore, eleggendosi invece un vescovo scismatico. Infatti al passaggio che fece nel 1081 dalla Toscana l’Imperatore, volle lasciare alle sue fedeli città di Pisa e di Lucca, tali generosi privilegj, che possono dirsi a parer mio i primi efficacissimi segnali della loro municipale emancipazione.

    LUCCA NEL PRIMO PERIODO DELLA
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    REPUBBLICA SINO ALLA MORTE DI CASTRUCCIO

    Più di uno probabilmente si maraviglierà che io mi arresti quasi a mezzo il corso della vita e delle gloriose gesta della gran contessa, alla quale erano collegate somme faccende politico-religiose della Toscana, e dirò anche della cristianità. Ma cesserà, io spero, ogni sorpresa quante volte si vorrà riflettere, che fu appunto in mezzo a tante agitazioni e tempeste, fra l’urto violento di opposte passioni, fra l’intolleranza e l’assolutismo, donde incominciò a germogliare e crescere quello spirito di libertà, che andò gradatamente aumentando, finché giunse a costituire in repubblica non solamente Lucca, ma molte altre città dell’Italia.
    Fra gli elementi primordiali, che contribuirono a predisporre i Lucchesi a regime costituzionale, sono da contarsi (se male non mi appongo) i diplomi da Arrigo IV nel 1081 concessi, da Arrigo V nel 1116 e da Lottario III nel 1133 confermati a favore di quei cittadini, diplomi che vide Tolomeo negli archivii di Lucca. Quelli che tuttora ivi conservansi sono copie autentiche, mancando già da lungo tempo le carte originali. Con altro diploma del 1100 Arrigo IV convalidò le concessioni del 1081 ai Lucchesi, a favore dei quali aggiunse il diritto di potere senza difficoltà navigare nel fiume Serchio, e aver libero accesso allo scalo di Motrone. Nel primo diploma del 1081 l’Augusto diceva, che, per ricompensare i Lucchesi della loro fedeltà e dei servigii a lui resi, vietava a qualunque autorità ecclesiastica o laicale di demolire il recinto delle mura della città; di edificar castella nel distretto delle sei miglia; aboliva le consuetudini perverse imposte loro con durezza dal marchese Bonifazio ; esentava i medesimi dai placiti e sentenze di giudici longobardi, dal ripatico pisano, dagli obblighi del fodro e di curatura da Pavia sino a Roma, non che degli alloggi; prometteva di non far costruire dentro la città o né subborghi alcun palazzo reale o imperiale; e finalmente permetteva ai Lucchesi di recarsi a comperare e vendere nei
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    mercati di S. Donnino e di Parma, dichiarando espressamente esclusi da quest’ultimo permesso i Fiorentini.
    In conseguenza dell’enunciato privilegio il popolo di Lucca cominciò dal distruggere nell’anno 1086 il vicino castello eretto in Vaccoli da alcuni nobili di contado; e nell’anno 1100 lo stesso Comune mandò gente ad atterrare la torre di Castagnore sulla riva destra del Serchio di pertinenza di altri cattani; quindi nel 1104, a cagione del castello di Ripafratta, i Lucchesi rinnovarono contro i Pisani un lungo conflitto nei campi medesimi, dove cent’anni innanzi gli uomini delle due città rivali avevano acerbamente dopo tanti secoli combattuto.
    Ad oggetto pertanto di tutelare con più sicurezza il castello di Ripafratta, per il quale al dire di Tolomeo durarono cinque anni di conflitto, uno di quei valvassori, Ubaldo figlio del fu Sigismondo, nell’anno 1111, si pose sotto l’accomandigia degli arcivescovi e dei consoli pisani , dichiarando di cedere ad utilità di quella primaziale e del popolo di Pisa la porzione che gli apparteneva del castello, di tutto il poggio e distretto di Ripafratta con le terre e possessioni che il sopradetto Ubaldo e Matilde sua consorte possedevano nel contado lucchese.
    Questo documento, oltre che ci sembra che dia a conoscere, che il distretto di Ripafratta a quell’epoca doveva essere compreso nel perimetro delle sei miglia del contado di Lucca, conferma eziandio qualmente la città di Pisa, e forse Lucca, fino dal principio del secolo XII avevano magistrati proprj, o rappresentanti municipali, ai quali, ad esempio della repubblica romana, fu dato il titolo di Consoli .
    Per quanto non vi sia da indicare l’anno preciso, in cui nelle due nominate città fu stabilito il consolare magistrato; per quanto manchino finora documenti che prima del regno di Arrigo IV ne facciano menzione, ciò non ostante è da credere, che intorno al 1090 i Consoli maggiori , ossiano municipali, esercitassero il loro uffizio in Lucca, al pari che in molte altre città
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    e terre della Toscana.
    Per quelli di Pisa, oltre il documento del 1111 qui sopra citato, dobbiamo al Muratori la pubblicazione di una carta del 5 ottobre 1095 spettante a Daiberto arcivescovo della metropolitana di Pisa, nella quale viene rammentato il magistrato dei consoli hujus civitatis qui pro tempore fuerint .
    Per ciò che spetta a Lucca non è finora, ch’io sappia, comparso alla luce alcun documento anteriore a quello ( ERRATA : dell’anno 1119, in cui si nominano i consoli di questa città) dell’anno 1107, in cui si nominano i consoli maggiori di questa città ( Mem. Lucchesi ). È un istrumento del dì 21 ottobre col quale un sindaco di Benedetto vescovo di Lucca, alla presenza di diversi testimonj e di Goffredo del fu Giovanni, tunc lucensis consul , restituì 2300 soldi di moneta lucchese a chi avevali imprestati al vescovo Rodolfo suo antecessore; mediante il qual pagamento il vescovo Benedetto riebbe il castello di Montopoli stato dato al creditore, come a titolo di pegno. ( Memor. Lucch. T. IV, P. II).
    Molte per altro sono le scritture del secolo XII e XIII, nelle quali si rammentano diverse classi di consoli in Lucca. Imperroché oltre i consoli maggiori , che tenevano la prima magistratura, vi erano i consoli delle curie, cioè i treguani , ossia i giudici di pace , la di cui esistenza è antica quanto quella dei consoli maggiori , vi erano i consoli dei mercanti , i consoli foretani , ed ogni vicinanza o contrada aveva i suoi. Quindi è che al giudicato famoso dell’anno 1124, tenuto nella chiesa di S. Alessandro di Lucca per decidere una causa che agitavasi tra il vescovo di Luni e i marchesi Malaspina, intervennero come giudici non meno di sessanta consoli lucchesi. (MURATORI Ant. Estens . P. I).
    Non erano però questi
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    consoli delle curie, ma bensì i consoli maggiori , cui spettava l’ingerenza governativa, ed ai quali appella un privilegio spedito da Federigo I lì 9 luglio del 1162 ai diletti suoi fedeli i consoli di Lucca e a tutto quel popolo. Nel qual documento leggesi la formula del giuramento che, in presenza del monarca e di Rainaldo arcicancelliere del regno d’Italia, dei conti Gherardo, Ildebrandino ed Alberto, e di alcuni consoli pisani , fiorentini , e pistojesi , tre consoli di Lucca prestarono nel Borgo di S. Genesio, mentre cinque giorni dopo in Lucca giurarono gli altri tre consoli rimasti in città, davanti al pubblico parlamento convocato presso la cattedrale di S. Martino e alla presenza del prenominato Rainaldo arcicancelliere del regno.
    Dal qual diploma si viene anche meglio a conoscere, non solo il numero dei consoli maggiori che costituivano allora il corpo decurionale di Lucca, ma ancora di qual libertà al tempo di Federigo I fruissero i Lucchesi.
    Avvegnachè ciascuno di quei consoli giurar doveva fedeltà all’Imperatore dicendo , sicut de jure debeo domino Imperatori meo ; ed anche promettere di buona fede che avrebbe in ogni caso ajutato Augusto nel possesso del regno d’Italia non che di Lucca e suo contado. Aggiungasi, che ciascun console, innanzi di entrare in uffizio, giurava di pagare all’Imperatore le regalie che di diritto se gli pervenivano; di più: et conventionem factam de pecunia 400 librarum annuatim solvenda observabo; et nullum recipiam in CONSULATU, qui hoc sacramentum de pecunia solvenda non juret etc. (MEMOR. LUCCH. T. I.)
    Nello stesso privilegio permettevasi ai Lucchesi l’annuale elezione dei loro consoli, con che per altro gli eletti giurassero, che essi avrebbero governato il popolo e la città a onor di Dio e a servizio dell’Imperatore e re; e con che i nuovi consoli
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    si recassero in persona a riceverne l’investitura dal sovrano, quando egli fosse in Italia, bastando uno di loro per tutti, quando Augusto si ritrovasse in Germania.
    In proposito del pubblico parlamento tenuto nella curia di S. Martino di Lucca, allorché i tre consoli giurarono le condizioni dall’imperatore Federigo I nel 1162 stabilite e concesse, cade in acconcio ricordare un altro giuramento singolare che fino dall’età della contessa Matilde facevasi costà dai banchieri, cambisti e mercanti: i quali a quel tempo tenevano i loro banchi, fondachi o botteghe nella corte della chiesa di S. Martino , dov’erano pure situati gli alberghi per i forestieri.
    La formula trovasi tuttora scolpita in marmo sotto il portico della cattedrale con la data dell’anno 1111, dicendo di averla ivi posta, affinché: Adveniens quisquis scripturam perlegat istam, de qua confidat et sibi nil temeat……Ut omnes homines possint cum fiducia cambiare et vendere, et emere, juraverunt omnes Cambiatores et Speciarii, qui ad cambium vel species stare voluerint, quod ab illa hora in antea non furtum faciant, nec treccamentum, aut falsitatem infra curtem S. Martini, nec in dominibus illis, in quibus homines hospitantur… Sunt etiam insuper qui curtem istam custodiunt, et quicquid male factum fuerit, emendare faciunt. Anno Domini MCXI .
    Chi non leggerebbe in questa memoria il simbolo dei consoli dell’arte del cambio, e dei mercanti? Chi non riconoscerebbe nella corte di S. Martino un luogo consimile a quello che prese più tardi e che conserva in Firenze il nome di Mercato nuovo ? Nei custodi poi della corte medesima incaricati a giudicare e condannare chiunque dei contraenti facesse danno o falcidia, chiaramente mi si rappresenta la curia dei consoli dell’arte del cambio, unita ai mercanti di generi lucchesi.
    Per egual modo più tardi si aprì in Lucca un’altra curia, chiamata di S. Cristofano dalla chiesa presso la quale aveva la sua residenza, e la cui ingerenza consisteva in giudicare le cause civili della
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    città e subborghi sino al merito di 25 lire.
    La curia dei consoli treguani , residente nella soppressa chiesa di S. Senzio, aveva per ispezione di stabilire tregue, pronunziare lodi e sentenze per ragione di livelli, di penali incorse, di cause civili, ed anche ecclesiastiche ec.
    Vi era poi la curia detta de’ consoli foretani , ossia foranei , per le cause tra forestieri e lucchesi, ovvero tra forestieri e forestieri; e questa faceva le sue adunanze nella chiesa di S. Alessandro.
    In quanto ai consoli dei mercanti di Lucca il Muratori pubblicò un accordo fatto nel 22 febbrajo 1182 tra consoli maggiori, i consoli de’mercanti di Modena da una parte, e i consoli maggiori e consoli de’mercanti di Lucca dall’altra parte, mercé cui i consoli della città Modena obbligaronsi per 9 anni a difendere chiunque persona della città e distretto di Lucca in tutto il territorio Modenese, e di rendergli buona ragione tutte le volte che ne venisse fatto reclamo dai consoli lucchesi, o dalle loro lettere segnate col sigillo della città di Lucca .
    A confermare che i consoli maggiori sin d’allora fossero i rappresentanti del corpo decurionale della città, rammenterò una lettera del pontefice Eugenio III, diretta verso la metà del secolo XII ai suoi diletti figli, i consoli di Lucca , per esortarli ad assistere e proteggere i frati che il loro vescovo Gregorio aveva di corto introdotto nella chiesa e monastero di S. Pantaleone fuori di Lucca, sul monte di S. Giuliano. (BALUZII, Miscellan . T. IV).
    In una parola tutte le memorie superstiti tendono a dimostrare che Lucca, a partire dal privilegio di Arrigo IV, godeva di magistrati proprj, siccome d’allora in poi possedé di buon diritto un territorio di sua esclusiva giurisdizione.
    Il contado di sei miglia tutto attorno alla città di Lucca fu posteriormente (anno 1160) ridonato da
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    Guelfo VI duca di Baviera, quando era marchese di Toscana col rilasciare ai Lucchesi ogni regalia marchionale. Oltre di ciò lo stesso duca rinunziò pure a favore del comune di Lucca agli allodiali della contessa Matilde, di cui egli si qualificava legittimo Signore ed erede, purché i beni della defunta contessa fossero stati dentro Lucca o nel distretto delle sei miglia.
    Tale importantissimo privilegio, oltre ad essere una conferma dei diplomi da Arrigo IV e V concessi ai Lucchesi, li sopravanza in quanto al dono delle molte possessioni che ebbe in Lucca e nel suo contado la ricchissima contessa Matilde, possessioni che l’Imperatore Federigo I, appena che venne innalzato al trono (anno 1152) dichiarò proprietà del duca Guelfo VI di Baviera, come nipote per parte di padre di Guelfo V Bavaro Estense, già qualificato per scritta matrimoniale erede dalla stessa Matilde. ( Cronic. Weingartensis de Guelis Princibus, apud Leibnitz .)
    La gran contessa però, non essendosi trovata molto contenta del secondo, come non fu del primo marito, allontanossi dal consorzio di Guelfo al segno che annullò i patti dotali. Quindi essa, nel 17 novembre del 1102, stando nella rocca di Canossa, alla presenza del cardinal Bernardo degli Uberti legato pontificio in Lombardia e di altri illustri personaggi, volle rinnovare per rogito l’atto di donazione già da lei in tempo fatta nelle mani del pontefice Gregorio VII. In vigore del quale atto ella donò alla chiesa romana omnia bona mea , dice la carta, jure proprietario, tam quae nunc habeo, quam quae in posterum acquisitura sum, etc.
    Quali conseguenze, a danno specialmente del Comune di Lucca, quest’ultima donazione matildiana apportasse, lo vedremo tra poco.
    Si erano i Lucchesi per la mediazione di Federigo I riconciliati con i Pisani, i sindaci dei quali, nel 1175 alla presenza di Augusto in Pavia, sottoscrivessero un trattato di pace. Lo che avvenne due anni innanzi l’altra più memorabile pacificazione per la
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    cristianità, fermata in Venezia nell’estate del 1177, quando Federigo I discese alle richieste del Pontefice Alessandro III, specialmente rapporto alle investiture dei benefizii, ed alla restituzione dei beni della chiesa romana, salvo però le terre e i possessi appartenuti alla contessa Matilde.
    Esiste nell’archivio dei canonici di S. Martino un privilegio dello stesso Augusto, dato li 25 gennajo 1178 apud Lucam civitatem in palatio episcopale , che può servire a confermare due fatti: il primo che l’Imperatore, avendo preso alloggio nella casa del vescovo, mostra che anche ai suoi giorni non esisteva in Lucca palazzo regio o imperiale, siccome era stato da Arrigo IV promesso di non fabbricarvelo, e come infatti nel 1209 in altro diploma dall’Imperatore Ottone IV fu nuovamente ai lucchesi promesso di non farvelo.
    Il secondo fatto è, che Federigo I, dopo il 25 gennajo, dovè da Lucca passare direttamente a Genova, tostoché nello stesso mese ed anno in quest’ultima città ce lo danno arrivato i continuatori degli Annali di Caffaro, dopo essere stato Federigo I preceduto di un giorno dall’Imperatrice, e raggiunto il giorno appresso dal re Arrigo VI suo figliuolo.
    Accadde alla fine di agosto dell’anno 1187 l’esaltazione al trono pontificio di Lucio III nella persona del cardinal Ubaldo dell’estinta casata lucchese degli Allucingoli . – Abbiamo dall’annalista Tolomeo, come sotto questo medesimo anno 1181, a nativitate , fu rinnovata pace fra i Lucchesi e i Pisani. In conferma di ciò l’archivio della casa Rosselmini di Pisa conserva nel suo originale la formula dei varii capitoli di quella concordia, giurati li 16 giugno dell’anno 1181 nella chiesa di S. Prospero a Setuano, piviere del Flesso presso Lucca. Anche le Memorie Lucchesi (T. IV, P. II) hanno pubblicato la formula del giuramento, che prestarono nel giorno e luogo stesso i consoli di Lucca e di Pisa, quando i primi promisero di rispettare la giurisdizione dell’arcivescovo di Pisa nel loro contado; e viceversa i
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    consoli di Pisa di rispettare la giurisdizione e i diritti che avevano i vescovi di Lucca nel territorio civile pisano.
    Una condizione singolarissima di detta pace fu quella, per la quale si divise fra le due città il lucro delle rispettive zecche e l’obbligo impostosi dai Pisani di non più fabbricare o coniare la moneta simile a quella di Lucca. E siccome nella moneta lucchese era impresso il nome di Lucca e dell’Imperatore Arrigo, quella pisana doveva d’allora in poi portar il nome di Pisa e dell’imperatore Federigo o del re Corrado, ed essere ancora di una grandezza e rotondità maggiore della lucchese, in maniera da distinguere chiaramente l’una dall’altra. E qui è da avvertire una clausola importantissima specificata dai consoli pisani, la quale starebbe a provare che, il bando mandato nel 1176 da Federigo I, e citato dagli annalisti genovesi e lucchesi, quando fu interdetto ai Pisani di fabbricare monete del conio, della forma e col nome di Lucca, non fu così per fretta eseguito. Avvegnachè nella concordia del 1181 i consoli di Pisa, dopo la sopra espressa dichiarazione, giurarono: Et faciam finem et refutationem et transactionem pro me et pisano comuni consulibus lucensis recipientibus pro se et lucensi comuni de omni actione et jure, seu dirictu mihi vel pisano comuni pro pisana civitate pertinenti, de potestate faciendi lucensem monetam vel de ipsa moneta EX CONCESSIONE SEU DATIONE CONRADI REGIS, AUT FEDERICI IMPERATORIS , seu alio quocumque modo vel jure. – Quindi poco sotto i consoli pisani soggiunsero: Et predictam monetam lucanam non falsabo, nec falsari faciam… neque permittam, neque concedam fieri extra lucanam civitatem…et faciam ipsam monetam lucensem accipi et currere in mea civitate et fortia atque districtu, etc . – ( ERRATA: ARCHIV. RONCIONI di via S. Maria a Pisa ) (ARCHIV. ROSSELMINI di via S. Maria a Pisa ).
    Se non è da dubitarsi sull’autenticità e originalità del documento qui
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    sopra accennato, io domanderò ai critici, qual conto si abbia a fare delle cose dette dall’annalista lucchese, sia quando rammenta agli anni 1175 e 1176 una sentenza e un bando dell’Imperatore Federigo contro i Pisani di non coniare moneta simile alla lucchese; sia quando parla sotto l’anno 1178 di una misura inaudita dallo stesso imperatore ordinata, privando tutte le città della Toscana di qualunque sia giurisdizione nel loro contado? Domanderò pure, se debba tenersi per vera, rispetto alla moneta di Lucca, la sentenza di anatema fulminata nel 1158 dal Pontefice Adriano IV, che inibiva a tutte le città della Toscana di coniare nelle loro zecche moneta lucchese, comandando alle medesime di accettare nel loro commercio e di far uso di quella di Lucca. Dicasi la stessa cosa di un breve di Lucio III, col quale, nel 1182, questo papa concedé ai Lucchesi il diritto della zecca, consigliando le città della Toscana, della Romagna e della Campania di accettare tali monete per estenderne il commercio in quelle parti , eo quod (soggiunse Tolomeo) dicta civitas (Lucensis) Romanae ecclesiae semper fuit subiecta . Sul qual proposito il Muratori non tralasciò di fare avvertire che i pontefici, non avendo avuto mai giurisdizione temporale sopra la città di Lucca, non potevano concederle quel diritto che fu sempre uno dei principali articoli di regalia della sovranità.
    Inoltre, da molte espressioni che leggonsi nella concordia del 1181 tra i Lucchesi e i Pisani, apparisce che sino da quel tempo, tanto nella città di Lucca, quanto in Pisa esistere dovevano oltre i magistrati consolari, anche il potestà , ossia rettore della giustizia. – Infatti un Pagano di Ronzino, rammentato da Tolomeo all’anno 1188, esercitava in Lucca l’ufizio di potestà; nell’anno cioè in cui insorse una rissa popolare fra le genti del quartiere di Porta S. Frediano e quelle del quartiere di Borgo, alle quali si unirono gli abitanti della Porta S. Donato, mentre
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    quelli di Porta S. Gervasio e di Porta S. Pietro presero le parti dell’altro quartiere; per causa di che s’intromisero i Fiorentini a ristabilire fra i rivoltosi la pace, sin qui Tolomeo. – Ma il Bernardini, appoggiandosi alle parole di una carta dell’ospedale della Misericordia di Lucca, assicura, che al tempo del potestà Alcherio (fra il 1188 e il 1189) furono cacciati da Lucca i consoli, perché contrariavano gli ordini suoi e quelli di Guglielmo Vescovo di Lucca. (BAVERINI , Annal. Lucens. Urbis. Lib. III.)
    Dopo tali gare civili, altre se ne accesero di assai maggior momento per la morte accaduta nel 1197 di Arrigo VI, stante che il trono imperiale per lungo tempo fu contrastato fra Federigo duca di Svevia di setta ghibellina e Ottone IV di Sassonia sostenitore dei Guelfi.
    Infatti cotesti sconcerti provocarono fra le città e i magnati della Toscana una dieta, che fu bandita nell’autunno del 1197 nel borgo di S. Genesio sotto Sanminiato, cui presederono il cardinal Bernardo già canonico regolare lucchese, ed il cardinal Pandolfo Masca di Pisa. Al detto borgo pertanto, eccettuati i sindaci pisani e pistojesi, concorsero gli ambasciatori di quasi tutte le città e terre della Toscana, fra i quali furono due consoli di Lucca. Scopo di essa dieta era di far giurare i detti sindaci a non riconoscere alcuno per imperatore, re, duca o marchese senza espresso consenso della chiesa romana. – Che però Ottone IV, appena che fu nell’anno 1209 dichiarato imperatore da Innocenzo III, egli, venne riconosciuto in legittimo monarca dai diversi comuni e magnati della Toscana, e specialmente dalla città di Lucca. A favore della quale nell’anno stesso il nuovo Augusto, ai 12 dicembre, spedì dalla città di Fuligno un privilegio più largo di quello compartitole dagli altri Cesari; ed in Fuligno stessa due giorni dopo spedì altro amplissimo diploma in benefizio della cattedrale lucchese. Fra le concessioni dall’imperatore Ottone IV accordate ai Lucchesi merita attenzione questa: che
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    a niuna persona, o potestà qualunque, sia lecito di rompere il muro antico, oppure quello nuovo del cerchio della città di Lucca come pure le case che dentro tal circuito di mura si fabbricheranno, o che erano già fabbricate
    . – Se non m’inganno, a me sembra di scoprire in questo privilegio un indizio, che ai tempi di Ottone IV, e forse qualche anno prima, prosperando le cose dei Lucchesi, dovevano questi aver dato principio al secondo cerchio delle mura di Lucca, senza frattanto abbattere le vecchie. – (CIANELLI, Memor. Lucch . T.I.)
    Arroge a ciò un altro diploma dello stesso Ottone, dato in Sanminiato il dì due novembre 1209, a favore della chiesa e canonici di S. Frediano di Lucca, cui confermò quello concessole da Arrigo VI suo antecessore. Dal qual diploma emerge una notizia finora (credo io) ignota, col farci conoscere, come i canonici di S. Frediano a spese del loro monastero avevano fatto alzare un muro di là dalla chiesa per allontanare il corso del Serchio dalla città. Ecco le parole che si leggono nella pergamena priginale: Item jubemus et firmiter interdicimus, ut inter murum, quem dicti canonici de propriis fecerunt expensis ad arcendum flumen (Sercli), et ecclesiam S. Fridiani via publica non fiat, nec a potestate aliqua, seu Consulibus; sive a Comuni lucanae civitatis, nec ab aliqua persona... nisi de voluntate et assensu prioris et capituli dictae ecclesiae, etc …. Termina il diploma come appresso: Firmiter quoque precipientes, ut supradictae libertates et concessiones Eccl. S. Fridiani indultas justitiam faciendam pro tempore nunciis ecclesiae non denegent coram Treguanis, seu Consulibus et aliis, qui pro tempore habuerint regimen civitatis . (ARCH. di S. FREDIANO di LUCCA. Arca I Lett. A 112).
    Dovendo stare all’asserto di Francesco Bandinelli, autore di una storia inedita della sua patria, dovremmo fissare verso il principio del secolo XIII l’istituzione in Lucca di una magistratura civile e militare. Imperroché egli ne avvisò
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    che, bramando il senato provvedere alla difesa della libertà lucchese, nell’anno 1206, adunatosi nella chiesa di S. Pietro maggiore, si elessero 12 priori, ossiano Tribuni e Capitani delle milizie, i quali con le loro insegne, o gonfaloni, insieme con i Consoli maggiori , nel dì 22 marzo di detto anno, riuniti nella chiesa di S. Senzio nominarono in potestà di Lucca un tale Aldobrandino Malpigli.
    In quanto poi alla classazione e all’ordine dei magistrati, che nei primi secoli dopo il mille regolavano gli affari della repubblica di Lucca, pochi documenti ce li danno a conoscere meglio di quello del 26 luglio 1234, edito dal Muratori. – ( Ant. Med. Aevi Dissert. 46).
    Già da qualche tempo la corte di Roma, massime sotto Onorio III e Gregorio IX, aveva messo in campo l’eredità lasciata al patrimonio di S. Pietro dalla contessa Matilde; nella quale eredità erano comprese molte terre e feudi da quella principessa e dai suoi maggiori, più che altrove, posseduti nelle parti di Garfagnana. Sono conosciute le lettere del Pontefice Gregorio IX ai Pistojesi, al loro vescovo, all’arcivescovo di Pisa, ai vescovi di Lucca, di Luni e di Volterra, per non aver d’uopo ripetere qui quanto fu bastantemente accennato all’Articolo GARFAGNANA, rapporto alle censure minacciate, quindi scagliate dal pontefice romano contro i Lucchesi a cagione di alcuni luoghi della Garfagnana. Per i quali dissapori Gregorio IX, nel 1231, disfece in quattro parti la diocesi lucchese, con distribuirne un pezzo a ciascuna delle cattedrali limitrofe, nel tempo stesso che ai canonici di Lucca fu annullato il privilegio della mitra e di altre onorificenze.
    Ciò non ostante i Lucchesi tenner saldo, dandosi ogni premura per difendere i loro diritti; comecché alcuni del governo di Lucca, per iscrupolo , dice un moderno istorico, inchinavano a non far onta al Papa, mentre altri stavan forti nel sostener la ragione.
    Finalmente nel
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    1234 si concluse la bramata pacificazione con un trattato pubblico dal Muratori, nel quale si scoprono per avventura varie magistrature di quelle che allora reggevano la città e il distretto di Lucca. Avvegnachè, volendo quel popolo (dice il documento) ubbidire agli ordini del papa a cagione degli eccessi, i quali richiamarono sopra di lui le sentenze di scomunica ed interdetto, tanto per i danni fatti al clero e chiese dello stato di Lucca, quanto per conto della Garfagnana, con deliberazione approvata nel consiglio generale, adunato in Lucca nella chiesa di S. Michele in piazza, lì 26 luglio dello stesso anno 1234, accordarono e consegnarono a maestro Pietro di Guarcino delegato speciale del Pontefice Gregorio IX, ricevente per la Romana chiesa, il possesso e la custodia della rocca, torre e castello di Castelnuovo di Garfagnana, e della rocca, torre e castello di Aquilata , entrambi da tenersi per conto del Papa in pegno delle 4000 marche d’argento che il Comune di Lucca si obbligava di pagare alla R. Camera apostolica nel termine di quattro anni. Alla quale deliberazione intervennero cinque consoli maggiori di Lucca, i capitani o tribuni della contrada di S. Pietro maggiore, i capitani della contrada di S. Cristofano; inoltre 25 consiglieri speciali per ciascuna porta di Lucca, 12 del Borgo, 24 consiglieri speciali della stessa città, oltre un numero di 207 cittadini ivi ad uno nominati, appartenenti al consiglio maggiore. La quale assemblea componeva tutt’insieme il consiglio generale di Lucca, che allora ascendeva a 380 persone; numero corrispondente appunto ad altra assemblea tenuta 60 anni dopo (26 febbrajo 1294) nel nuovo palazzo comunale della canonica presso la chiesa di S. Michele in Piazza.
    Fu in contemplazione di voler ampliare il palazzo del Comune di Lucca testé rammentato, che il governo acquistò in compra per il prezzo di mille fiorini d’oro di grossi , a peso retto di Lucca, ed a ragione di soldi 45 e
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    denari 6 per ogni fiorino, dal possessore Puccino del fu Lamberto medico, due case contigue al detto palazzo. Il contratto fu rogato il 22 giugno 1297 in palatio in quo detinentur consilia Lucani Comunis, quod est canonicae S. Michaelis in Foro . – Presenti all’istrumento di compra furonvi il potestà, il capitano del popolo, gli anziani e priori, tanto quelli che erano in carica, quanto quelli che dovevano entrare in uffizio nei due mesi futuri di luglio e di agosto dello stesso anno. ( Memor. Lucch . T. I.)
    Ecco frattanto un documento confacente a far conoscere non solamente le diverse magistrature primarie della repubblica di Lucca, ma che ancora ci notifica gli anziani subentrati ai consoli maggiori, i quali cambiavansi in Lucca ogni due mesi, nella guisa medesima che a Firenze, dove sino dall’anno 1250 i consoli vennero rimpiazzati dagli anziani. – Aggiungasi, che nel 1250 appunto in Firenze occupava la carica di capitano del popolo un anziano lucchese, Uberto Rosso ; il quale troviamo cinque anni dopo fra gli anziani della sua patria. – (G. VILLANI, Cronic. Lib . VI c. 39. AMMIR. Istor. fior. Lib.II. CIANELLI, Memor. Lucch . T. I.)
    Ma ciò che nientemeno importa di essere qui segnalato si è, di trovare che il Comune di Lucca prese la deliberazione d’ingrandire il suo palazzo nell’anno istesso in cui la Repubblica fiorentina dava principio al suo nella piazza del popolo, che prese perciò il nome di palazzo della Signoria , attualmente di palazzo vecchio .
    Dopo tali avvertenze, volendo ritornare in via per accennare le principali vicende civili e politiche accadute nella città di Lucca posteriormente alla pacificazione con la corte romana, dirò, che le cose pubbliche dei Lucchesi dopo la morte dell’Imperatore Federigo II, nei primi dieci anni dell’impero vacante, camminarono di bene in meglio e prosperarono, non tanto riguardo al modo di condurre gli affari del
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    comune, come di conservare i paesi che i Lucchesi a forza d’armi andavano acquistando, ad onta che in Lucca non mancassero a disturbare la pace interna le malaugurate fazioni dei guelfi contro i ghibellini, dei nobili di contado contro la comunità, del popolo grasso contro il magro , in una parola dei popolani contro i magnati.
    Erano nel secolo XIII i Lucchesi per uniformità d’istituzioni municipali e per sentimenti politici coi Fiorentini sì strettamente uniti e collegati che, ogni affronto, qualsasi danno e pericolo dell’altro; quindi nelle guerre, come nelle tregue, così nelle paci, il governo di Lucca in tutto il secolo XIII, e nel principio del susseguente, camminò quasi costantemente d’accordo con quello di Firenze; ed i Signori della repubblica fiorentina uniti di massime con gli Anziani lucchesi furono per lunga età l’anima e il maggior nerbo della lega guelfa in Toscana.
    Fra le dimostrazioni di scambievole amicizia dei due governi debbo rammentare quella del 1228, quando i Fiorentini, interponendosi mediatori, furono dichiarati arbitri di una pace fra i Lucchesi e i Pistojesi. Ciò apparisce dal lodo pronunziato in pieno consiglio, nel dicembre di detto anno, nel palazzo del Comue di Firenze, presenti Parenzo Romano potestà di Lucca, e varii sindaci della stessa città, fra i quali trovavasi quell’ Uberto Rosso , che 22 anni appresso fu eletto il primo in Firenze tra i capitani del popolo.
    Ma la prova più solenne, più generosa, di cui a buon diritto il governo lucchese deve onorarsi, fu dimostrata, se io non fallo, all’occasione della battaglia di Montaperto. Avvegnaché di 30,000 fanti, e di 1300 cavalli, di cui è fama che nei campi dell’Arbia si componesse l’esercito guelfo innanzi la pugna, dopo la funesta sconfitta, molti di quelli scampati al macello vennero immolati alla rabbia del vincitore ghibellino, e gli altri (circa 11,000) meschinamente in dure prigioni cacciati. Mai rovina maggiore aveva percorso le città
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    guelfe di Firenze e di Lucca; mai più si pianse in Toscana tanto, quanto dopo la terribile giornata del 4 settembre 1260; talché si disse non esservi stata famiglia che non avesse a piangere la morte di un suo congiunto.
    Da tanta desolazione molte città e terre della Toscana spaventate, inermi e scoraggite dovettero aprire le porte e far buon viso a vincitori orgogliosi e sempre caldi d’ira. La sola città di Lucca tenne forte, e nel tempo che vegliava a tener lontani i fuoriusciti ghibellini, serviva di refugio e di sostegno ai guelfi che da ogni parte oppressi e scacciati accorrevano costà.
    Per altro, Lucca divenuta in tal guisa asilo ed ostello dell’avvilita parte guelfa, fece risolvere le armi dei ghibellini di Toscana tutta di voltarsi ai danni di lei e del suo territorio. Le quali aggressioni, benché talvolta dai Lucchesi respinte fossero con danno dei nemici, pure per il maggior numero di questi fu ridotto a tale strettezza da esser costretti i suoi reggitori dopo quattr’anni a venire ad un accordo.
    Fu pattuito pertanto che i Lucchesi, salve le patrie leggi, ad esempio dei Fiorentini, riconoscerebbero in loro vicario Manfredi re di Napoli, giurando di stare nella parte ghibellina; che essi allontanerebbero dalla città e dal contado i guelfi refugiati forestieri, a condizione però di riavere il castello di Motrone, ed i prigionieri fatti alla battaglia di Montaperto.
    A questa epoca il Beverini attribuisce, sebbene senza prove, la mutazione dell’ordine antico del governo municipale di Lucca, accaduta, dice l’annalista, dopo 190 anni che avevano governato i Consoli; dondeché il regime della repubblica fu trasferito al decemvirato degli Anziani, eletti due per ciascuna delle 5 regioni o porte della città. Di più lo stesso scrittore supponeva, che tal cangiamento accadesse per far partecipare onori eguali nella suprema magistratura tanto ai guelfi come ai riammessi ghibellini lucchesi.
    Qualora però si rifletta, che una simile mutazione di statuti, fino dal 1250, era stata
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    fatta dai Fiorentini a danno dei ghibellini e dei magnati; quando si è visto, che il popolo di Firenze in detta occasione nominò in suo capitano Uberto Rosso di Lucca; che per consiglio di lui furono eletti, in vece dei Consoli, dodici cittadini, due per ogni Sesto, chiamandoli questi Anziani del Popolo ; e che in tale occasione, per asserto del cronista più vetusto, Ricordano Malespini, si diedero dallo stesso capitano venti gonfaloni a certi caporali ripartiti per compagnia d’armi e per vicinanze , come abbiam visto praticato anche i Lucca; tutto ciò, io diceva, darebbe motivo di credere che la mutazione dell’ordine governativo fosse accaduta in questa città molto innanzi che il partito ghibellino avesse acquistato preponderanza in Lucca come in varie altre città e terre della Toscana.
    Con tuttociò, Lucca guelfa per genio e per principii, dalla sola necessità obbligata di piegare alla parte ghibellina, ritornò ad esser guelfa tosto che il più potente sostenitore del ghibellinismo, il re Manfredi, nel 1266 rimase vinto ed estinto nei campi di Benevento.
    Sebbene d’allora in poi non mancassero frequenti guerre battagliate per tenere in moto e in allarme il popolo lucchese, ora nell’anno 1271 per conquistare il forte castello di Montecatini in Val di Nievole, fatto nido de’ghibellini; ora (anno 1275 e seguenti) per unirsi ai Fiorentini e ai Genovesi contro il governo della città rivale di Pisa; ora (anno 1288) per inviare in sussidio della lega guelfa fanti e cavalli nel Val d’Arno aretino; ciò non ostante può dirsi, che le cose interne dei Lucchesi si rimasero tranquille per tutto il resto del secolo XIII.
    Frutto di stabilita tranquillità e del felice stato dei Lucchesi credo potersi riguardare la costruzione di molti edifizii sacri e profani, di strade e piazze ampliate dentro e fuori di città. Delle quali cose diede un cenno anche Tolomeo, agli anni 1296, e 1298; quando cioè fu ingrandita la piazza di S. Michele
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    e trasportati altrove gli ospedali di S. Michele in Foro, e di S. Donato; e ciò nel tempo istesso in cui i priori compravano con i denari e con i beni dei soppressi Templari una parte dell’orto dei frati predicatori di S. Romano ad oggetto di costruire in quel suolo case e borgate.
    Mentre tutto andava a seconda del desiderio dei governatori e dei governati, tornò in campo un malumore che fu preludio non solo di gravi amarezze, ma che ogni bella speranza e i disegnati progetti travolse. – Era appena incominciato il secolo XIV, allorquando antichi odii di famiglie e semi di cittadine discordie germogliarono in guisa tale, che resero oltracotante il ghibellino contro il guelfo sotto una nuova divisa, quello di bianca , questo di nera . – Vinse naturalmente in Lucca la fazione più numerosa del popolo, cioè la parte nera , di cui era l’anima un potente anziano, molto in grazia della plebe, e tornato di corto da una legazione al Pontefice Bonifazio VIII. Dico di quel Buonturo Dati uomo guelfissimo, e conseguentemente mal visto dall’Alighieri, che con ironia maligna volle sferzarlo insieme con i suoi concittadini, dicendo, che costà

    Ogni uom v’è barattier fuor che Bonturo
                                    ( Inferno, Cant. XXI.)

    Per abbattere la sede donde sotto nuove forme era partito l’incendio delle politiche fazioni, si unirono ai Fiorentini i Lucchesi, i quali d’accordo stabilirono d’inviare i loro rispettivi eserciti ad attaccare le castella del territorio di Pistoja, e quindi assediare la città fornite e primario sostegno della parte bianca , fatta nido dei più acerrimi ghibellini.
    Sarebbe ozioso il rammentare le lacrimevoli conseguenze di quell’assedio e della resa di detta città dopo undici mesi di ostinata difesa, per non aver duopo di qui solamente avvertire, che la lega vincitrice spartissi il governo della soggiogata Pistoja, riservandosi i Lucchesi l’elezione di un loro cittadino per potestà, mentre era
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    nella scelta dei Fiorentini la nomina del capitano del popolo.
    Insorse in Lucca poco tempo di poi (anno 1308) un tumulto fra il popolo e i nobili, in conseguenza del quale il governo, che per principio politico teneva dalla parte popolare, riescì a far escludere dalle borse tutti i magnati o potenti, eccetto quelli che ad una delle compagnie delle armi, ossia dei venti gonfaloni di contrade, si trovavano ascritti.
    Tale fu una delle ragioni per riformare gli antichi statuti del Comune di Lucca, e per sostituire quelli compilati nel 1308, che sono rimasti i primi fra i conosciuti. – ( Vedere Statuta Lucens. anni 1308, Lib. III. rubric. 165 e 169).
    Supera il numero di cento la nota delle famiglie nobili lucchesi con quella riforma state escluse dalle prime magistrature, oltre i nobili di contado, ossiano cattani , di qualunque essi fossero origine e razza.
    Bonturo Dati con altri due colleghi popolani, potenti presso la plebe, furono quelli, che a detta epoca formarono in Lucca una specie di triumvirato, dal cui arbitrio era regolato quanto spettava alla Signoria e al governo della repubblica.
    Fu tolta l’autorità agli anziani, e la giurisdizione ai giudici delle diverse vicarìe del territorio per mettere al loro posto dei popolani. Quindi è che molte famiglie vennero ammonite, molte altre esiliate, e moltissime disgustate abbandonarono la patria, menomando così la città di uomini d’ingegno, di artisti, di preziose industrie e di ricchezze.
    A tanti mali si aggiunsero per colmo le rovine, le oppressioni, le stragi e i saccheggi che Lucca ebbe a sopportare all’arrivo impensato ed ostile di Uguccione della Faggiuola, (all’anno 1314), cioè poco dopo essere stato Uguccione eletto in capitano generale di una popolazione, che per troppa vicinanza, per indole del governo e per circostanze di località nacque, crebbe e invecchiò quasi sempre nemica del popolo lucchese.
    Era morto di corto l’Imperatore Arrigo VII terrore dei guelfi in Italia, sostegno dei ghibellini, quando
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    tornò a ridestare le speranze in quest’ultimi Uguccione della Faggiuola, che i Pisani elessero in signore, invitato da Genova per succedere ad Arrigo VII nel comando generale dei ghibellini di Toscana. Inoltre era mancato ai vivi il Pontefice Clemente V affezionato a Roberto rè di Napoli; lo che aprì a Uguccione una più agevole via al conquisto di Lucca, cui già meditava. Infatti cominciò egli a travagliare sì fattamente i Lucchesi, da costringerli alla restituzione delle castella state cedute dal conte Ugolino. Volle inoltre, ed ottenne, che gli usciti rientrassero in Lucca; tra i quali Castruccio di Geri degli Antelminelli rivide la patria. – Infine Uguccione alla testa di 11000 e più soldati mosse improvviso da Pisa (14 giugno 1314) e arrivò dinanzi a Lucca contemporaneamente alla mossa di un allarme dei ghibellini di corto riaccettati in patria; lo che agevolò l’ingresso in città del Faggiolano e delle sue masnade. I Lucchesi sopraffatti da interni e da esterni nemici, né potendo resistere a tanta piena, videro in brevissim’ora fuggire la cavalleria catalana che poco innanzi dal re Roberto a tutela loro fu inviata, e la città fatta preda degli assalitori. Fu allora quando con spaventosa rabbia, con isfrenata libidine e insazievole avarizia si manomesse, si calpestò onore, pudore, religione, ed ogni più rispettabile diritto divino e umano. Il saccheggio più feroce che fosse dato mai a una città da chi avesse sostenuto lunghissime fatiche e grande morìa, sembra un nulla al confronto di quello che al dire degl’istorici lucchesi ebbe a soffrire la loro patria dai fautori e dai soldati di Uguccione della Faggiuola. Seguitò la tragedia otto giorni continui, durante il qual periodo furono non solo saccheggiate e vilipese le cose dei privati, ma profanate e spogliate le chiese insieme col ricco tesoro che il Pontefice Clemente V vi aveva congregato; in fine a colmo di tanti mali si aggiunse un incendio desolatore, di cui restarono preda non solo 400 case, ma preziose suppellettili, e
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    pubblici archivii, i quali, o furono espilati dagli uomini, o abbruciati e distrutti dalle fiamme.
    In tal guisa Lucca fatta bottino dei ghibellini, con un’apparente formalità legale dovè acclamare (13 luglio 1314) Uguccione in capitano generale del suo popolo, nel modo che lo era del pisano: e così lasciarsi governare ad arbitrio dei bianchi suoi fuoriusciti. I quali, ricattandosi con usura sopra i loro concittadini, e specialmente contro quelli che parevano più cari al popolo, lì scacciarono tosto in patria, o gli spensero affatto con la vita. In tal guisa il capitano del popolo lucchese consolava i ghibellini toscani della morte di Arrigo di Lussemburgo; rendendosi sempre più formidabile e più spaventoso ai guelfi colui che, a sentimento di un eruditissimo scrittore della nostra età, dal divino Alighieri fu simboleggiato nel Veltro allegorico , come il Messo di Dio , il quale uccidere doveva la rea donna,

    E quel gigante che con lei delinque .
                ( Purgatorio Cant. XXVIII)

    Ma già della sciagura di Lucca, i Fiorentini dolenti, veduto il Faggiolano poggiarsi tant’alto per l’acquisto e l’assoluto dominio sopra due vicine repubbliche, si davano ogni premura di associare alle loro forze quelle dei Comuni di parte guelfa, sollecitando nel tempo stesso ajuti da Siena, da Bologna, da Perugia, da Gubbio e da Roberto re di Napoli.
    Consapevole Uguccione di tali preparativi di guerra, si mise nel caso di validamente combatterli; sicché dopo aver egli riunito insieme da 20,000 fanti, e 2500 cavalieri, con questi mosse verso la Val di Nievole per conquistare il castello di Montecatini; sennonché dall’altro lato era assai maggiore l’esercito della lega guelfa, messo insieme dai Fiorentini. In fine i due nemici, ai 29 agosto del 1315, scontraronsi nella valle sul piccolo torrente Borra , fiacco riparo a tanta ira. Al primo assalto le schiere della vanguardia comandata da Francesco figlio del Faggiolano penetrarono con tanto impeto
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    nel campo dei Fiorentini, che quel potestà dei Lucchesi, ferito a morte, spirò in mezzo alla pugna; e già gli assalitori indietreggiavano, quando accorse Uguccione con il nerbo della sua armata, i respinti rianimò, e più caldi li ricondusse al cimento. Allora fu che la giornata essendo divenuta campale, dai ghibellini si combatté con tale impeto, ardire e valore da portare dovunque la morte, lo scompiglio e il terrore. I primi capitani fra i guelfi rimasti estinti nella pugna furono, un fratello e un nipote del re Roberto; ed un grandissimo numero di nemici cacciati ed affogati rimasero nelle vicine paludi, talché Firenze, Siena e molti paesi piansero i suoi prodi. Il lucchese Castruccio sino d’allora si fece conoscere per buon guerriero, avendo in questa giornata dato prove di coraggio e di militare perizia, nelle quali cose cotanto grandeggiò pochi anni dopo.
    La vittoria pertanto di Montecatini fruttò a Uguccione non solo un più sicuro dominio in Pisa, ma aprì a lui la strada per rendere totalmente ligia al suo volere la città di Lucca. Infatti egli con piede sempre più fermo vi prese a dominare, tostoché in luogo del testé estinto potestà di Lucca, elesse a succedergli l’altro suo figliuolo Neri. Trovavasi questi in uffizio quando, pochi mesi dopo la vittoria di Montecatini, occorse che Castruccio di suo arbitrio, o come altri vogliono, d’ordine di Uguccione erasi recato con dei compagni nelle parti della Versilia e di Massa Lunense, ponendo a ruba il paese. Per la qual cosa appena tornato a Lucca Castruccio, accusato di furti e di uccisioni, fu carcerato e sommariamente condannato ad avere il capo reciso. Già già la scure stava per piombare sul collo del valoroso capitano, se il popolo lucchese non minacciava di levarsi a stormo; in guisa che intimorito il potestà, ne mandò tosto avviso al padre in Pisa. Si mosse quel capitano con le sue bande, ma pervenuto a metà del cammino fra Lucca e Pisa,
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    ricevé avviso della repentina sollevazione dei Pisani, che le genti fedeli al Faggiuolano cacciarono di città. Nel mentre però Uguccione retrocedeva per riacquistare in Pisa il perduto dominio, i Lucchesi dal canto loro imitando l’esempio dei Pisani corsero a liberare Castruccio dalle catene e dalla morte, gridandolo tosto capitano del popolo. Così Uguccione in un giorno medesimo (11 aprile 1316) videsi spogliato della signoria di due importanti città.
    La popolare elezione di Castruccio in capitano generale e difensore della città di Lucca fu confermata per sei mesi dagli anziani e dal consiglio generale con atto solenne dei 12 giugno 1316. Ma innanzi che terminasse il semestre del concesso capitanato, Castruccio seppe così destramente operare, che dal senato e dal popolo lucchese, con deliberazione del 4 novembre dello stesso anno, fu confermato nella carica medesima, non solo per sei mesi, ma per un intiero anno; e prima che arrivasse la fine di questo secondo periodo fu proceduto a nuova elezione, nella quale venne deciso, che Castruccio, col titolo di Signore e Difensore della città e dello stato di Lucca , la repubblica ancora per dieci anni governasse. Finalmente, arrivato il 26 aprile dell’anno 1320, gli amici e fautori, con tacito consenso del capitano lucchese, operarono in guisa tale che il magistrato degli anziani, poi i capitani delle contrade, e finalmente il parlamento generale sulla piazza di S. Michele adunato, tutti concordemente proclamassero Castruccio Castracani in Dittatore della Repubblica a vita .
    Quando si dovesse porre a confronto le qualità e le azioni di due grandi uomini, proporzionando i tempi, le imprese, la forza dei mezzi e la grandezza della repubblica francese con la piccolezza della repubblica di Lucca, chi non riconoscerebbe in Castruccio il Napoleone del medio evo?
    Perciocchè l’Antelminelli per ascendente e per virtù militare fu uomo non solamente raro dei tempi suoi, ma ancor per molti di quelli che innanzi erano passati, e perchè l’arte strategica, la celerità delle
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    marcie e la destrezza nel campeggiare fu meglio conosciuta e trattata da lui che da ogn’altro capitano della sua età, e fra tutti coloro che avevano da gran tempo indietro figurato in Italia. – Duole certamente che la sua patria, la sede delle sue glorie non abbia conservato monumento che valga a degnamente rammentarlo al passeggiero; e tanto più ne duole, in quanto che nei pubblici archivii mancano memorie relative alle provvisioni sul reggimento civile, politico e militare nei dodici anni del suo glorioso governo in Lucca emanate. Parlarono bensì di lui tanto che basta gli scrittori; parlarono le opere sotto il di lui governo, sia dentro la capitale, sia nel suo territorio eseguite, specialmente di ponti, di strade, di rocche, di fortificazioni di vario genere; parlarono le deliberazioni dei Comuni a Lucca limitrofi, spaventati dal genio intraprendente di Castruccio, e dalle sue armi costernati, vinti, o sull’orlo di essere da quel fulmine di guerra domati.
    Figurava capo del partito guelfo in Italia Roberto re di Napoli, il quale sino dal 1317 erasi intromesso per procurare pace fra i diversi popoli della Toscana. Infatti un trattato di pace fu conchiuso per opera sua in Napoli, li 12 maggio 1317, presenti gli ambasciatori delle varie città e terre di Toscana, ed una delle condizioni di pace fu quella, che tutti i prigioni fatti nella sconfitta di Montecatini fossero alle varie comunità restituiti.
    Colà rappresentò gl’interessi della città e Comune di Pistoja sua patria Andrea de’Rossi, il quale un mese dopo, nella stessa qualità d’ambasciatore, e pel subietto medesimo, fu inviato con ser Mazzeo Guidi a Lucca. – Al chè ci richiama una lettera del potestà ed anziani lucchesi sotto dì 23 giugno 1317 diretta al conte Ugo da Battifolle, vicario regio di Pistoja, e gli anziani della stessa città per dir loro: che ai due soprannominati ambasciatori pistojesi eglino non potevano dare una risposta adeguata, stante l’assenza del capitano Castruccio, il quale ritrovavasi in quel momento
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    ai Bagni di Corsena. – Vedere BAGNI DI LUCCA.
    Con altra lettera scritta il giorno dopo da Castruccio, appena arrivato in Lucca; e diretta da questi al potestà, anziani, gonfaloniere e consiglio Comunale di Pistoja, gli avvisava: che egli aveva esternato le sue intenzioni ai reduci ambasciatori verbalmente sopra quello che credeva di sua convenienza.
    Il padre Zaccaria, cui dobbiamo la pubblicazione delle due lettere estratte dall’archivio della città di Pistoja, ( Anecd. Pistor. M. Aevi pag. 95 e 96) non tralasciò di avvisare, che quella prima lettera, scritta dagli anziani in nome del Comune di Lucca, era sigillata con l’impronta di un militare a cavallo che brandisce uno scudo nel braccio sinistro, (credo S. Martino) e intorno le parole † Sigillum Comunis Lucani ; sigillo che ci rammenta quello donato alla città di Lucca dal Pontefice Alessandro II restauratore della cattedrale lucchese di S. Martino. – Il sigillo poi alla lettera di Castruccio raffigurava nella parte superiore un animale simile a un cane avente al di sotto uno scudo, e intorno al detto blasone le leggenda – S. Castrucci Vicecomitis Lunensis .
    Cotesta impronta, oltre di essere una conferma dell’arme gentilizia ch’ebbe fino d’allora la casa degli Antelminelli Castracani, ci scuopre in Castruccio il grado di Visconte Lunense ; di che sino dal 1317 egli era stato insignito da Gherardino Malaspina vescovo di Luni. – Per la qual causa, scrisse il biografo Tegrimo: Castruccio occupò in Lunigiana Fosdinovo e gli altri castelli di qua dalla Magra, cacciandone i marchesi Malaspina. Né contento di ciò, il capitano lucchese si avanzò con buon numero di armati fino a Pontremoli, al cui popolo, diviso in due fazioni, assegnava due giudici, uno rettore della parte guelfa, l’altro della ghibellina, nel tempo stesso che faceva erigere una torre, chiamata tuttora Cacciaguerra, nel centro del borgo che divideva la terra in due contrade e in due governi. – Vedere
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    PONTREMOLI.
    Se dovessimo credere al testé nominato biografo, il dittatore di Lucca, benché da tante guerre occupato, non lasciava di far decreti savissimi per il pubblico bene, affinché sotto un dominio assoluto una qualche forma di libertà trasparisse; figurando, secondo il Tegrimo, che nulla di suo arbitrio negli affari politici trasparisse; quantunque dalla lettera degli anziani lucchesi, scritta nel 1317 al Comune di Pistoja, la faccenda in realtà tutta al contrario venga dimostrata.
    Comunque sia, restano tuttora nell’archivio di S. Frediano di Lucca due documenti, uno dei quali giova a far conoscere la pietà di Castruccio, l’altro la giustizia che fu resa sotto il di lui governo per la restituzione di una parte del tesoro di S. Frediano di Lucca, espilato durante il saccheggio del giugno ( ERRATA : 1814) 1314. Il primo documento è un atto rogato in Lucca li 7 aprile del 1321, col quale il priore dei canonici Lateranensi di S. Frediano, per la reverenza verso l’egregio uomo Castruccio Antelminelli signor di Lucca , volendo aderire alla di lui domanda, diede licenza alla priora e monache di S. Martino di Gello , che allora dimoravano nella contrada di S. Leonardo in Capo di Borgo nella stessa parrocchia di S. Frediano, di poter far celebrare messe, dire i divini uffizii, sonare campane ec., e ciò a beneplacito di detto priore, senza pregiudizio però dei suoi privilegi parrocchiali.
    L’altro documento consiste in varii contratti, riuniti in un libro membranaceo, soto li 19 novembre 1322; dai quali atti apparisce, che molti lucchesi avevano acquistato per proprio uso degli argenti, e altri oggetti preziosi, in una, o in altra guisa avuti, di quelli del tesoro della chiesa romana che era in serbo in S. Frediano di Lucca. I quali argenti o altro, a tenore delle decretali pontificie, furono dagli acquirenti per ordine del governo alla chiesa medesima restituiti.
    Difatto Castruccio durante il suo dominio,
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    nelle attribuzioni giuridiche, fu servato da un fedelissimo giureconsulto suo vicario, Ugolino da Celle, mentre per consiglieri di stato egli si giovava di uomini espertissimi nella politica, fra i quali un Lippo Garzoni da Pescia, un Luparo Lupari da Benabbio. Così nelle cose di guerra ebbe al suo servizio valenti capitani presi da diverse contrade; tenendo Castruccio per massima: che non alla patria, o alla schiatta, ma alle virtù bisogna che i buoni principi abbiano l’occhio.
    In quanto poi alla costituzione militare da Castruccio ordinata per fare di tutto il territorio, non che di Lucca, un esercito mobile pronto ad ogni occasione, egli ripartì lo stato in tante divisioni quante eralo le porte della città di Lucca, cioè, di S. Pietro, S. Donato, S. Grervasio, e S. Frediano, ossia del Borgo; e ciascun villaggio, borgata o castello organizzò in compagnie sotto periti ufiziali e insegne proprie, con l’obbligo di esercitarle e star pronte a marciare al primo cenno. Per modo che circa venti ore dopo l’avviso dato, da un polo all’altro della repubblica, dalla Val di Magra alla Val di Nievole, le milizie lucchesi comparivano, assalivano, e i più muniti castelli conquistavano si presto e con tanta celerità, che le aquile serventi d’insegna alle castrucciane legioni sembravano ai nemici suoi che avessero le ali per volare.
    Dopo tali ordinamenti, dopo assicurato un costante potere, Castruccio alzò i suoi pensieri a cose maggiori, tendenti niente meno che a far crollare forti città costituite a repubblica, le quali per principii e per natura di governo dovevano essere naturalmente sue avversarie.
    Ad effetto pertanto di abbattere la più potente di tutte, Firenze, senza esitanza e rispetto ai patti giurati, dirigeva bene spesso il nerbo maggiore delle sue forze, ora in Val d’Arno, ora in Val di Nievole per insignorirsi d’importanti terre e castella, e finalmente per conquistare Pistoja; la quale città, dopo la pace del 1317, tenevasi dalla parte guelfa sotto il patrocinio del re Roberto e della
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    Signoria di Firenze. Tanto fece Castruccio coi suoi maneggi, e tanto con le sue armi operò, che i Pistojesi trovaronsi costretti, nel maggio dell’anno 1322, a riconoscere il capitano lucchese in loro protettore, salva la libertà del paese.
    Nel frattempo che Castruccio dimorava nella sua capitale, fece innalzare un’opera colossale per servire di vasta cittadella, nella quale rinchiuse, oltre il suo palazzo, arsenali d’armi, caserme, chiese, conventi, abitazioni private e intiere strade, in guisa che a cotesta piccola città, circondata dal secondo recinto delle mura, fu dato il nome confacente di Augusta , quasi per rammentare essere dessa un’impresa degna dei Cesari.
    Non contento di aver tolto dalle mani dei guelfi il governo di Pistoja, volle Castruccio tentare, sebbene senza effetto, di fare lo stesso verso la terra di Prato, sperando divenirne padrone. Nè un miglior successo egli ottenne dal lato di Pisa, città allora governata dal conte Ranieri della Gherardesca, col quale il dittatore lucchese era già alleato. Ma siccome per esso ogni modo, purché fosse utile, era buono, trattò segretamente di toglier di vita quel signore, e poscia di far gridare il proprio nome per le vie della città. Ma la congiura venne agli orecchi della Gherardesca, che pagò del meritato guiderdone i congiurati, mettendo altresì una taglia grossissima sulla testa di Castruccio.
    Frattanto che il signor di Lucca da un lato tentava per forza o per astuzia di soggiogare Pistoja, Pisa e Firenze, dall’altro canto dava compimento alle ambiziose sue mire col rendere ereditario nella sua famiglia il supremo potere, coi mezzi altre volte adoprati. Fu colto il momento, in cui il capitan generale era nell’atto di partire con l’esercito per proseguire la guerra contro i Fiorentini nelle parti di Pistoja, onde per qualunque caso di novità, o di accidente, essendo dubbiosi gli eventi di guerra, ed anche all’oggetto di ricompensare il valore e le opere egregie del capitano a favore della patria, venne insinuato nel popolo e nei magistrati
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    di Lucca il modo di eleggere Enrico figlio primogenito di Castruccio in compagno del padre nella signoria della patria, a vita. La qual proposizione, ai 18 giugno del 1325, per voto unanime degli anziani, dei collegi e del popolo lucchese fu convertita in legge fondamentale.
    Per tali mezzi l’Antelminelli affaticavasi per manifesta guerra, o per vie secrete di far sempre maggiore la sua grandezza. Ma i Fiorentini che vedevano un giorno più dell’altro mal sicuro il loro stato a contatto di un nemico, il quale correva a gran passi alla conquista di tutta la Toscana, si diedero ad accumulare quante maggiori forze poterono con stipendiare compagnie di borgogni e di catalani, e con cercare soccorsi ai loro amici a Bologna, a Siena e presso tutti i popoli della lega guelfa toscana.
    Dondeché, appena essi poterono riunire una buona armata, la mossero verso Pistoja, e in Val di Nievole fino all’Altopascio. Costà accadde, nel settembre del 1325, il terribile scontro fra l’oste fiorentina e la lucchese; costà fu il celebre campo di battaglia, nel quale Castruccio fece prodigii di valore, e dove dié le più evidenti prove della sua perizia nell’arte della guerra. La battaglia dell’Altopascio fu pei Lucchesi gloriosa e completa.
    Pochi dei nemici che avanzarono all’eccidio poterono scampare dalle mani del vincitori; e si raccontò, che infino a 15,000 ascendesse il numero dei prigioni, tra i quali il generale in capo dell’esercito fiorentino, e moltissimi personaggi cospicui di Firenze e di altre città della Toscana, dell’Italia, e per fino di oltremonti.
    Per non dar tempo al governo fiorentino di riparare in si terribile frangente all’immenso danno, Castruccio si avanzò tosto con le sue genti fino alle mura di Firenze, guastando e depredando tutto il contado compreso i subborghi della città.
    Quindi onusto di preda, e provvisto di un buon numero di prigioni, egli diresse nuovamente l’esercito al campo delle sue glorie, all’Altopascio.
    Già l’eroe lucchese nel giorno di tanta vittoria aveva seco
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    stesso determinato di offrire alla patria uno spettacolo grande, inusitato e non mai più visto in alcuna città, meno che in Roma, allora quando quel senato decretava l’onor del trionfo ai consoli e proconsoli vincitori di qualche provincia, o di un barbaro regno.
    Divulgossi per la Toscana il programma di simil feste trionfale; e affinchè gli stessi nemici ne fossero spettatori, Castruccio concedeva per quei giorni salvo condotto a tutti coloro che a Lucca desiderassero concorrere.
    Il giorno di S. Martino, festa titolare della chiesa cattedrale Lucchese, il dì 11 novembre del 1325, fu per Lucca memorando; poiché in detto giorno seguì il pomposo ingresso dei vincitori con le prede e i vinti prigioni: trionfo da molti istorici minutamente descritto, e reso anco più solenne da molti atti di beneficenza e magnanimità del trionfatore.
    Seguitarono dopo di ciò le scorrerie delle masnade lucchesi in tutto il Val d’Arno sino alle porte di Firenze, finché la parte guelfa della Toscana, il papa e il re di Napoli, capi di quel partito, risolverono di fare tutti gli sforzi per arrestare tanto impeto del capitano lucchese, e frenare la sua baldanza, cui dava un maggiore impulso l’amicizia di Lodovico il Bavaro giunto in Italia.
    Già Castruccio decorato del grado eminente di senatore di Roma, si godeva nell’alma città dei migliori onori nei giorni che succederono alla festa dell’incoronazione del nominato imperatore, quando gli arrivò la novella che ai 28 gennajo del 1328 fu improvvisamente dai Fiorentini assalita e tolta dalle mani dei Lucchesi la città di Pistoja.
    Contristato da tale annunzio, Castruccio lasciò bentosto Cesare e Roma, e di là avviatosi per le maremme con poche delle sue genti, passando da Pisa, senza rispetto alcuno al nuovo Augusto, nè al di lui vicario, cominciò a farla da padrone, ponendo tasse ai Pisani e manomettendo le pubbliche casse affine di accrescer modi di riconquistare Pistoja. Cosicché di là recatosi nella sua capitale, in pochi mesi fu in grado
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    di marciare alla testa di numerose forze per espugnare la perduta città. Riescì Castruccio con la sua tattica all’intento desiderato (3 agosto 1328); se non che le molte fatiche che egli ebbe a sostenere nel lungo assedio sotto Pistoja, fruttarongli una febbre che in pochi dì lo tolse dai vivi.
    Mancò quest’uomo straordinario il dì 3 settembre del 1328, nell’anno 47° della sua età, col lasciare di sé tale opinione, che se non gli fosse stata così breve la vita, egli sarebbe pervenuto a signoreggiare gran parte d’Italia, non che della intiera Toscana.
    Castruccio morì qual visse, cioè, da uomo forte; e conservò fino all’estremo suo respiro tranquillità di spirito, cosicché poté dare un ultimo saggio del suo senno, come profondo conoscitore delle cose umane. Che sebbene egli fosse più prode capitano, che dotto legislatore, ciò non ostante morendo previde, e predisse quanto pur troppo, mancato lui, accadde di Lucca e della sua vasta signoria.
    Fra le opere superstiti che rammentino il governo di Castruccio, oltre la cittadella dell’Augusta, alla costruzione della quale s’impiegarono i materiali di undici grandi torre e molti casamenti pubblici e privati, fu opera dell’Antelminelli la spaziosa strada che dalla porta della città guida al ponte S. Pietro sul Serchio, la strada e il ponte di Squarciabocconi sulla Pescia di Collodi, la strada costruita alla marina lucchese da Montramito a Viareggio, la nuova torre in quest’ultimo luogo, oltre diversi ponti costruiti o restaurati sopra i fiumi Serchio e Lima, senza dire di molte rocche, torri e fortezze sparse in vari punti del dominio lucchese.

    LUCCA NEL SECONDO PERIODO DELLA REPUBBLICA SINO ALLA CACCIATA DEL GUINIGI

    Pur troppo si trova vero quel detto dell’Alighieri che, rade volte discende per li rami la prudenza ed il valore, né si scambia un basso in un’eminentissimo stato da chi in se stesso non ha gli elementi di quella grandezza, cui per proprio impulso, più che per casi
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    fortuiti, ordinatamente suol pervenire.
    Enrico figlio primogenito di Castruccio, ricco delle gloriose doti paterne, con tutti i saggi avvertimenti ascoltati da lui moribondo, fu riconosciuto più per gratitudine del popolo verso il gran capitano che per i meriti proprii in signore di Lucca e degli altri stati acquistati dal padre. Ma Lodovico il Bavaro, per un tratto d’ingratitudine, o per vendicarsi di Castruccio, perché dopo la sua partita da Roma tolsegli Pisa, mentre la città era quieta, prendendola per sua: l’imperatore Lodovico, io diceva, poco si stette a spogliare l’erede del gran capitano degli stati di Lucca, di Lunigiana, di Pistoja e di Garfagnana, figurando di rimettere i Lucchesi all’antico regime repubblicano, mediante però lo sborso di una vistosa somma di denaro.
    Ma ben presto si scuoprì, come la promessa libertà fosse un vano nome; conciossiaché tutto il reggimento della repubblica fu ridutto nell’arbitrio di un vicario imperiale; e ciò sino a che le milizie tedesche, lasciate dal Bavaro senza il soldo reclamato, s’impadronirono di Lucca per venderla al maggior offerente. – Primi a comparire furono i Fiorentini, i quali sullo stringere del negozio, per dubbio di esser burlati, non vollero rischiare di perdere 80,000 fiorini. Vennero di poi i Pisani a presentar la loro offerta di 60,000 fiorini; ma dopo avere questi consegnato ai venditori 15,000 fiorini di caparra, non ebbero Lucca, nè riebbero il loro denaro: avverandosi per tal guisa il caso previsto dai Fiorentini; ai quali per due volte, ma sempre invano, venne riofferta la ballottata città. Giunse in questo mezzo a Lucca un ricco genovese, Gherardino Spinola, e questi per istrumento dei 2 settembre 1329, si obbligò di pagare 60,000 fiorini ai soldati di Cesare, sborsandone 20,000 nell’atto del contratto e 40,000 da darsi nel mese di ottobre successivo. Per quest’ultima somma però, presa a cambio da quattro signori di Genova, dovette loro prestare garanzia il Comune di Lucca, in guisa che i Signori di Lucca per liberarsi da un governo
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    militare, concorsero con la loro mallevadoria nel vendere ad un ghibellino genovese la propria libertà.
    I Fiorentini però indispettiti del concluso trattato, e forse pentiti della non fatta compra, incominciarono dal togliere al nuovo signore di Lucca una parte dei paesi stati da Castruccio nel pistojese e in Val di Nievole conquistati; dopo di che essi diressero una numerosa oste sotto le mura di Lucca con ordine al condottiero di strettamente assediarla.
    Allora fu che i Lucchesi, avuto il consenso dello Spinola, inviarono ambasciatori a Giovanni re di Boemia in Lombardia, per offrirgli il dominio della loro patria, purché egli sollecitamente inviasse forze sufficienti a liberarli dall’assedio de’Fiorentini.
    Venne in tempo il soccorso desiderato, sicché non solamente l’oste fu costretta a lasciare la desiderata preda, ma lo stesso Spinola ebbe a rinunziare la mal compra signoria di Lucca al re boemo, che dichiarò sua questa città. Per la qual cosa gli assedianti ebbero a ritirarsi dentro ai confini del loro territorio, mentre il genovese, divenuto gioco del più forte, senza speranza di rimborso fu costretto a partirsene dal paese comprato, dove appena 18 mesi aveva comandato.
     A consolidarsi il dominio di Lucca e del suo territorio, il re Giovanni ordinò che gli anziani, il popolo e gli uomini di ciascuna comunità lucchese, dichiarassero legalmente sudditanza al re boemo. – Fu veramente obbligante il metodo ordinato per fare che tutti aderissero alla volontà del re, e così per amore o per forza promettere a lui servitù. Conciossiachè l’ordine sovrano diceva: che i giurati soltanto avrebbero goduto della protezione reale, e che, chi avesse ricusato di giurare, verrebbe privato del diritto di cittadino, e nelle cause civili non ascoltato. Dai registri che tuttora esistono nell’archivio di Stato si rileva, che il dominio lucchese allora consisteva in 9 vicarie, con 288 comunelli, compresi quelli suburbani, e alcuni altri popoli situati sulla riva sinistra dell’Arno, oppure di quelli appartenuti al territorio pistojese.
    Gli ordini della magistratura furono i
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    soliti anche durante i trambusti; cioè, anziani, consiglio maggiore, e consiglio generale; ma il potere di tanti uffiziali civili rendevasi affatto illusorio: tostoché niuno di quei magistrati si poteva legalmente adunare senza l’autorità regia, e quando piaceva al magnifico vicario, ossia luogotenente pel re Giovanni.
    Le cose camminarono tranquille per quasi due anni sino all’arrivo in Lucca di Carlo figlio del re (gennajo 1333), il quale fu accolto con dimostrazioni di sincero affetto. Presto però alla festevole accoglienza venne dietro una regia domanda di 40,000 fiorini d’oro.
    Quindi per trarre dalle borse dei Lucchesi facilmente nuovi danari, lo stesso re Giovanni, nel dì 9 agosto dell’anno medesimo, passando per Lucca, sottoscrisse alcuni articoli tendenti a moderare costà l’autorità regia, a determinare le gravezze, a far osservare le leggi municipali nelle cause civili e criminali, promettendo perfino di non cedere a chicchessia alcun castello, terra, o altro paese fra quelli del territorio e giurisdizione di Lucca.
    Pure con atto tanto solenne il figlio e il padre altro non avevano in mira che di mungere meglio e più delicatamente i buoni Lucchesi. Nè passò gran tempo in mezzo prima che si manifestasse cotesta politica; perciocché, ai 17 dello stesso mese ed anno, il figlio del re Giovanni diè fuori in Parma un privilegio, col quale conferì a un anziano di Lucca, Vanni del fu Jacopo Forteguerra, il castello di Cotrosso nel piviere di Brancoli, togliendolo alla repubblica. – Vedere COTROSSO.
    Per egual modo il re padre di lui passando di Lucca, ai 5 ottobre del 1333, invece di restituire al Comune la promessa vicaria di Coreglia, che aveva tolto a un Castracani dei Falabrini, la conferì con titolo di contea a un altro Castracani del ramo degli Antelminelli. – Vedere COREGLIA.
    In quel suddetto giorno, 5 ottobre 13333, il re Giovanni diresse a Marsilio de’Rossi di Parma, suo vicario in Lucca, l’ordine di sospendere l’esecuzione di alcune concessioni e grazie
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    individualmente dallo stesso re e dal figlio di lui accordate; loché dal regio vicario fu fedelmente eseguito. – (CIANELLI, Memor. Lucch . T. I).
    Mentre si facevano queste cose dal re boemo, mentre figurava in Lucca come suo rappresentante Marsilio de’Rossi, il re medesimo nello stesso mese ed anno impegnava a Orlando de’Rossi suo vicario, e ai di lui fratelli la città Lucca con tutto il distretto per la somma di 35,000 fiorini.
    Per altro non poterono i nuovi signori possedere Lucca per lungo tempo, obbligati per indegne vie di doverla cedere (1 novembre 1335) a Mastino della Scala tiranno di Verona, che restituì ai Rossi i 35,000 fiorini d’oro pagati per l’acquisto di tutto lo stato lucchese. Finalmente lo Scaligero, dopo avere signoreggiato in Lucca quasi per un lustro, nel luglio del 1340, la vendé per 180,000 fiorini d’oro a quei Fiorentini che undici anni innanzi s’erano lasciata sfuggire dalle mani per una somma di gran lunga minore.
    Non fu pertanto senza nuovi sacrifizii, e senza dover fare una penosa anticamera che i Fiorentini dopo tre mesi entrarono in Lucca. Avvegnaché i Pisani ingelositi per detto acquisto, corsero armati ad assediare la venduta città per impedire che vi entrassero gli acquirenti nuovi. Riescì frattanto a questi ultimi d’accordo con i governanti di Lucca di forzare il campo pisano e poter introdurre pochi Fiorentini a prenderne possesso. Fuvvi tra questi, ai 25 settembre del 1341, Giovanni de’Medici, venuto in qualità di luogotenente del Comune di Firenze. Egli incominciò ad esercitare la sua carica nell’ultimo giorno di quel mese medesimo di settembre col ricevere dal senato degli anziani lucchesi il giuramento di obbedienza alla Repubblica fiorentina.
    Non si avvilirono per questo i Pisani, emuli egualmente del popolo comprante che del comprato; sicché, stringendo ognor più l’assedio intorno a Lucca, tanto fecero che costrinsero i Fiorentini per mancanza di vettovaglie a capitolare (4 luglio 1342) e cedere quasi intatta ai Pisani la costosa
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    preda.
    A volontà di questi novelli malvisti padroni, e della increscevole dominazione pisana, Lucca dovette soffrire quel misero stato, che fu da essi distinto col brutto vocabolo di servitù babilonica ; la qual servitù continuò per il lungo periodo di 27 anni.
    Giunse finalmente il 1369, anno fortunato per i Lucchesi, perché i loro lamenti resi più sensibili dalla magia dell’oro, poterono indurre l’Imperatore Carlo IV a liberare Lucca dalla soggezione dei Pisani, concedendo ai primi un diploma emanato nel dì 8 aprile del 1369; nel qual giorno cadde in detto anno la prima domenica dopo Pasqua. Al qual diploma si sottoscrissero fra i più cospicui personaggi il Cardinale Guido vescovo di Porto consanguineo di Carlo IV e suo vicario in Toscana, i Vescovi di Spira, di Lucca, di Treviri, di Spoleto e, fra i primi nobili della corte imperiale, lo spettabile conte Francesco degli Albertini di Prato.
    A memoria perpetua di tale liberazione i Lucchesi edificarono nella loro cattedrale una cappella con l’altare, che tuttora porta il nome della Libertà ( Ara Deo Liberatori ); dove da quell’epoca in poi, nella domenica in Albis , i magistrati e il popolo di Lucca con processioni e divini ufizj concorsero, e finché durò la repubblica, annualmente ripeterono.
     Non ostante la libertà come fu concessa ( ERRATA : da Carlo V) da Carlo IV ai Lucchesi, sarebbe rimasta inceppata e subalterna agli ordini del vicario imperiale, qualora questi, stimolato dal senato e caldamente officiato dai Fiorentini, previo lo sborso di 125,000 fiorini d’oro e l’assenso di Augusto, non rinunziava, come fece per atto pubblico ( ERRATA : febbrajo 1276) (febbrajo 1376), il suo potere trasfondendolo nel corpo degli anziani, e dichiarando questi vicarii perpetui di Cesare.
    Per tal guisa Lucca ricuperò dopo 56 anni quella libertà che aveva perduta, ora per opera di estranei, una volta tolta da un suo cittadino, e più spesso dall’ambizione dei principi o
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    per gelosia di repubbliche sue vicine menomata. – Una delle prime operazioni dei reggitori della risorta repubblica lucchese fu quella di riorganizzare il governo mediante una nuova costituzione; per la qual opera si presero quasi a modello le istituzioni del governo fiorentino già ritornato dei Lucchesi sinceramente amico.
    In vista di ciò, in quanto al compartimento territoriale dello stato, venne esso diviso, come lo è attualmente, in vicarie; ma per rapporto all’interno della città, fu questa ripartita in tre terzieri; dandogli il nome di alcune loro chiese; cioè di terzieri di S. Paolino, di S. Salvadore e di S. Martino.
    Il primo magistrato della repubblica, ossia degli anziani, si compose di dieci cittadini, quattro nel primo terziere, e tre per ciascuno degli altri due, e così a vicenda; sicché fra i dieci si eleggeva un capo, cui fu dato il titolo di Gonfaloniere di giustizia, con l’obbligo a tutti gli anziani di risedere stabilmente in palazzo nel tempo del loro uffizio, fissato a due mesi. A pubblica difesa furono istituiti 12 compagnie o gonfaloni, quattro per terziere: e ciascuno gonfaloniere di compagnia aveva sotto di se quattro pennonieri. Invece del consiglio del popolo, già composto di 50 individui, se ne formò uno di soli 26, il quale unitamente ai gonfalonieri di compagnia e alla Signoria, ossia al magistrato degli anziani, e a tutti gli altri consiglieri, che eleggevansi per ischede dai due corpi prenominati, costituirono, dopo le riforme del 1369, i primi poteri. Finalmente il consiglio generale fu composto, non già di 73, come scrisse il Macchiavelli, ma di 180 cittadini, 60 per ciascun Terziere. Sopra questi tre corpi: vale a dire, di anziani, consiglio di credenza, e consiglio generale, si aggirò dopo il 1369 tutto il pondo della repubblica. Per quello che spetta alle attribuzioni governative di ciascuno dei tre corpi testè accennati, ciascuno potrà saperle dal Sommario delle cose di Lucca scritto dal Macchiavelli , o dalle Memorie
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    lucchesi del Cianelli
    T. II, Dissertazione VII.
    Gioverà bensì avvertire, che al suddetto anno 1369, lo stato lucchese componevasi di undici vicarie, tra le quali le vicarie di Massa Lunense, e di Camporgiano. In tutto 277 comuni, fra i quali i suburbani.
    Una delle prime misure del nuovo governo repubblicano lucchese, fu il decreto del 3 aprile 1370, che comparve alla luce in occasione della festa della Libertà , per dar facoltà al popolo di demolire l’antica bastiglia. Detto, e fatto; la vasta cittadella dell’Augusta, l’opera più grandiosa che lasciasse Castruccio, il suo castello, le reggia, l’emblema insomma della passata schiavitù, tutto, comprese le torri che la circondavano, fu con grande ardore dalla massa del popolo gettato a terra, demolito, e anichilato in guisa da non saper quasi più il luogo dov’era l’Augusta.
    È fama bensì, che le macerie di quel disfacimento s’impiegassero nella costruzione di due antiporti alle porte di S. Pietro e S. Donato, come pure alla fabbricazione e ingrandimento di varie chiese dentro la città.
    Distrutte tali memorie di sofferta servitù, i lucchesi magistrati dieronsi ogni cura per conservare la riacquistata libertà. Al qual oggetto fu creato un consiglio (5 agosto 1370) di 18 cittadini, cui fu dato il nome di conservatori della pubblica sicurezza , ridotti più tardi (18 ottobre 1375) al numero di 12 con titolo di conservatori della libertà ; finché questi, nel 1385, cambiaronsi nel magistrato dei commissarii del Palazzo . – Mentre provvedevasi a tutto ciò, compilavansi gli statuti del 1372, nel cui proemio fu rammentato quello dato ai Pisani nel 1342, come il frutto della tirannide, e perciò incompatibile col nuovo ordine di cose.
    Infatti lo statuto lucchese del 1372, con alcune addizioni del 1381, e 1392 porta una forma più regolare di tutti quelli anteriormente conosciuti; cioè, del 1308, 1331 e 1342; poiché il primo libro contiene la costituzione della repubblica,
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    ossia de Regimine ; il secondo libro verte sul codice e procedura criminale; il terzo appartiene al gius privato e alla procedura civile; ed il quarto tiene luogo de statuti delle diverse curie di sopra rammentate; le quali curie di tribunali speciali per tal effetto cessarono dalle loro funzioni. Oltre i quattro libri qui rammentati, sonovi le aggiunte degli anni 1382 e 1392, e quelle dell’ultimo anno del secolo XIV, state dal senato lucchese ordinate. Però l’erudito Sig. Girolamo Tommasi, attuale archivista di Stato, è riuscito a verificare sui libri delle riformagioni della repubblica, che lo statuto de Regimine redatto sulla fine del secolo XIV, appena messo in vigore, fu abrogato con provvisione dei 18 giugno 1400; per modo che tornossi ad osservare l’antecedente del 1372.
    Fra le rubriche riportate nello statuto testè menzionato, fuvvi quella di escludere quasi affatto dalla carica di anziani diverse casate di nobili lucchesi, e tra queste gli Obizi , i Salamoncelli , i Quartigiani , i del Poggio , e tutti gli Antelminelli ; in guisa che più d’uno per volta di quelle casate non poteva essere eletto anziano, e ogni due anni solamente uno per agnazione, fra le famiglie designate, acquistava il diritto di sedere gonfaloniere. Tali precauzioni furono dettate a cagione dei tentativi delle designate famiglie, che più volte contro la quiete pubblica palesaronsi a danno della patria libertà.
    Con queste disposizioni dirette al ben pubblico si era sistemato il governo di Lucca dopo la sua liberazione dai Pisani. Cotesti provvedimenti però, nella serie degli anni che succedettero non ebbero quel felice successo che sembrava doverne conseguire; sia per le pestilenze che, nel 1371 e 1373, afflissero la città e il contado; sia per le militari compagnie di masnadieri di varie nazioni, le quali infestarono la Toscana, e, specialmente nel 1380, recarono aggravio sommo e rovine allo stato di Lucca; sia finalmente per le
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    intestine civili discordie che tolsero alla repubblica la quiete desiderata.
    Sono troppo palesi nella istoria lucchese per non ridire tante perniciose discordie che, sul finire del secolo XIV, in special modo si accesero fra alcune famiglie potenti di Lucca; solamente dirò, che dopo replicate agitazioni e congiure terminò la tragica scena con la morte di Bartolommeo Forteguerra e poscia di Lazzero Guinigi, capi entrambi di due contrarie fazioni, in mezzo alle quali poté farsi innanzi Paolo Guinigi tantoché, per intrigo e più di tutti del Ser Cambi, nell’ottobre del 1400, venne gridato per Lucca in capitano del popolo.
    Primo pensiero del Guinigi fu quello d’inviare un’onorevole ambasciata per notificare il suo esaltamento al duca di Milano, e cercare la continuazione della benevolenza di lui. All’istante Paolo nulla cambiò negli ordini dello stato, lasciando che gli anziani dell’ultimo bimestre di quell’anno entrassero in carica, e dimorando con essi loro in palazzo. Questo modo modesto fece di prima giunta reputare il Guinigi uomo da poco e facile da opprimersi; per lo che alcuni congiurandogli contro tentarono di levarlo proditoriamente dal mondo.
    La trama fu scoperta, ma un solo de’congiurati pagò la pena con la vita, gli altri con l’esilio o un poco di prigionia.
    Ma da cotesto primo tentativo Paolo seppe trarre opportunamente quel partito che dalle congiure sventate i grandi insidiati sogliono rivolgere in loro profitto. Egli infatti crebbe in potenza, in guisa che domandò imperiosamente al magistrato di balìa di essere nominato in signore assoluto di Lucca. Niuno osando contradirgli, Paolo diede principio ad un governo assoluto quasi un mese dopo essere stato acclamato difensore del popolo, coll’abolire il senato degli anziani ed ogni celebrazione di comizii consueti ad adunarsi per l’elezione dei collegi; alla mancanza delle quali magistrature egli fece supplire in qualche modo da un vicario e da un consiglio di stato di sua elezione.
    Comecché altri passi fatti dal Guinigi fossero quelli di rimettere in patria un buon numero di esuli politici
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    mediante lo sborso di una data somma di danaro, e coll’ottenere dal Pontefice Benedetto XII l’assoluzione delle censure ecclesiastiche che gravavano sui Lucchesi sino dai tempi di Castruccio, per cagione di Lodovico il Bavaro: con tutto ciò, conoscendo egli di avere in casa e fuori assai nemici, pensò alla propria sicurezza; sicché, imitando per questo lato il suo antecessore Castruccio, ordinò che s’innalzasse con sollecitudine dentro le mura e a scirocco della città (dal maggio all’ottobre del 1401,) un fortilizio nel quartiere che porta tuttora il nome di Cittadella .
    Poco per altro è da dire del governo di Paolo Guinigi, sebbene da assoluto signore per 30 anni dominasse nella patria. Imperrochè, qualora si accettuino le misure prese per provvedere ai casi di carestia, per incoraggire le prime sorgenti della ricchezza nazionale, sia allorché esentò per dieci anni dalle pubbliche gravezze coloro che venivano dall’estero a coltivare il suolo lucchese, sia col promuovere la coltivazione, per cotesta contrada preziosa, del castagno; sia col purgare il paese dagli oziosi e vagabondi; sia finalmente quando egli proibì l’espatriazione dei lavoranti di seta; ad eccezione di tali e di poche altre misure governative il regime assoluto di Paolo Guinigi fu simile a quello che i politici appellerebbero oggidì del giusto mezzo . Dondeché tutto il di lui studio consisteva nel cercare di far buon viso per essere amato dai suoi e per non inimicarsi i governi esteri, mancando al tiranno lucchese la forza per farsi da quelli temere e da questi rispettare.
    Se da un lato vi furono encomiatori di un uomo di tal fatta, che lodarono fino alle stelle la sua bontà di cuore e le dolci maniere, vi furono altresì molti che, contemplando il carattere e il governo sostenuto per un trentennio dal Guinigi, trovarono il primo debole, di contegno sempre sospettoso, in tutti i casi perplesso, costantemente dappoco; e paragonarono il secondo a un lungo sonno disturbato da continue paure, le quali
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    finalmente si convertirono per il governatore e per i governati in mali evidentissimi.
    Dal suo carteggio epistolare, dal contenuto delle sue ambascierie, dalle risposte ai reclami delle varie potenze, trasparisce anche meglio la nullità di quest’usurpatore, collocato sul seggio della signoria di Lucca più per l’astuzia degli aderenti, che pei meriti suoi. “Questa debolezza di carattere (concludeva lo storico Mazzarosa) serviva di per se stessa a render molto probabili i sospetti, che i nemici destramente s’ingegnarono spargere su di lui, col fine di perderlo; ed esso poi venne a confermarli in qualche modo con la sua avarizia; difetto che infine lo aveva acciecato. Insomma Paolo Guinigi sarebbe stato degno di regnare per le qualità del cuore, ma difettava di quelle dello spirito.”
    Il carattere di Paolo si adattava più che altro a intromettersi mediatore in qualche accordo fra principi e repubbliche; ed egli ne adempì le parti in varie circostanze. Rammentò fra le altre quella del 1413, allorché con soddisfazione delle parti ripianò fra il governo di Genova e Firenze ogni difficoltà rapporto all’acquisto di Livorno, con una trattativa conclusa in Lucca nell’anno medesimo. – Vedere LIVORNO.
    Non solo da mediatore, ma anche da politico qualche volta il Guinigi volle figurare tra due potenze nemiche. Tale ce lo rappresenta una risposta data alla Signoria di Firenze dal vecchio Cosimo dei Medici, il quale sino dal 20 di maggio del 1423 fu inviato ambasciatore straordinario al magnifico Paolo Guinigi Signor di Lucca , per notificargli l’ostile procedere del duca di Milano contro il trattato di pace verso l’Ordelaffi di Forlì, de’Fiorentini raccomandato; nel tempo stesso che la Signoria di Firenze insinuava al Guinigi di essere propenso verso la repubblica fiorentina, piuttosto che lasciarsi aggirare dal duca di Milano. (AMMIRAT. Istor. fior. Lib. XVIII e ARCHIV. delle RIFORMAZIONI di FIRENZE.)
    Finché un complesso di fortunate circostanze favorì il sistema del giusto mezzo , Guinigi poté riescire a trarsi
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    d’impaccio in varie emergenze politiche assai delicate; ma alla lunga è ben difficile ad un principe, seppur non è per se stesso fortissimo, lo starsi di mezzo tra due contendenti di maggiori forze delle sue, mentre non solo non può guadagnare da alcuna parte, ma rischia fortemente di cader vittima di uno dei due rivali; e questo alla fine del gioco accadde al Guinigi.
    Allarmati i Fiorentini dal vedere Filippo Maria Visconti, ora sotto uno, ora sotto altro pretesto, inviare le sue genti in Romagna, in Lunigiana e impacciarsi assai delle cose di Toscana e di Bologna, dopo essersi impadronito di Genova, finalmente la Signoria si decise alla guerra, e cercò al Guinigi un qualche ajuto nel tempo che a lui faceva una simil domanda il duca milanese. Sulle prime il signor di Lucca si schermì con l’una e con l’altro, ma alla fine stretto dalle istanze del Visconti, spedì in di lui soccorso in Lombardia 700 uomini a cavallo sotto la condotta del figlio. Cotesto procedere offese i Fiorentini, tanto più in quanto che, col pretesto di voler essere il riconciliatore fra le due potenze, Guinigi aveva ricusato l’offerta di un’alleanza offensiva. Ciò bastò alla Signoria di Firenze per vendicarsi con Paolo alla prima occasione, e questa venne, allorché nell’aprile del 1428 fu conclusa in Ferrara la pace fra il Visconti e i Fiorentini, compresi gli aderenti delle parti belligeranti, senza però rammentare il signor di Lucca. Né per questa sola misura impolitica fia da addebitarsi il dominatore di Lucca, mentre altre molte concorsero a perderlo, fra le quali è da dire quella usata verso due potenti lucchesi lasciati in stato di nuocergli dopo essere stati convinti di congiura.
    Al qual fuoco aggiugevan’esca più essenziali dissapori per conto di confini territoriali; dondeché, ai 15 dicembre del 1429, fu decretata la guerra dalla Signoria e dal popolo di Firenze al governo di Lucca, e tosto furono in campagna e sotto le mura di questa città
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    16000 uomini dell’oste fiorentina. – Visto però il Guinigi sollecito a procurare la difesa di Lucca, forse per non aver forze sufficienti da contrapporre in campo aperto, i commissari di guerra fiorentini ordinarono i preparativi per i lavori di assedio. Aveva incontrato favore l’opinione del celebre architetto Brunelleschi, che spacciava per sicura la presa di Lucca, voltandogli contro il Serchio; e non ostante che Neri Capponi, uno dei dieci della guerra, vi parlasse contro, si lavorò indifessamente dagli assedianti più di due mesi a fare un fosso assai profondo dal letto del fiume verso la città. Si cercò anche di rattenere l’acqua nel letto del Serchio inferiormente all’imboccatura del fosso per averne in maggior copia nel giorno destinato all’innondazione della città assediata.
    Ma i Lucchesi più pratici dei dotti, e dei forestieri architetti nelle cose di casa, non erano stati dal canto loro oziosi, conciossiaché essi alzarono un argine alla destra del fosso artefatto per salvarsi dall’allargamento minacciato. Né a questo solo riparo si arrestarono, essendo fama, che dopo terminati dagli assedianti gli argini del canale, e questo essendosi pieno d’acqua per scaricarla in tempo opportuno sopra la città, una bella notte gli assediati, esciti in buon numero da Lucca, ruppero l’argine alla sinistra del fosso, in guisa che l’acqua, correndo verso il piano di Lunata e di Capannori, inondò con tal violenza il campo degli assedianti, posto all’oriente di Lucca, che questi vi dovettero lasciare armi, bandiere e macchine da guerra per salvare il personale nei colli più vicini.
    Non ostante l’accaduto tristo successo, i Fiorentini non desisterono dall’assedio; che anzi vi s’impegnavano ognor più, decisi di volere ad ogni modo entrare in Lucca, quando ebbero avviso, che dal lato della Garfagnana approssimavasi una numerosa banda di soldati a piedi e a cavallo sotto la condotta di Francesco Sforza, fintosi licenziato dal soldo del duca di Milano, comecché da costui realmente un tal soccorso venisse inviato.
    Ma il generale dei milanesi era poco amico
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    del Guinigi, corrucciato con esso lui, perché aveva chiesto al Visconti il suo rivale Niccolò Piccinino a condottiero delle forze inviate. Al primo scontro peraltro dei due eserciti, il fiorentino essendo rimasto perdente, dové in fretta e furia levarsi dal campo intorno a Lucca e contentarsi di un largo blocco, traslocando i suoi quartieri a Ripafratta.
    Il signor di Lucca, per timore di perdere il principato, avendo ricusato di mettere lo Sforza con i suoi dentro la città, cotesto rifiuto fu segnale della perdita del Guinigi: giacché alcuni dei principali Lucchesi sospettando che egli volesse vendergli agli odiati Fiorentini, e lusingati dall’idea di poter riacquistare la perduta libertà, si fecero caporioni di una congiura, della quale misero a parte lo Sforza. Questi non solo l’approvò, ma temendo anch’esso della vendita di Lucca alla Repubblica di Firenze, promise di secondarla. Tutte le file essendo state tese e preparate, nella notte del 14 agosto del 1430, alcuni nobili dei più audaci fra i congiurati corsero al palazzo, e superate le guardie, penetrarono nelle stanze dove riposava il Guinigi; del quale felicemente s’impadronirono nel tempo medesimo che gli altri gridavano per le vie della città popolo e libertà .
    La mattina dopo entrò in Lucca lo Sforza, ricevuto come liberatore con le sue soldatesche. Bisognò peraltro consentire loro il sacco al palazzo del deposto signore, benché il tumultuante popolo lucchese lo avesse rispettato: e inoltre dové sborsare loro la somma di 12000 fiorini d’oro.
    Paolo fu consegnato al generale del Visconti per inviarlo a Milano a quel duca, che lo fece trasportare e rinchiudere nel castello di Pavia, dove, col crepacuore di aver perduto la signoria della sua patria, Guinigi, all’età di 59 anni, nel 1432 terminò la vita.

    LUCCA NEL TERZO PERIODO DELLA REPUBBLICA SINO ALLA LEGGE MARTINIANA DEL 1556.

    Più validamente di ogni altra forza concorsero alla rovina del Guinigi 50,000 ducati dai Fiorentini esibiti e presto pagati al conte
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    Francesco Sforza, a condizione però ch’egli ritirasse le sue genti dal territorio di Lucca; sicchè con la speranza di quel conquisto i reggitori di Firenze miravano di buon occhio tuttociò che tendere potesse ad allontanare il dittatore ed anche il protettore dei Lucchesi.
    Tornati questi ultimi al regime repubblicano, crearono ben presto il collegio, il consiglio di credenza e quello generale, composto di 120 cittadini, affidando a una balia di 12 cittadini il governo supremo. Ma i Fiorentini, appena partito lo Sforza, stante il convegno fatto e i danari pagati, tornarono a stringere d’assedio la città, perché ricusava di riceverli in signori. Ricorsero di nuovo i Lucchesi al duca di Milano, il quale, per impedire l’ingrandimento della Repubblica Fiorentina, praticò la consueta via di danneggiare nascondendo la mano che nuoce, sempre con l’aria di non mancare ai patti giurati. E, come poco innanzi aveva mandato lo Sforza a soccorrere Lucca, col dichiararlo fuori del di lui servizio, così questa fiata figurò che i genovesi, allora suoi sudditi, assoldassero il Piccinino e genti armate per inviarle prestamente verso Lucca. Eran già queste, li 2 dicembre 1430, arrivate con 3000 cavalli, e 6000 fanti presso la città al punto che il solo fiume divideva i due eserciti, quando di notte tempo il capitano milanese guadando il Serchio fu improvvisamente addosso ai Fiorentini, nel tempo che la guarnigione esciva dalla città a sorprenderli alle spalle. Lo scompiglio degli assedianti fu tale che, senza grande uccisione, tutto il campo e un buon numero di prigioni cadde in potere del Piccinino e dei Lucchesi; e questi, dopo 13 mesi di assedio, viddersi liberati (3 dicembre 1430) da un modesto nemico. D’allora in poi per decreto pubblico ogni anno una festa popolare celebrò in quel giorno tal memoria ai Lucchesi faustissima.
    Alla fine di febbrajo del 1432 tornarono i Fiorentini per tentare un subito assalto sopra Lucca, ma inutilmente; per modo che abbattuti dalla guerra, e disperando della conquista, aprirono un trattato
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    di pace, quale restò conclusa nell’aprile del 1433, a condizione che Lucca riottenesse i paesi perduti nell’ultima guerra. Ma questa piuttosto che pace riescì una tregua, poiché nei primi mesi del 1437, veduto che i Lucchesi erano rimasti privi di ajuti esterni, e sapendo, che questi dalla parte dei Genovesi si trovavano soprammodo infievoliti, credettero i Fiorentini esser giunto il tempo opportuno di ritornare sotto Lucca, a ciò precipuamente consigliati da Cosimo de’Medici, tornato di corto in Firenze dall’esilio, mercè gli amici e l’aura popolare. Fu perciò decretata la guerra contro Lucca, e Francesco Sforza, preso al soldo dai fiorentini, s’incamminò con l’armata nel territorio lucchese, dove di prima giunta occupò, dal lato della marina i paesi di Viareggio e Camajore, e dalla parte dei monti diversi villaggi e castella in Garfagnana; dopo di che si occupò a situare gli alloggiamenti intorno a Lucca.
    Erano i lucchesi a tutto disposti, salvo a soggiacere ai Fiorentini. Ricorsero pertanto, ed ebbero validi soccorsi dal Visconti, il quale usava ogni mezzo affinché cotesta città non cadesse nelle mani di tal nemico. Infatti nel tempo che il Piccinino con le masnade del Visconti marciava ad osteggiare nell’Appennino fra Bologna e Firenze, il duca di Milano faceva offrire al largo guiderdone allo Sforza, per farlo tornare al suo servizio. Non potevano questi due modi mancare di produrre l’effetto desiderato, cosicché la Signoria di Firenze, vedendosi da un lato attaccata dentro al suo dominio, e dall’altro lato scorgendo la disposizione del suo capitano propensa ad accettare il partito offertogli dal duca, si piegò a trattative di pace. La quale venne conclusa in Pisa il 28 aprile del 1438, e quand’era sul terminare del triennio, per altri cinquant’anni venne dalle parti confermata.
    In vigore del primo e del secondo accordo, nel novembre del 1441, i Fiorentini restituirono tutti i luoghi stati ai Lucchesi ostilmente durante l’ultima guerra occupati, meno la terra di Monte Carlo, e la fortezza di Motrone. – Tacquero gli storici
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    la causa che indusse la Signoria di Firenze a si fatta generosa restituzione; ma qualunque fosse la ragione di un tal procedere, in ogni modo il fatto stà a dimostrare: che se i Fiorentini, per il corso rare volte interrotto di 123 anni, dissentendo nei principi politici, furono in urto e guerreggiarono contro i Lucchesi, ciò non accadde mica per odio che avessero agli abitanti, ma sivvero al governo ghibellino, da cui Lucca per sì lungo tempo era stata dominata. – Infatti i Fiorentini, dopo la pace del 1438, non solo dentro il termine dai patti prescritto restituirono le terre ai Lucchesi occupate, ma diedero costantemente a questi ultimi prove della loro fiducia e amorevolezza. E ben corrisposero dal canto loro i Lucchesi, allorché Firenze difettando di granaglie, di cui Lucca, per misura di annona, trovavasi provvista, appena richiesti, inviarono colà 2400 moggia di grano. In conseguenza di ciò i Lucchesi, godendo di stabile quiete, poterono rivolgere le loro cure a dare un miglior ordine agli affari interni per la conservazione di un viver libero. La qual cosa apparisce da una nuova costituzione, promulgata nel 1446 sotto il titolo di Statum de Regimine palatii dominorum Antianorum . Il quale statuto fu diviso in due parti; la prima relativa a tuttociò che risguardava l’esecutiva potestà, e l’altra parte, che fu poi pubblicata in Lucca nel 1490 da Arrigo di Colonia, comprendeva le leggi civili e criminali con le regole delle procedure respettive.
    Dondechè, qualora si vogliano eccettuare le insidie tentate da Ladislao figlio di Paolo Guinigi, con lo scopo di riacquistare la paterna signoria, Lucca non ebbe più scontri pericolosi alla sua quiete e governo fino alla venuta di Carlo VIII re di Francia in Toscana. Realmente alla discesa di quei Francesi in Italia si riaccesero le estinte amarezze fra i Fiorentini e i Lucchesi, perché a quest’ultimi il re franco per pecunia aveva consegnato la terra e rocca di Pietrasanta, stata presa qualche tempo
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    innanzi dai Fiorentini ai Genovesi; e più ancora contribuirono al mal umore fra le due repubbliche gli ajuti che i Lucchesi copertamente ai ribellati Pisani somministrarono.
    Quindi avvenne che, dopo avere i Fiorentini riconquistato Pisa (anno 1509) essi cominciarono a trattare ostilmente Lucca; la quale avrebbe fortemente rischiato di perdere la sua indipendenza senza l’appoggio dell’imperatore Massimiliano I, che inviò costà una mano di soldati veterani, cui aveva aperto una bella strada lo sborso di 9000 fiorini d’oro, che fruttarono un ampio diploma in favore della lucchese libertà. Il qual privilegio fu rinnovato nel 1522 da Carlo V, confermando non solamente quanto era stato ai Lucchesi dai Cesari antecessori accordato, ma di più dichiarò nulla la cessione di alcune terre obbligatamente fatta al Comune di Firenze. L’assedio peraltro e la caduta di quest’ultima città con la perdita della sua libertà svegliò l’allarme nel popolo lucchese per timore di un’ugual sorte. E tanto più ne temeva in quanto che la somma del potere e gl’impieghi più lucrosi, stando fra le mani dei nobili, perpetuavansi fra loro in ogni rinnovazione di governo. Al che si aggiungevano i soprusi per conto di altre misure economiche, tendenti ad inceppare, anzi che incoraggire l’industria principale del paese, quale si era quella dell’arte della seta; sconcerti tutti che contribuirono a inasprire la plebe contro i grandi; il popolo minuto contro il popolo grasso.
    Con questa concitazione d’animi accadde che, nell’aprile del 1531, i tessitori da leggi oppressive indispettiti, e da governanti orgogliosi vilipesi, si adunarono, si armarono e gridarono morte al governo aristocratico. – Fu allora che Lucca vide i suoi Ciompi , cui fu dato il nome di Straccioni , perché sotto le insegne di un vessillo nero stracciato, formati in compagnie e aventi alla testa un tessitore dei più loquaci, assediarono il palazzo degli anziani, facendosi quasi padroni della città. Mancavagli però un Michele di Lando, a voler che i Straccioni di Lucca potessero
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    riuscire nel progetto di ristabilire nella loro patria il governo popolare. – L’irresolutezza dei sediziosi calmò a poco a poco il timore dei senatori, che erano tutti dal partito dei magnati; e tanto in lungo andò il gioco, che di notte tempo, d’intelligenza degli anziani, s’introdussero in città da mille uomini armati del contado di Cemajore, i quali sorpresero, vinsero e dissiparono gli ammutinati. Allora il senato lucchese in benemerenza del servigio dai Camajoresi prestato, decretarono che si esigesse a memoria di ciò dentro Camajore una specie di arco trionfale. – Vedere CAMAJORE.
    Altre penose cure il governo di Lucca ebbe a sopportare, allorché la quiete interna della città fu nuovamente nel 1542 in procinto di perdersi, se non andava fallita altra congiura di un nobile lucchese. Pietro Fatinelli andò meditando di farsi arbitro della patria, credendo gli potesse spianare la via il favore che egli godeva alla corte di Carlo V, presso cui dagli anziani di Lucca era stato più di una volta inviato; ma appena scoperta la macchinazione, fu incarcerato l’autore, e dopo aver confessato fra i tormenti il delitto, dové lasciare sul patibolo il capo.
    In questo mezzo tempo andava serpeggiando per Lucca un altro più serio male. L’eresia di Lutero vi era stata introdotta per opera specialmente di varii ecclesiastici regolari; per cui si agì contro i settarii con tale rigore, che quelli i quali eransi da Lucca preventivamente allontanati, vennero dichiarati ribelli, ed i beni loro confiscati e pubblicati.
    A siffatte convulsioni civili e religiose ne succedé ben presto una politica di grandissimo impegno, che mise il governo della repubblica in un doppio imbarazzo per la sicurezza propria e dei potentati d’Italia. – Comparve nel 1546 un altro Cola di Renzo in Francesco Burlamacchi, nato di cospicua famiglia lucchese, il quale, infatuato delle eroiche gesta dei capitani della Grecia, che con i piccoli mezzi avevano operato cose grandi, nientemeno agognò che rivendicare a libertà i popoli italiani.
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    /> Sentiva egli con pena la servitù di Firenze, lo strazio di Siena, l’abiezione di Pisa; compiangeva Perugia percossa, Bologna in catene; in una parola imaginava che dovesse tornare libera Italia tutta, non che la Toscana. Ma non erano più i tempi delle repubbliche del Peloponneso, i popoli dell’Italia o per vizio degli uomini più non si reggevano a comune, o già andavano assuefacendosi ai sistemi dell’aristocrazia e dell’assolutismo. Per conseguenza l’idea del Burlamacchi poté paragonarsi al sogno di un febbricitante che vaneggia negli accessi della sua malattia. – Un falso amico del Cola lucchese rivelò al duca di Firenze l’ardito progetto del Burlamacchi, quasi nel tempo medesimo che un cittadino senese, stato messo a parte del segreto, lo palesava agli anziani del governo di Lucca.
    Ciò bastò, perché il Burlamacchi fosse preso, sostenuto in palazzo, ed in presenza di un commissario dell’Imperatore, sulla tortura processato: fino a che, vinto egli dal dolore, confessare dové il chimerico disegno da esso immaginato. Allora per ordine di Carlo V il reo di stato fu condotto a Milano, e costà con altre persone implicate in simile pensamento, venne in pubblico giustiziato.
     Dopo di tutto ciò si aggiunse la caduta della repubblica di Siena, colpo fatale per quei popoli che contavano di mantenersi liberi, e molto più per i vinti che speravano di risorgere a regime repubblicano.
    La fallita rivoluzione degli Straccioni nocque in vece di giovare al subbietto cui era stata promossa; il disegno del Burlamacchi, e la caduta di due repubbliche vicine, avvertivano i signori di Lucca dei pericoli che da ogni parte li minacciavano. – Nel 1556 il gonfaloniere martino Bernardini fu per i nobili lucchesi quale era stato nel 1297 il doge Pietro Gradenigo per i veneziani. Egli propose al senato di convertire in legge la seguente riforma statutaria: “ Ammettere alle cariche del governo solamente quelle famiglie che allora godevano di tali onori, col diritto di trasferirli alla loro discendenza; escluso però
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    da questo diritto chiunque fosse nato in Lucca da padre forestiero, e tutti i figli di persone del contado, salvi quelli tra loro, i quali all’epoca della proposta riforma partecipavano agl’impieghi governativi
    .” Il progetto piacque agli anziani talmente, che lo convertirono in quella legge organica della repubblica, la quale, ad esempio del senato di Roma, chiamossi col nome dell’autore, Legge Martiniana . Cotesta legge, pubblicata nel dicembre del 1556, fece schiamazzo tra il popolo, ma furono voci senza effetto. La memoria fresca dei mali sofferti per la ribellione degli Steaccioni , i pericoli cui erano scampati per le posteriori congiure, la caduta non antica della repubblica di Firenze, e quella recentissima di Siena, servirono di esempio al popolo lucchese per adattarsi alle circostanze. – In conseguenza di ciò gli statuti de Regimine , l’ultimo dei quali era stato compilato nel 1539, riceverono da questa legge un’alterazione di gravissima importanza sul conto delle disposizioni relative al diritto di eligibilità dei pubblici funzionarii. In una parola la repubblica di Lucca d’allora in poi divenne di diritto quello che già da molto tempo indietro lo era di fatto, cioè, aristocratica.

    LUCCA NELL’ULTIMO PERIODO DELLA SUA ANTICA REPUBBLICA SINO AL 1799

    Se la legge Martiniana, suggerita senza dubbio dall’orgoglio, riescisse in effetto utile piuttosto che dannosa, o viceversa, non seppe deciderlo un erudito autore moderno; il quale con disinvoltura ed imparzialità, scrivendo della sua patria, su tal proposito diceva: “che forse la quiete ne guadagnò, concentrandosi a poco a poco il potere in chi era interessato più che altri alla pubblica felicità. E ciò sarebbe molto, e pareggerebbe almeno il danno che ne venne a riguardo di tanti, che amorosi della liberà non avrebbero mancato di portarsi qua con le loro fortune dai proprii paesi ridotti in servitù, quando fossero stati a suo tempo ricevuti come veri cittadini i loro figli”. – (MAZZAROSA, Storia di Lucca Lib. VII).
    A
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    rendere più stabile il regime dell’ordine interno coadiuvò una prudente condotta esterna, massime verso l’intraprendente Cosimo duca di Firenze. La cui potenza fu accresciuta in quei giorni con l’acquisto di Siena e del suo vasto territorio, cedutogli da Filippo II re di Spagna. – Il trattato di pace nel 1559, firmato tra la Spagna e la Francia, concorse vieppiù ad assicurare l’aristocrazia lucchese, tostoché in detta pace fu compresa anche Lucca come paese libero e neutrale.
    Cosicché il governo, tranquillo al di fuori e in casa, poté occuparsi de’lavori di pubblica utilità, sia coll’arginare il Serchio di contro alla città, sia col risvegliare maggior operosità nella costruzione delle attuali sue mura, sia col far scavare un fosso navigabile per mettere in comunicazione Lucca coll’Ozzeri, e di là continuando il cammino a levante entrare nel lago di Sesto, donde poi per l’emissario della Seressa sboccare nell’Arno, navigando verso Firenze o a Pisa.
    Tante spese però avendo depauperato il pubblico erario, impossibilitarono il governo di soddisfare per intiero alle inchieste dell’Imperatore Massimiliano II, che nel 1565 aveva domandato alla repubblica scudi 70,000, a titolo di sussidio per la guerra contro il Turco; per modo che soli 15,000 scudi gli furono dati.
    Per turbare quest’ultima cominciarono nel 1607 a risuscitare antichi dissapori tra i reggitori della repubblica e il duca di Modena, uno per conservare o accrescere, gli altri per far valere dei diritti disusati sopra una porzione di Garfagnana da lungo tempo perduta. Si praticarono fra le due parti parziali ostilità, o piuttosto ladronerie, le quali, brevemente sospese da corta pace, si convertirono poscia in una manifesta guerra, sino a che per ordine dell’Imperatore i Lucchesi e i Modenesi dovettero sospendere la guerra e quindi starsene alla sentenza che dalla corte cesarea di Milano sarebbesi pronunziata. – Vedere GARFAGNANA.
    Posate le armi, il governo di Lucca si occupò a ristringere la borsa degli eligibili alle pubbliche cariche: e bene vi riescirono
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    gli anziani che sedevano signori nel primo semestre del 1628, quando essi nel 21 gennajo, fecero approvare dal consiglio la provvisione seguente: “che il diritto di governare, salva una grazia del potere supremo, dovesse d’allora in poi risiedere nelle sole famiglie che ne erano al possesso dall’epoca della legge Martiniana.
    Quindi è che in ordine alla stessa provvisione in un libro, chiamato libro d’oro , furono registrati i nomi e le armi di tutti coloro, cui fini a quel suddetto giorno un tale diritto si apparteneva.
    Si volle dare una qualche apparenza di ragione a siffatta restrizione, dimostrando tutto ciò essere diretto al fine d’impedire, che qualcuno s’introducesse nelle famiglie senatorie con nomi falsi e persone supposte. Ma piuttosto che ragione, dice il prelodato storico lucchese, era questo un pretesto, atteso che molti altri più facili espedienti avrebbero potuto, se mai, levar via questo male decantato, in vista delle città non grande, e del proporzionato ristretto numero degli eligibili. La vera ragione stava nel volere quelle famiglie, che allora moderavano lo stato, perpetuare fra loro il comando a somiglianza di ciò che operato si era nelle due repubbliche di Venezia e di Genova. – Dal libro d’oro, che tuttora conservasi nell’archivio di stato, apparisce, che 224 erano a detta epoca le casate con armi e blasoni diversi fra loro, tra le quali 212 famiglie di cognome differenziato.
    Nuovi dispiaceri poco dopo si aggiunsero ad amareggiare i Lucchesi, la prepotenza di un loro concittadino vescovo cardinale, Marc’Antonio Franciotti; il quale, non volendo uniformarsi alla legge comune del paese, ricusò costantemente di far punire un suo familiare, perché con danno del terzo aveva abusato del privilegio di portare armi da fuoco. – L’altra più generale e più funesta sciagura fu la morìa che in Lucca e nel suo contado ripetutamente per la peste del 1631, e maggiormente del 1648, infierì. I governanti per quanto era in suo potere provvedevano ai bisogni con aprire spedali nei
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    subborghi, procurare medici, medicine, vettovaglie e sussidii di ogni materia, mossi quei senatori da sentimento di pietà paterna, e forse anche dalla politica di gratificarsi la moltitudine per accostumarla vie meglio all’obbedienza di una classe distinta e perciò invidiata.
    Quello però che stava più a cuore ai padri coscritti lucchesi era di allontanare chicchessia, a furia di punizioni severe, e non di rado ingiuste, dall’idea di machinare contro il nuovo regime. La storia ha tramandato ai posteri la tirannica maniera, con la quale un Agostino Mansi, un del Poggio, un Vincenzo Altogradi, personaggi tutti distinti e nobilissimi, furono per lievi cause politiche, quello mandato per dieci anni alla galera, e questi per un pensiero libero manifestato, condannati a lasciar la testa sul patibolo.
    Del resto non furonvi dappoi turbamenti politici di grande importanza, o di qualche grave conseguenza; sicché il governo, dalla metà del secolo XVII sino al 1700, visse quieto. – Lievi cagioni d’inconsiderata violenza e di parziali ingiurie recarono ai senatori di Lucca, nel 1700, un qualche imbarazzo per parte di Cosimo III granduca di Toscana, poi sedici anni dopo per conto del duca di Massa Carrara.
    Ma le corti mediatrici fecero posare loro il corruccio con rimettere in calma i popoli insieme coi governi allarmati.
    Diede pur motivo di qualche amarezza fra il senato lucchese e la corte di Roma l’inchiesta stata dal primo avanzata per avere il diritto di presentare al papa una terna di tre soggetti idonei ad ogni vacanza della sede vescovile di Lucca; inchiesta che finalmente nel 1754 dal Pontefice Benedetto XIV fu secondata. – Mosse maggiore rumore per conto del clero lucchese una legge dalla ragione politica e civile sulle Mani morte consigliata, la quale fu discussa, e finalmente li 7 settembre del 1764 decretata, per modo che niuno potesse per l’avvenire alle corporazioni morali donare o testare un valsente superiore alla ventesima parte del suo patrimonio, né mai una somma maggiore di scudi
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    200. La qual legge si credé comandata dal vedere la classe degli ecclesiastici a sovrabbondanza provvista di beni; i quali si calcolò che superassero il valore di nove milioni di scudi, goduti da circa 1500 individui dei due sessi; lo che veniva a equiparare circa la metà del patrimonio de’privati di tutto lo stato, il quale fu calcolato essere di venti milioni di scudi, in una popolazione di circa 140,000 abitanti. – Vedere DIOCESI di LUCCA.
    Il tempo aveva fatto scorgere un vizio grande nel sistema aristocratico, vizio che a guisa di tarlo a poco a poco si rodeva nelle famiglie senatorie il midollo della loro repubblica.
    Le casate ascritte al libro d’oro, dal numero di 224, che si riscontrarono nel 1628, a sole 88 erano ridotte nel 1787. Al fine di riparare cotesta progressiva diminuzione si erano introdotte negli anni 1726 e 1750, delle vistose alterazioni nella costituzione della repubblica lucchese. Ma il cambiamento più valutabile fu quello del 1768, quando, per la mancanza di un conveniente numero di nobili, si tolse via l’avvicendamento stabilito dalla legge che aveva diviso il senato in due congregazioni, dalle quali, un anno per cadauna, costumavasi di scegliere i senatori attivi, per non perpetuare il comando in una sola classe o sezione. Fu allora che si ebbe più forte ragione di temere, che il governo, ristretto in mano di pochi, potesse convertirsi in una pretta oligarchia.
    Finalmente, nell’anno 1787, continuando le famiglie nobili a venir meno, e mancati essendo in 19 anni undici ceppi, si decretò, che non meno di novanta dovessero essere gli stipiti di famiglie nobili originarie, e dieci quelle delle famiglie dal senato ascritte alla nobiltà, con facoltà di crearne di queste ultime a proporzione che si fossero estinte le prime.
    Quanto alla politica esterna, la condotta dei regitori di Lucca fu quella di umili feudatarii; cioè, costantemente ligii al supremo dominatore dell’Italia. Quindi è che ad ogni avvenimento al
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    trono di un Augusto, si cercava con dimostrazione solenne rispettosissima di guadagnare la benevolenza di Cesare, ed anche ne domandavano umilmente l’accomandigia, col supplicarlo di confermare quei privilegii, che dopo Carlo IV, per una successione progressiva di 15 diplomi, da Massimiliano I fino all’assunzione al trono cesareo di Francesco II (anno 1792) i signori della repubblica di Lucca, come vicarii dell’impero costantemente qualificarono.
    D’allora in poi la pace esterna, lo stato politico ed anche la calma interna dei governi di Europa, non che dell’aristocrazia lucchese, cominciarono a scombujarsi. Finalmente, sulla fine del secolo XVIII, le vittorie riportate dai Francesi in Italia cambiarono affatto le sorti della penisola; sicché i padri coscritti di Lucca inutilmente con l’ambascerie e con l’oro travagliavansi di guadagnare la protezione del direttorio di Francia, di acquistare la benevolenza del loro generalissimo in Italia, di blandire le fervidissime neonate repubbliche Cispadana e Transpadana. Lusinghe vane, danari e parole gettate; perciocché l’occupazione di Lucca, per parte dei Francesi da lungo tempo meditata, ebbe finalmente il suo effetto nei primi giorni del 1799, quando vi entrò con una parte della sua divisione il general Serrurier; quello medesimo che aveva di corto dato prove di arti inique sull’infelice Venezia. Spietate requisizioni di vettovaglie, di pecunia e di vestiario accompagnate da minacce terribili, spaventavano ogni giorno, sgomentavano, avvilivano i Lucchesi d’ogni ceto. Pure abiezioni siffatte, si gravose imposizioni, cotanti spogli violenti, sopportavansi da quei senatori nella difficile speranza di poter continuare a dirigere il timone della repubblica. Che però, pensando essi al modo di riescirvi, nel 15 gennajo del 1799, deliberarono di far ritorno all’antica costituzione democratica, coll’annullare la legge Martiniana del 1556, e le riforme posteriori. Si fece anche di più. Dalla classe privilegiata dei nobili furono eletti dodici personaggi coll’incarico di modificare, adattando alle circostanze le antiche costituzioni; e questi, nel dì 28 dello stesso gennajo, decretarono, che per le future elezioni verrebbero esclusi dai comizi coloro destinati a costituire il nuovo regime della rigenerazione lucchese.
    Ciononostante i voti
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    e la scelta degli elettori cadde sopra soggetti non preoccupati da spirito di novità, sopra persone specchiate e meritevoli della fiducia comune. I patriotti se ne lagnarono, scongiurando il general francese di provvedere alla causa loro, che era pur quella della Francia; ed egli vi provvide alla maniera orientale. Furono invitati a palazzo per la mattina del 4 febbrajo 1799, a un ora medesima, e in due sale separate, tanto quelli da lui segretamente destinati a prendere le redini del nuovo governo, come anco i senatori ed il gonfaloniere della vecchia repubblica. All’ora determinata Serrurier accompagnato dal suo seguito recossi ai due corpi da lui congregati per dichiarare a nome del generale in capo dell’esercito d’Italia, al vecchio senato, che d’allora in poi restava abolita fra i Lucchesi la nobiltà e ogni sorta di casta privilegiata, e dirgli nel tempo stesso, che egli aveva scelto da ogni classe di cittadini quelli destinati a governare in un modo provvisorio la repubblica di Lucca, e di avere in quella scelta cercato uomini virtuosi che fossero per appagare il voto di tutti i buoni.
    Di là recandosi nella sala, dove eransi raccolti i nuovi da esso eletti, disse: che per ordine del potere esecutivo di Francia, il generale in capo aveva partecipato al Serrurier, come il direttorio francese per secondare i voti degli abitanti per una costituzione intieramente democratica, vuole che io (Serrurier) la componga di quei soli, i quali, per l’attaccamento loro alle massime repubblicane, per la vastità dei loro lumi, e per la saviezza dello spirito loro, compariranno i più adatti a mantenere la libertà senza reazione e la quiete senza terrore. Quindi soggiunse: Io vi consegno la carta del sistema d’organizzazione provvisoria, cui invito voi tutti di conformarvi .
    Così finì dopo 243 anni il governo aristocratico di Lucca, non per fiacchezza di vetustà, ma per quella forza irresistibile calata dalle alpi a rovesciare da capo a fondo non meno
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    che i regni e le duchee, le vecchie repubbliche.
    La costituzione data ai Lucchesi dal Serrurier fu la stessa di quella della repubblica Ligure. La parte organica riducevasi a un potere legislativo diviso in due consigli, quello dei giuniori di 48, l’altro di seniori di 24 membri, oltre un potere esecutivo quinquevirale, che si nominò direttorio, assistito da cinque ministri di stato. – Non tacque dei nuovi reggitori il sentimento del ben pubblico, e varie buone leggi sino dai primi mesi furono proposte, discusse ed emanate; ma non si moveva passo nell’ordine governativo senza l’approvazione del general comandante e del direttorio francese. Erano i rappresentanti della repubblica di Lucca tanti automi, che venivano copertamente o visibilmente maneggiati dalla maestria dei rigeneratori. Avvegnaché nulla si accordava ai consigli e alle loro deliberazioni, ogni cosa doveva farsi a voglia dei Francesi, i quali tenevano governo e cittadini ubbidienti e pieghevoli ad ogni loro discreta o indiscreta voglia. La libertà civile al pari della politica non si conosceva che per ironia, o per sfregio del suo nome; oppressi i nobili, perseguitati gli ecclesiastici, smunti di numero i facoltosi e i mercanti, vessati i cittadini da esigentissima soldatesca di guarnigione, tali furono i frutti primaticci e più manifesti della rigenerazione lucchese. Quindi non è da meravigliare, se i Francesi erano costà assai malvisti ed odiati dall’universale.
    Trovandosi in tal guisa mal disposti gli animi degli abitanti di Lucca, e più ancora delle genti di contado, queste s’incalorirono viemaggiormente, e si ammutinarono all’annunzio del primo successo ottenuto in Lombardia dall’esercito alleato: e più ancora dopo la notizia avuta delle tre giornate della Trebbia (17, 18, 19 giugno del 1799) contro Macdonald battagliate.
    Appena avuto sentore dell’arrivo degli Austriaci in Toscana, fu vano esigere dal popolo ubbidienza al governo e tranquillità. Le falangi tedesche, nel luglio del 1799, furono accolte in Lucca con entusiasmo. Se non che la prima misura dei nuovi arrivati fu quella di
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    dover consegnare tutte le armi da fuoco dell’arsenale e i bellissimi grossi cannoni di bronzo, che in numero di 120 guarnivano gli undici bastioni sulle mura della città.
    Presto i tripudii si convertirono in lagnanze, e quindi in angustie, per le forti esigenze che si richiedevano dalle truppe arrivate. Al che si aggiunse un abisso di mali maggiori, quando si vollero annullare tutte le leggi del cacciato governo democratico, poscia istituire un tribunale criminale statario sommarissimo, con l’incarico di scrutinare degli individui le passate azioni politiche e perfino i pensieri.
    Ma già le sorti di Lucca e dell’intiera Italia stavano un’altra volta per pendere a favore dei Francesi, mercé il genio di Bonaparte. Il quale, dopo avere diviato spento il direttorio, comparve quel fulmine con un rinnovato ardentissimo esercito sui gioghi dell’Alpi e di là calando in Italia, nelle pianure di Alessandria riacquistò a Marengo in un giorno, (14 giugno 1800) quando i generali suoi predecessori avevano perduto in un anno.

    LUCCA NEI PRIMI SETTE LUSTRI
    DEL SECOLO DECIMONONO

    Sarebbe nojoso il ridire le tante mutazioni di reggimento, e le varie imperiose contribuzioni che a cortissimi periodi sorsero e gravitarono sopra il popolo lucchese. – Launey generale di Francia, che, nel 7 luglio del 1800, annunzia l’imminente arrivo della sua brigata in Lucca; Massena maresciallo, il quale comanda da Genova gli si sborsi un milione di franchi, la metà tempo 24 ore, dieci giorni per l’altra metà, ordinando di sequestrare le pubbliche casse e di arrestare i rappresanti del governo che reclamavano contro tanta iniquità. Si costringevano i nobili a tornare a Lucca, e si confiscavano i beni di coloro che a un tal comando non ubbidivano. Tutto ciò si operava alla vigilia in cui altre forze riunite dal generale tedesco Sommariva erano per ritornare costà. Infatti ai 13 di settembre dello stesso anno, appena arrivata in Lucca un’altra sorta di padroni, fu istituito un governo di nobili.
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    – Non avevano però gli Austriaci ancora compito il mese, che dovettero di qua ripartirsene (9 ottobre) per dar luogo ai Francesi tornati in maggior numero sotto un altro general di brigata, ma con le stesse molestissime intenzioni di spolpare perfino al midollo i bersagliati popoli italiani.
    Durissimi e rovinosi erano tutti i modi che essi adoprarono, onde lucrare danaro dai Lucchesi ridotti alla miseria.
    In mezzo a queste angustie, la pace conclusa a Luneville (19 febbrajo 1801), e l’altra tra la Francia e Napoli, segnata in Firenze il 28 marzo dello stesso anno, facevano sperare a questo popolo un vicino sollievo. Se non che gli restava tuttavia un gran crepacuore nell’animo per l’incertezza della sua sorte. – Piacque per allora a Napoleone di ridonare a Lucca una tal quale esistenza politica mediante un reggimento repubblicano, di cui ordinò l’organizzazione al Saliceti con l’istruzione, che si badasse, nella scelta dei governanti, al maggior censo, e per il resto si desse la preferenza ai letterati, ai negozianti e agli artisti più famigerati.
    La preparata costituzione, pubblicata nel 31 dicembre successivo, in generale fu ben accolta, perché basata sui principii di una repubblica democratica temperata, e perché nella scelta dei soggetti designati a governarla eranvene parecchi rispettabili per dottrina, per probità e per amor di patria.
    Entrò il potere esecutivo in attività il primo giorno dell’anno 1802. – Il governo cominciò le sue operazioni con un pieno perdono e un’assoluta dimenticanza su qualsivoglia delitto politico; al che conseguitarono utilissime cose. Fra le altre merita di essere registrata dalla storia la legge per la formazione del catasto, basata su principii d’imparzialità, di ponderata e retta giustizia rispetto a una generale proporzionata repartizione della tassa fondiaria.
    Infatti la quiete interna andava a ristabilirsi, in guisa che le antipatie politiche, se non affatto svanite, erano assai scemate, e la benevolenza del primo console della repubblica francese da parole lusinghiere e affettuose veniva pubblicamente dimostrata al governo lucchese, sicchè questo incoraggito occupavasi
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    con saviezza e con lode degli affari, e specialmente di quello sulla riforma delle leggi civili e criminali.
    Gl’interessi pertanto di questa piccola repubblica procedevano, non solo con regolarità, ma con profitto della generalità: cosicchè ogni cittadino non fanatico prevedeva un felice avvenire nell’accordo comune e nel buon effetto di provvide istituzioni decretate. – Ma com’era piaciuto al sommo imperante di rispettare fino allora i sacri diritti dei Lucchesi, venuto il maggio del 1805, epoca dell’incoronazione dell’imperatore de’Francesi in re d’Italia, mentre Genova con le solite apparenze spontanee costringevasi a chiedere a Napoleone la sua aggregazione alla Francia, nel tempo medesimo il ministro Talleyrand per insinuazione dell’oracolo, cui allora porgeva incenso, dovè far sentire al ministro Girolamo Lucchesini questa imperatoria sentenza: e voi altri a Lucca non farete nulla?
    Favvi tosto chi spiegò il mistero, e che suggerì il modo di coonestare il pretesto, che la costituzione della repubblica lucchese non era più adattata ai tempi, al sistema delle altre nazioni e alle circostanze generali dell’Europa. Bisognava pregare il sommo imperante a dare uno statuto politico speciale per Lucca, e a confidarne il governo a uno dei principi della napoleonica prosapia. A tenore della suggerita inchiesta fu redatta una costituzione semi-liberale, per l’accettazione della quale si apersero i registri in tutte le parrocchie dello stato lucchese, onde ricevere dai votanti nel termine di tre giorni la dichiarazione della propria volontà, previa la condizione, che chi non firmava s’intendesse avere approvato. – Pochi infatti manifestarono la loro adesione, i più si tacquero, e perciò secondo la lettera del decreto governativo tutti approvarono. Ognuno stava in aspettazione del principe che l’imperatore de’Francesi e re d’Italia aveva in mente sua a tale piccola sovranità destinato. Ma presto fu appagata la curiosità, conciossiachè il governo di Lucca, per insinuazione altissima, il 12 giugno manifestò al pubblico, che avrebbe chiesto per capo S. A. S. Felice Baciocchi principe di Piombino, sposo di Elisa sorella di Napoleone. Un’apposita deputazione in
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    Bologna presentò a quest’ultimo il voto della nazione lucchese , e costà sotto la direzione dell’imperiale segreteria di stato fu redatto il nuovo statuto organico di Lucca, nel quale, per salutevole accorgimento dei deputati fu inserito un articolo riguardante l’esenzione dei Lucchesi dalla coscrizione militare francese .
    Di cotal maniera accadde che, chi aveva al popolo di Lucca ridonato la libertà, fece sparire la più vecchia repubblica toscana, per quanto al paese conservasse quella indipendenza che tante volte per brighe domestiche, o per propria debolezza, o per ragioni di stato i Lucchesi stettero in procinto di vedere sparire.
    Aveva perduto bensì la sua politica esistenza il vicino piccolo ducato di Massa e Carrara sino da quando fu incorporato alla repubblica Cisalpina, poi al regno Italico. Da quest’ultimo esso fu staccato, con decreto napoleonico de’30 marzo 1806, dichiarandolo feudo imperiale, ma per l’amministrazione governativa fu riunito con la Garfagnana (eccetto Barga) al principato di Lucca. Dopo il quale accrescimento si ordinò ai principi di Lucca, non solamente di porre in vigore in tutto il loro dominio il codice di Napoleone, lo che poteva dirsi un altro benefizio, ma fu ingiunto l’obbligo di far valere nel loro stato il concordato per gli affari ecclesiastici fatto e sottoscritto fra la corte di Roma e il regno italico; lo che riuscì non poco discaro ai Lucchesi, massimamente ai corpi religiosi dell’uno e dell’altro sesso.
    Non si contavano allora in Lucca meno di 32 conventi, 15 di uomini e 17 di donne: e ad eccezione di sette, spettanti a mendicanti, gli altri tutti possedevano più o meno vasti patrimonii. Aggiungansi i beni di varj capitoli, seminarii, cappellanie, confraternite e benefizii semplici; i quali tutti vennero colpiti da una sola sentenza pronunziata da più alto scanno che non era quello dei principi di Lucca. La quale sentenza comandava la soppressione dei luoghi pii, e la indemanazione delle loro sostanze mobili e immobili. In grazia di ciò il dominio
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    di Lucca accumulò un patrimonio sopra venti milioni di franchi.
    Vero è che questa risorsa vastissima pose in grado il governo di fare in gran parte uso benefico ed utile dei beni indemaniati senza per questo aggravare di troppo i sudditi di contribuzioni e di tasse.
    L’uso principale e utilissimo ch’Elisa fece del demanio lucchese fu quello di dotare spedali, ajutare i poveri, mantenere gl’invalidi e somministrare i mezzi opportuni affine di rendere più utili e incoraggire le arti belle, le scienze e le industrie nazionali. Cosicchè si dotarono le accademie, si accrebbero di cattedre gli studii, si fondarono collegii, istituti e conservatorii per educare la gioventù dei due sessi e di varie classi nelle scienze, nelle lettere e nella morale. Si ridusse un vasto convento per farne un locale migliore per carcerati. Furono rese più praticabili le vecchie, e si aprirono di nuovo per lo stato e in varie direzioni molte e belle strade, nel tempo che altre vie troppo anguste si ampliavano dentro la città, dove furono fatte più spaziose varie piazze con qualche pubblico palazzo. Si arginarono canali e fiumi: ma specialmente si lavorò intorno al Serchio, il cui alveo, trovandosi a livello del piano di Lucca, minacciava ad ogni piena straordinaria di annegare gli abitanti dei subborghi e le loro case.
    Fu istituita una commissione d’incoraggiamento per l’agricoltura e per l’arti con facoltà di comprare macchine e di perfezionare le antiche onde animare il genio naturalmente industrioso dei Lucchesi.
    Con l’idea benefica di provvedere Lucca di acqua potabile, sotto i principi Baciocchi fu dato principio alla fabbrica degli acquedotti, che l’attual governo ducale borbonico con vistoso dispendio e più grandiosamente condusse dentro Lucca dalle falde settentrionali del Monte pisano a utilità e decoro della città.
    Tali furono le somme opere dei principi napoleonici; molte altre ne fecero utili in generale per una pronta e più retta amministrazione della giustizia, e dell’entrate municipali, per la libertà commerciale, ec.
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    ec. Tutte queste cose faceva Felice Baciocchi di nome, Elisa Bonaparte di fatto e di suo arbitrio, sebbene esse avessero l’apparenza di essere state deliberate, come la costituzione prescriveva, previo il consiglio e approvazione del senato lucchese; il qual corpo stette interi anni senza essere tampoco congregato.
    Dopo trentaquattro mesi di stabile dimora nel principato, in virtù di un decreto di Napoleone, del 3 marzo 1809, Elisa recossi a Firenze col titolo di granduchessa governatrice della Toscana. Imperciocchè il regno di Etruria, cominciato il 12 agosto 1801, essendo finito col 10 dicembre del 1807, fu per volere dell’onnipotente imperatore, levata di là Maria Luisa, regina reggente quel regno pel tenero figlio Infante don Carlo Lodovico di Borbone, e tosto la Toscana dichiarata provincia del grande impero.
    Quantunque però i principi Baciocchi, dall’aprile del 1809 in poi, risiedessero in Firenze, Elisa non rinunziò totalmente al suo prediletto soggiorno di Lucca, dove gli pareva di essere in mezzo alla sua famiglia. E veramente ella ambiva, e si stimava di aver rigenerato cotesto paese, giacchè le scienze, le arti, il gentil costume, la eleganza del vestire, un migliore vivere e molte altre cose anche più importanti, tutte si attribuivano al grande impulso da essa dato, non che alla docile indole del popolo lucchese ed ella corrispondenza trovata nei zelanti suoi ministri che vi coadiuvarono.
    Ma i tempi fatali per dare il crollo al grande edifizio napoleonico si accostavano. Dopo la terribile campagna di Mosca, il mondo parve destarsi per avventarsi contro colui che lo voleva tutto per sé. Mentre pericolava in Lombardia la sorte del regno italico, si affacciarono davanti alla spiaggia di Viareggio (9 dicembre del 1813) navi inglesi per eseguirvi lo sbarco di una fazione di armati; i quali in numero di un migliajo marciarono prestamente verso Lucca con la bandiera spiegata, che indicar voleva ai balordi: Indipendenza d’Italia .
    Ma la popolazione già ammaestrata da simile esca, non curando le parole, fu indifferente
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    e muta all’apparire dei sedicenti liberatori. Perciò nulla ottenendo di quanto speravano, e invece rischiando fortemente di perdere se stessi piuttosto che acquistare gli altri, il giorno dopo, per la via donde quelli erano a Lucca venuti se ne ritornarono per mettersi in mare.
    Non corsero però molte settimane che il re Giovacchino, alleato di corto con l’Imperatore d’Austria, inviava una divisione dell’esercito napoletano in Toscana per cacciarne Elisa sua cognata, la quale principessa dovè abbandonare anche la sua Lucca innanzi che si affacciasse il giorno 14 marzo del 1814, avendo affidato la cura del paese al consiglio di stato.
    Entrarono in questa città i Napoletani nel giorno stesso 14 marzo; ma ben presto vennero a rimpiazzarli (5 maggio 1814) gli Austriaci, che tennero Lucca da padroni, finchè Maria Luisa di Borbone, già regina di Etruria, non dichiarò di accettare per se e per l’Infante don Carlo Lodovico suo figlio Lucca con l’antico suo territorio sotto il titolo di Ducato ; e in conformità degli articoli segreti deliberati col trattato di Vienna del 9 giugno, anno 1815; di tener fermo il diritto di subentrare nell’avito ducato di Parma quando fosse vacato per morte o per altra destinazione dell’ex-imperatrice di Francia, Maria Luisa di Austria. – Verificato che sarà un tal caso, il ducato di Lucca, salvo alcuni distretti distaccati, a tenore dello stesso trattato dev’essere incorporato al granducato della Toscana.
    Maria Luisa di Borbone con l’Infante suo figlio ed erede entrò in Lucca il giorno 7 dicembre del 1817. Le prime cure di quella sovrana furono dirette alla ripristinazione dei conventi, monasteri e compagnie soppresse. Fu pagato ai corpi morali l’usufrutto dei beni ecclesiastici invenduti, il cui capitale ascendeva al valore di circa undici milioni di lire lucchesi; al che poco dopo si aggiunse l’abolizione della legge sulle mani-morte fatta dalla repubblica lucchese, per modo che i corpi morali di cotesto ducato sono nuovamente in grado di ritornare i
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    possidenti più ricchi del ducato.
    Fu istituita più tardi (anno 1819) la confraternita detta della Carità , sul modello di quella esemplarissima e antichissima della Misericordia di Firenze, della quale volle il Reale Infante farsene capo e protettore; e ciò nel tempo medesimo, in cui lo stesso principe dava il suo nome al collegio già chiamato Felice, e Maria Luisa all’Istituto fondato da Elisa, mentre la figlia Luisa Carlotta dichiaravasi protettrice del conservatorio delle fanciulle in S. Nicolao.– Si ripristinò all’antico uso nel palazzo de’Borghi, ossia nella Quarquonia, il deposito di mendicità; finalmente furono riattivate le cessate sovvenzioni alle famiglie civili cadute in bassa fortuna, che anticamente pagava ad esse loro la repubblica lucchese.
    Sotto il governo di Maria Luisa, in quanto alle opere di pubblica utilità, fu sopra ogni altra presa di mira quella dispendiosissima degli acquedotti, stata interrotta dopo la partenza dei principi Baciocchi, opera che prosperò e che va compiendosi sopra un piano più grandioso del R. architetto Nottolini; in grazia del quale vennero allacciate maggiori vene nel Monte pisano, e portate per acquedotto a un livello tale che le acque potessero innalzarsi sino ai primi piani delle case. Nella quale impresa il governo ha consumato finora la vistosa somma di circa 1,400,000 lire lucchesi. – Vedere ACQUEDOTTI LUCCHESI.
    Anche l’orto botanico ebbe incominciamento nell’anno 1820, e progredisce sotto gli auspicii del duca felicemente regnante.
    Inoltre fu terminato il Regio teatro che porta il nome del Giglio, fondato sulle vestigia di quello nazionale davanti a una moderna piazza, col disegno dell’architetto Giovanni Lazzarini.
    Fu rimodernata, nobilitata, ingrandita e resa in ogni parte più bella e più ornata la reggia di Lucca; fu comprato un palazzo appositamente per il Liceo, dalla stessa sovrana dotato e corredato di macchine; e finalmente ad impulso del celebre baron di Zach, fu eretto un osservatorio astronomico a Marlia sopra un tempietto dedicato alla musa Urania.
    Il duca ed Infante Carlo Lodovico di
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    Borbone, succeduto nel 1824 nel trono di Lucca, ha procurato quieto vivere al paese, e migliorato d’ogni maniera il materiale della città.
    Uno dei provvedimenti diretti a quest’ultimo scopo fu il motuproprio del 19 aprile 1828, col quale venne ordinato, che tutti gli edifizii pubblici e privati della città di Lucca dentro l’anno 1830 fossero intonacati e datogli di tinta o di bianco, e che quest’ultima operazione a ogni decennio si rinnovasse; che fossero fatti i canali ai tetti fino in terra, fognate le strade, ed altre eccellenti disposizioni circa al murare all’esterno. Inoltre fu creata un’apposita commissione, nominata degli Edili , affinchè vigilasse sulle fabbriche pubbliche e private; allo zelo della quale devesi il vantaggio di aver restituito a molti vetusti edifizii sacri la loro antica fisionomia, sia col fare togliere l’intonaco sovrapposto alle interne pareti di marmo, sia coll’aver ordinato che si sgombrasse da orride botteghe, e da meschine casupole l’arena dell’antico anfiteatro per ridonargli la pristina sua forma, e per convertire quell’area in una commoda piazza.

    DUCATO, ossia STATO DI LUCCA

    Non parlo per ora delle vicende accadute al territorio di Lucca dopo i tempi romani; solamente mi limito qui a contemplare il dominio lucchese nello stato attuale. – Sotto tal rapporto si deve distinguere il Ducato di Lucca in due parti: una unita, e l’altra disunita, perché dalla prima affatto isolata. Sono in tutte undici comunità suddivise in 251 sezioni, ossiano parrocchie. Fra i capoluoghi delle 11 comunità si contano due città, Lucca e Viareggio: le altre hanno per residenza delle terre, de’castelli, o dei villaggi.
    Nel territorio unito del Ducato lucchese trovasi la sua capitale con nove comunità. Esso è circondato quasi da ogni lato dal Granducato di Toscana, meno che da settentrione e da ponente. – Dalla parte di tramontana ha a confine la Garfagnana granducale ed estense, e dal lato di ponente termina col lido del mare Tosco per il tragitto di
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    dieci miglia.
    In quanto al territorio disunito lucchese, esso è attualmente ridotto a due vicarie e comunità, (Minucciano e Montignoso) situate sopra due fianchi opposti dell’Alpe Apuana. Minucciano è nel lato di settentrione, e Montignoso dalla parte di mezzogiorno; la prima di esse fra la Garfagnana estense e la Lunigiana granducale, la seconda fra il ducato di Massa e il vicariato granducale di Pietrasanta.
    L’Appennino toscano, dal lato di grecale, serve di confine al territorio unito lucchese, mentre a levante viene chiuso dalle diramazioni che dall’Appennino medesimo si avvallano fra le fiumane delle due Pescie sino all’Altopascio. Costà il territorio lucchese attraversa da grecale a libeccio il lago di Bientina o di Sesto; quindi, volgendosi a ostro, serve al Pisano e al Lucchese di confine la cresta dentellata del Monte pisano sino alla ripa del Serchio: alla destra del quale inoltrasi per la palustre pianura di Massaciuccoli e nella direzione da levante a ponente attraversa il lago omonimo per quindi arrivare alla spiaggia del mare. Di costà, andando verso maestro, percorre il littorale fino a Motrone, finchè voltando direzione verso settentrione-grecale fra Pietrasanta e Camajore sale per uno sprone meridionale dell’Alpe Apuana, e varcando il giogo, ritorna nella valle del Serchio lungo il torrente di Torrita Cava .
    Il territorio unito del Ducato di Lucca è posto fra il grado 27° 53’ e 28° 24’ di longitudine e il grado 43° 45’ 4” e il grado 44° 7’ 5” di latitudine. – Gli passa in mezzo il fiume Serchio; la porzione più settentrionale è bagnata dall’ultimo tronco della Lima e da quelli della Petrosciana , e della Torrita Cava tre fiumane, che una a sinistra e l’altre due a destra del Serchio, le quali tutte si versano nel nominato fiume sull’ingresso della Garfagnana.
    La struttura fisica della pianura lucchese va progressivamente rialzandosi sopra un terreno di recente alluvione. – Le colline che fanno
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    spalliera ai monti sono formate delle loro respettive roccie costituenti la superficiale ossatura, le quali a mano a mano dagli agenti meteorici più che dall’arte vengono disfatte e sopra quelle pendici arrestate e convertite in terreno coltivabile.
    Stante la variata situazione ed elevatezza del suolo che cuopre il territorio lucchese, il suo clima al pari de’suoi prodotti mostrasi variatissimo; perocchè dalle osservazioni termometriche e barometriche, fatte nel periodo di 30 anni, apparisce, che la temperatura media di Lucca e dei luoghi più bassi, nella sera e nel mattino segna il grado 14 di Reaumur e il grado 16 nel mezzogiorno; che il massimo caldo fa salire l’istrumento medesimo a gradi 26,60, e che nel massimo freddo discende a gradi 6 sotto il zero. Nei luoghi per altro più elevati dell’Appennino e della Pania lucchese le nevi, se non possono dirvisi perpetue, in alcune situazioni vi stanziano più mesi dell’anno. – L’altezza media del barometro, situato a braccia 60 sopra il livello del mare, fu riscontrata di pollici 28,60,6 e l’altezza massima di 28,90, mentre la minima fu di 26,11,75.

    ALTEZZE ASSOLUTE di vari punti della PIANURA e della CITTA’ di LUCCA al di sopra del livello del Mare Mediterraneo, dedotte trigonometricamente e partecipatemi dal Prof. P. Michele Bertini  nell’anno 1838.

    Altezze dei luoghi della pianura di Lucca

    - nome della località: Cupola degli Acquedotti , alla loro origine;
    situazione rispettiva: alla base settentrionale del Monte S. Giuliano;
    Comunità a cui spetta: Lucca;
    altezza in braccia lucchesi : ( ERRATA: 268,4) 57,0
    - nome della località: Lammari , sommità del campanile;
    situazione rispettiva: pianura orientale di Lucca;
    Comunità a cui spetta: Lucca;
    altezza in braccia lucchesi : 92,2
    - nome della località: Lammari , nel piazzale della chiesa;
    situazione rispettiva: pianura orientale di Lucca;
    Comunità a cui spetta: Lucca;
    altezza in braccia
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    lucchesi
    : 39,6
    - nome della località: Antraccoli , palla del campanile;
    situazione rispettiva: pianura orientale di Lucca;
    Comunità a cui spetta: Lucca;
    altezza in braccia lucchesi : 90,9
    - nome della località: Antraccoli , nel piazzale;
    situazione rispettiva: pianura orientale di Lucca;
    Comunità a cui spetta: Lucca;
    altezza in braccia lucchesi : ( ERRATA : 39,6) 30,6
    - nome della località: La Nave , palla del campanile;
    situazione rispettiva: pianura occidentale di Lucca;
    Comunità a cui spetta: Lucca;
    altezza in braccia lucchesi : 81,2
    - nome della località: Gronda della Dogana di S. Genese di Compito ;
    situazione rispettiva: pianura orientale di Lucca;
    Comunità a cui spetta: Capannori;
    altezza in braccia lucchesi : 39,1
    - nome della località: Guamo , a piè del campanile sulla strada;
    situazione rispettiva: alla base settentrionale del Monte S. Giuliano;
    Comunità a cui spetta: Lucca;
    altezza in braccia lucchesi : 37,8
    - nome della località: Pian della Casa del Lago di Bientina, o di Sesto ;
    situazione rispettiva: Lago di Bientina o di Sesto;
    Comunità a cui spetta: Capannori;
    altezza in braccia lucchesi : 16,1
    - nome della località: Pelo del Lago suddetto ;
    situazione rispettiva: Lago di Bientina o di Sesto;
    Comunità a cui spetta: Capannori;
    altezza in braccia lucchesi : 14,7

    Altezze dei luoghi dentro la città di Lucca

    - nome della località: Piede della Torre dell’Ore;
    altezza in braccia lucchesi : 31,3
    - nome della località: Piazza di S. Pietro Sonaldi;
    altezza in braccia lucchesi : 29,8
    - nome della località: Soglia della Porta di Borgo;
    altezza in braccia lucchesi : 29,6
    - nome della località: Piazza di S. Maria di
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    Cortelandini;
    altezza in braccia lucchesi : 29,0
    - nome della località: Piede del campanile di S. Frediano;
    altezza in braccia lucchesi : 28,3
    - nome della località: Orto di S. Francesco;
    altezza in braccia lucchesi : 28,2
    - nome della località: Piede del campanile della Cattedrale;
    altezza in braccia lucchesi : 27,6
    - nome della località: Piazza di S. Maria Forisportam ;
    altezza in braccia lucchesi : 25,6
    - nome della località: Chiesa suburbana di S. Marco;
    altezza in braccia lucchesi : 32,7

    ALTEZZE ASSOLUTE di varie MONTUOSITA’ del DUCATO di LUCCA al di sopra del livello del Mare Mediterraneo, calcolate e comunicatemi dalla cortesia dell’Astronomo Prof. P. Michele Bestini di Lucca in braccia lucchesi, le quali stanno alle braccia fiorentine come (ERRATA: 10,000 a 10,117 ) 10,000 a 9,883 rispetto alle braccia fiorentine

    - nome del monte: Rondinajo;
    catena alla quale appartiene: Appennino centrale;
    Comunità in cui è situato: Coreglia;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 3323,8
    - nome del monte: Pisanino;
    catena alla quale appartiene: Alpe Apuana;
    Comunità in cui è situato: Minucciano;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 3296,7
    - nome del monte: Tre Potenze, a levante ( ERRATA : delle Fore , il Giovo ) della Foce a Giovo ;
    catena alla quale appartiene: Appennino centrale presso Rondinajo;
    Comunità in cui è situato: Coreglia;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 3275,0
    - nome del monte: Tambura;
    catena alla quale appartiene: Alpe Apuana;
    Comunità in cui è situato: Minucciano;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 3203,1
    - nome del monte: Prato Fiorito;
    catena alla quale appartiene: Sprone del Rondinajo;
    Comunità in cui è situato: Bagni di Lucca;
    altezza assoluta in
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    braccia lucchesi : 2197,7
    - nome del monte: Calabaja;
    catena alla quale appartiene: Alpe Apuana;
    Comunità in cui è situato: Gallicano;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 2099,6
    - nome del monte: Ciglione di Pascoso;
    catena alla quale appartiene: Alpe Apuana;
    Comunità in cui è situato: Camajore;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 2079,6
    - nome del monte: Monte Piano;
    catena alla quale appartiene: Alpe Apuana;
    Comunità in cui è situato: Camajore;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 2066,7
    - nome del monte: Palodina;
    catena alla quale appartiene: Alpe Apuana;
    Comunità in cui è situato: Gallicano;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 1983,0
    - nome del monte: Battifolle;
    catena alla quale appartiene: Sprone dell’Appennino centrale;
    Comunità in cui è situato: Villa e Bagni;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : ( ERRATA : 1875,2) 1876,2
    - nome del monte: Le Pizzorne, alla Pietra Pertusa ;
    catena alla quale appartiene: Sprone dell’Appennino centrale;
    Comunità in cui è situato: Capannori;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 1642,4
    - nome del monte: Torricelle di Pescaglia;
    catena alla quale appartiene: Sprone dell’Alpe Apuana;
    Comunità in cui è situato: Pescaglia, già di Lucca;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 1634,1
    - nome del monte: Bargilio, sommità della torre;
    catena alla quale appartiene: Sprone dell’Alpe Apuana;
    Comunità in cui è situato: Borgo a Mozzano;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 1493,8
    - nome del monte: Croce delle Pizzorne;
    catena alla quale appartiene: Sprone dell’Appennino centrale;
    Comunità in cui è situato: Capannori;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 1373,7
    - nome del monte: Gaglione sui monti di Brancoli;
    catena alla quale appartiene: Sprone dell’Appennino centrale;
    Comunità in cui è situato: Lucca;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 1336,1
    - nome del monte: Gombitelli, sommità del monte;
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    /> catena alla quale appartiene: Sprone dell’Alpe Apuana;
    Comunità in cui è situato: Camajore;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : (ERRATA: 1186,7) 1253,8
    - nome del monte: Brancoli, sommità della torre;
    catena alla quale appartiene: Sprone dell’Appennino centrale;
    Comunità in cui è situato: Lucca;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : (ERRATA: 1253,3) 1186,7
    - nome del monte: Tereglio, sommità del campanile;
    catena alla quale appartiene: Sprone meridionale del Rondinajo;
    Comunità in cui è situato: Coreglia;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 1013,5
    - nome del monte: Penna del Monte Pisano;
    catena alla quale appartiene: Monte Pisano;
    Comunità in cui è situato: Capannori;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 921,7
    - nome del monte: Monte di S. Cerbone;
    catena alla quale appartiene: Monte Pisano;
    Comunità in cui è situato: Lucca;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 741,0
    - nome del monte: (ERRATA: Vaccoli) Vecoli, sommità del campanile;
    catena alla quale appartiene: Monte Pisano;
    Comunità in cui è situato: Lucca;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 622,9
    - nome del monte: Rocca, sommità del campanile;
    catena alla quale appartiene: Sprone dell’Alpe Apuana;
    Comunità in cui è situato: Borgo a Mozzano;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 570,3
    - nome del monte: Castelluccio di Compito, sommità del monte;
    catena alla quale appartiene: Monte Pisano;
    Comunità in cui è situato: Capannori;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 494,5
    - nome del monte: S. Ginese, sommità del campanile;
    catena alla quale appartiene: Monte Pisano;
    Comunità in cui è situato: Capannori;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 179,0
    - nome del monte: Pieve S. Stefano, sommità del monte;
    catena alla quale appartiene: Sprone dell’Alpe Apuana;
    Comunità in cui è situato: Lucca;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 492,4
    - nome del monte: Marlia, sommità del terrapieno della
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    Specola;
    catena alla quale appartiene: Base meridionale delle Pizzorne;
    Comunità in cui è situato: Lucca;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 268,4
    - nome del monte: Nozzano, piano del campanile;
    catena alla quale appartiene: Ultimo sprone australedell’Alpe Apuana;
    Comunità in cui è situato: Lucca;
    altezza assoluta in braccia lucchesi : 116,0

    Fra le produzioni naturali sono celebri per l’Europa non che in Italia le acque termali di Corsena , note sotto il nome generico de’Bagni di Lucca; mentre il paese abbonda di marmi e di macigni. Cavansi i primi dal fianco settentrionale del Monte S. Giuliano, dove pure si lavora la pietra steaschistosa di Guamo. L’escavazione dei migliori macigni è presso Chifenti, come pure alla base occidentale e meridionale delle Piazzorne. – Si trovano rocce di diaspro nel Monte Fegatese e a Gello sotto il Monte di Pescaglia.
    In un ragionamento sulla peste del 1576 un medico lucchese di quell’epoca scrivendo ad un amico lo informava: "che Lucca, essendo da tutte le bande circondata dai monti, è dominata più dai venti caldi che freddi mediante la foce aperta verso Ripafratta, per la quale spesso piglia strada il libeccio, vento pessimo per Lucca. Quanto spetta all’aria voi sapete benissimo essere molto umida, e perciò sono nella nostra città tante scese , tanti catarri, tanti doloro di fianche, tante ernie e tante febbri lunghe ec."
    È altresì vero che le condizioni fisiche del clima di Lucca dal secolo XVI a questa parte sono assai migliorate in grazia di una maggior cura nelle opere idrauliche, sia perché si tengono più puliti i fossi e canali di scolo, quanto ancora per la custodia degli argini e il prosciugamento della pianura traversata dall’Ozzeri e dal Serchio. Altronde la città di Lucca avendo una lunga foce dal lato di settentrione, e largheggiando la sua pianura dalla parte di levante, riceve conforto dai venti salutiferi che soffiano da oriente
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    per cacciar via gli umidi vapori.
    In quanto all’industria agraria lucchese, tipo e modello di tutti i paesi, essa può dividersi in tre porzioni, sia per la qualità del suolo, sia per la posizione ed elevazione respettiva del paese. In vista di ciò i Lucchesi distinguono il loro territorio agricola in tre maniere; la prima nel contado delle sei miglia, che comprende il piano intorno alla città di Lucca con le adiacenti colline; la seconda nel territorio della marina, in cui è Massarosa, Montramito, Viareggio e Camajore con la sua ubertosa vallecola; la terza è compresa nell’agricoltura dell’Appennino, cui spettano, in tutto o in parte, le comunità di Villa Basilica, del Borgo a Mozzano, di Gallicano e dei Bagni di Lucca. – Dalla prima si hanno nella pianura grani, ortaggi, siciliani, legumi, fieni, foglia di gelso e vini comuni in abbondanza; nelle colline adiacenti, olio squisito e il più accreditato di tutti quelli d’Italia, dei frutti d’ogni sorta, e, specialmente nei colli esposti a levante e a mezzogiorno, vini generosi. Nella parte posta fra i poggi e la marina suole raccogliersi grandissima quantità di granturco, di fieno, e di giunchi per uso di seggiolame ed altro con vaste pinete. Il vino che quel suolo produce è salmastroso e fiacco. – Nei poggi delle interne vallecole, oltre il vino e l’olio, abbondano selve di castagni. Finalmente la terza porzione, detta dell’Appennino, nelle parti meglio esposte e meno elevate, olio e vino eccellente; in generale poi una gran quantità di castagne, superiori quasi sempre al consumo del contado lucchese, talchè nelle buone annate se ne fa un commercio anche all’estero.
    Le terre nella pianura di Lucca sono per lo più date a livello agli stessi coltivatori mediante un annuo canone. Nelle colline ha luogo il sistema della mezzerìa. Alla marina i possidenti ordinariamente costumano di far lavorare a proprio conto i loro fondi posti a piè del monte, che sono per lo più ulivati, mentre nella porzione
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    spettante all’Appennino molti coltivatori sono padroni diretti del terreno, o affittuarii per l’utile dominio.
    Non si conosce ancora con esatezza la superficie quadrata del territorio unito lucchese, comecchè esso approssimativamente sia calcolata insieme con la porzione staccata del suo territorio a circa 360 miglia quadrate toscane. Nella stessa superficie, all’anno 1832, si trovavano 150,225 abitanti; i quali, proporzionatamente ripartiti, darebbero 415 individui per ogni miglio quadrato a misura toscana, lo che starebbe a confermare l’opinione invalsa, che il territorio lucchese sia uno dei più popolati che contino gli Stati di Europa.

    Popolazione del TERRITORIO LUCCHESE in epoche diverse.

    Nell’anno 1733 la popolazione era di 113,190
    Nell’anno 1744 la popolazione era di 114,693
    Nell’anno 1758 la popolazione era di 118,128
    Nell’anno 1781 la popolazione era di 119,209
    Nell’anno 1818 la popolazione era di 126,645
    Nell’anno 1819 la popolazione era di 127,895
    Nell’anno 1820 la popolazione era di 129,513
    Nell’anno 1821 la popolazione era di 132,045
    Nell’anno 1822 la popolazione era di 135,175
    Nell’anno 1823 la popolazione era di 136,927
    Nell’anno 1824 la popolazione era di 138,698
    Nell’anno 1827 la popolazione era di 145,825
    Nell’anno 1828 la popolazione era di 147,980
    Nell’anno 1832 la popolazione era di 150,225
    Nell’anno 1837 la popolazione era di 164,151

    Dall’enunziato prospetto pertanto apparisce, che la popolazione in 104 anni aumentò di 50,961 abitanti, quasi un terzo maggiore di quella del 1733, e del 1744; e che negli ultimi 19 anni (dal 1818 al 1817) fu sì rapido e straordinario l’aumento da trovare un soprappiù di 37, 506 abitanti.

    Rapporto alle rispettive comunità il DUCATO DI LUCCA nel 1832 somministrò i seguenti resultati.

    Nel Territorio unito

    Comunità di Lucca, Abitanti N° 59,096
    Comunità di Capannori, Abitanti N° 31,431
    Comunità di Villa Basilica, Abitanti N° 6,851
    Comunità del Borgo (a
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    Mozzano), Abitanti N° 9,631
    Comunità dei Bagni di Lucca, Abitanti N° 8,056
    Comunità di Coreglia, Abitanti N° 3,733
    Comunità di Gallicano, Abitanti N° 3,078
    Comunità di Camajore, Abitanti N° 13,722
    Comunità di Viareggio, Abitanti N° 11,166

    Nel Territorio disunito

    Comunità di Montignoso, Abitanti N° 1,378
    Comunità di Minucciano, Abitanti N° 2,083

    TOTALE, Abitanti N° 150,225

    Divisa per classi la popolazione del DUCATO DI LUCCA nell’anno 1832 presentò i seguenti resultamenti.

    Famiglie nobili, N° 105
    Clero secolare e regolare, N° 1,898
    Forz’armata di linea, non compresi i due battaglioni di guardia urbana, N° 750
    Impiegati civili, N° 1,270
    Possidenti terrieri e livellarii, N° 40,000
    Addetti alle Arti e Mestieri, N° 6,300
    Addetti alla Pesca e alla Marina, N° 450

    SOMMA degl’individui delle classi suddette, N° 50,793
    Sulle quali classi vivevano gli altri abitanti dei due sessi di tutto il ducato, cioè, N° 99,432

    TOTALE , N° 150,225

    Donde ne consegue, che fra 4 abitanti contasi nello stato lucchese un possidente.
    Il valore di tutti i beni stabili del Ducato di Lucca, a tenore del casato compilato al principio del presente secolo, ammontò a 112,500,000 di lire lucchesi. Giova per altro avvertire che, quando saranno terminate le attuali operazioni geodetiche e catastali del territorio lucchese, le suddette cifre, sia di misura come di valore, dovranno subire una variazione.
    Una porzione però di tanta gente raccolta in sì piccolo spazio trae di che vivere il restante dell’anno lungi dalla patria. Avvegnachè due mila uomini con parte delle loro famiglie passano nelle fredde e temperate stagioni per lavorare in altri paesi, un migliajo nell’isola della Corsica, sette centinaja a un circa nelle granducali maremme; il restante poi
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    gira attorno all’Europa, e per fino al di là di questa, dove vendono figurine di gesso e di stucco, per quindi recare il profitto che ne ritraggono in patria.

    VICENDE PIU’ RIMARCHEVOLI DELLO STATO LUCCHESE

    Una questione di alta e difficile lena si addosserebbe colui che volesse dimostrare, quali fossero stati i confini dello stato di Lucca anteriormente all’impero romano. Avvegnachè poco più vi è da sapere che il territorio in questione, quando faceva parte della Liguria dipendeva dal governo provinciale della Gallia Cisalpina, e ciò nel tempo in cui Pisa col distretto era compresa nella Toscana, ultima provincia occidentale dell’Italia propriamente detta, durante il dominio della romana repubblica. – Che se Polibio nelle sue istorie, se Sillace nel suo Periplo, fecero dell’Arno il confine occidentale dell’Etruria; niuno di essi due, né alcun altro scrittore, che a me sia noto, sembra essersi occupato di tramandare ai posteri, se il territorio antico pisano a quell’età oltrepassasse o nò il fiume maggiore della Toscana. Ciò non ostante vi ha qualche ragione per indurci a credere, che il contado all’occidente della città di Pisa verso la marina di Viareggio s’inoltrasse.
    Per dar peso a tale congettura, quando altra testimonianza non vi fosse, giovano le parole di Tito Livio, il quale ne avvisò, che all’anno 561 di Roma il territorio di Luni confinava lungo il mare immediatamente con quello di Pisa. Un tal vero più che altrove ci si rende manifesto là dove lo storico, (libro XXXIV cap. 56) racconta, come Marco Cincio, allora prefetto in Pisa, mandò un avviso per lettere al senato, che ventimila Liguri di varie tribù avevano improvvisamente invaso e devastato le campagne di Luni, e di là oltrepassando nel confine pisano fatta incursione in tutta quella spiaggia, cioè: Lunensem primum agrum depopulatos, Pisanum deide finem transgressos, omnem oram maris peragrasse.Vedere ALPE APUANA Vol. I. pag. 71.
    Inoltre dalle stesse espressioni, non che da altri
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    riscontri dello storico menzionato, sembra resultare, che la città di Luni sino d’allora non solo dipendeva dal prefetto residente in Pisa, ma che il territorio di Luni verso il mare attaccava con quello pisano, e per conseguenza la città col porto lunese dovevano far parte dell’etrusca e non della ligustica regione.
    A convalidare un tal fatto qui si presta opportunamente Strabone, il quale nella sua geografia istorica, sebbene scritta sotto l’impero, e ne’primi anni di Tiberio, egli conservò la divisione politica delle provincie italiane secondo la ripartizione fatta dalla repubblica romana, piuttosto che adottare le innovazioni attribuite all’Imperatore Ottaviano. Avvegnachè nella Toscana, e non nella Liguria, dal greco geografo fu inclusa la città e per fino il golfo ossia porto di Luni, comecchè quest’ultimo si trovi alla destra del fiume Magra, e conseguentemente nella provincia ligustica. Per lo contrario, rapporto al territorio lucchese, Stradone seguitando le tracce degli antichi storici romani, situò nella Gallia Cisalpina o Togata la città di Lucca insieme al suo territorio con tutto il restante della vecchia Liguria.
    In ogni caso ne conseguita, che l’Arno nei secoli VI e VII di Roma non era più, e forse non servì mai di confine preciso fra la Toscana e la provincia dei Liguri, siccome sembra che non lo divenisse neppure il fiume Magra all’occasione che la città insieme col porto di Luni fu riunita al dominio romano. Molto meno poi doveva a quell’età fra la Liguria e l’Etruria servire di limite il Serchio, siccome fu supposto dall’erudito storico fiorentino Vincenzio Borghini; sia perché questo fiume terminava coll’Arno a Pisa, sia perché la valle da esso attraversata, a partire dalle confluenze dei due Serchii, cioè, da quello di Soraggio con l’altro di Minacciano, fino da tempo immemorabile fu sotto la giurisdizione di Lucca.
    Frattanto se mi venisse fatto il quesito: qual linea di demarcazione dividesse il territorio ligustico di Lucca da quello toscano di Luni e di Pisa? risponderei, che troppi ostacoli si frappongono
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    per soddisfare a cotesta domanda, tosto che niuno a quel che ne sembra prese finora di mira la dilucidazione di cotesto importante subbietto di antica geografia patria.
    Se però vogliamo affidarci alle cose da Tito Livio asserite; e se dobbiamo tener conto delle espressioni di Plinio il vecchio, fia gioco forza concedere, che il territorio della colonia di Lucca, punto né poco si accostasse al litorale pietrasantino, ossia della Versilia, siccome avvenne realmente nei tempi posteriori.
    Se poi amiamo di stare alla peculiare divisione fra la Toscana e la Gallia Cisalpina indicataci da Stradone nel quinto libro della sua opera storico-geografica, vedremo, che egli la traccia in termini equivalenti a un dipresso ai confini qui sotto espressi: L’Appennino (dice Stradone) progredendo dalla Liguria nell’Etruria lascia un’angusta spiaggia alla sua base, finchè dal mare a poco a poco si discosta, appena che arriva nel territorio pisano; e costà, voltando nella direzione di oriente, attraversa la penisola, finchè giunge alla marina tra Rimini e Ancona.
    Quindi l’autore medesimo soggiunge: Cotesta traversa montuosa separa la Toscana e l’Umbria dalla Gallia Cisalpina . Se dobbiamo tener conto, io diceva, di coteste indicazioni, credo che non anderebbe molto lungi dal vero colui che supponese aver servito in quel tempo di linea di confine la piccola giogana dell’Alpe Apuana, la cui pendice meridionale, camminando da Fosdinovo a Pietrasanta, fu sempre della giurisdizione lunense; sicchè essa servisse di limite fra la toscana e la ligustica contrada, fra il litorale della Versilia, di Massa e Carrara e la valle di Garfagnana percorsa dal Serchio: in una parola fra il distretto di Luni e quello di Lucca. L’ultimo de’quali intorno all’anno 538 di Roma (216 anni innanzi Gesù Cristo) venne compreso nella provincia della Gallia Cisalpina, nel tempo, cioè, in cui questa regione dal romano senato fu dichiarata provincia pretoriale.
    In tale stato continuò a restare la città di Lucca con tutto il suo distretto, fino a che
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    la Gallia Cisalpina, per Senatus consulto dell’anno 713 di Roma, e 41 avanti Gesù Cristo, fu riunita all’Italia propriamente detta, affinché dipendesse immediatamente dalle leggi ed istituzioni di Roma. (DION. CASS. Histor. Rom. Lib. XLVIII.)
    Resterà non ostante una grandissima difficoltà da superare, come sarebbe quella di sapere: quali fossero i confini fra il territorio lucchese e il distretto pisano dalla parte meridionale di Lucca: e se mai poteva esser quello, che servì poi di linea di demarcazione lungo il giogo del Monte pisano; in guisa che avvallandosi a Bientina, dovesse poi voltare faccia per andare incontro ai contrafforti dell’Appennino pesciatino e pistojese?
    In quanto spetta al territorio della colonia di Lucca verso settentrione, abbiamo d’onde arguire, ch’esso arrivasse sulla schiena dell’Appennino di Parma e di Piacenza dalla Tavola alimentaria scoperta nel 1747 presso la ripa del fiume Nura nell’antico territorio di Veleja. Nel quale monumento dell’età di Trajano veggonsi incisi, non solo i nomi di molte famiglie che ipotecarono i loro fondi per sicurezza del denaro preso a frutto, ma ancora vi si legge la loro patria ed i titoli dei vici, o pagi , in cui i detti fondi erano situati. Arroge che, fra i 40 pagi ivi designati, avvenne uno ( il pago Minervio ) situato nella parte montuosa dell’Appennino velejate, il quale apparteneva alla colonia lucchese. Inoltre ivi si avvisa, che il pago Valerio , il pago Vellejo , il pago Albense , e molti boschi compresi nel territorio di Veleja, a quella età confinavano con il territorio lucchese; et obbligare fundos Terentianos et Malapacios, qui sunt in Velejate pago Statiello, AD FINES REIPUBLICAE LUCENSIUM. Item fundos Lucilianos, Didianos, qui sunt in Velejate pago Valerio, ad fines LUCENSIBUS…. Item fundum Satrianum…. in Velejate pago Vellejo, ad FINES LUCENSIBUS…. Item saltum Bittuniam Albitemium, QUI EST IN VELEJATE ET IN LUCENSI pagis Albense, et Minervio,
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    et Statiello, AD FINES REIP. LUCENSIUM, etc.
    Dopo letta quella preziosa Tavola chi oserebbe contraddire che l’antico agro della colonia lucchese non oltrepassasse di là dai monti pontremolesi e di Borgo Taro onde giungere sino al territorio di Veleja?
    Cotesta Tavola alimentaria potrebbe giovare eziandio a scuoprirci la sede delle tribù di quei Liguri, i quali tra l’anno 565 e 575 di Roma furono combattuti ed espulsi dalle valli superiori del Taro e della Magra, ed il cui territorio, per l’estensione di ( ERRATA : 303,000) 103,000 jugeri, nell’anno 577 di Roma, d’ordine del senato venne distribuito fra i duemila cittadini romani della colonia dedotta a Lucca.
    Forse qualcun altro domanderà: da qual parte il territorio, che fu nel 577 assegnato alla mentovata colonia di Lucca, fronteggiasse con quello dato tre anni innanzi alla colonia di diritto latino dedotta a Pisa? E come mai il territorio della lucchese colonia, penetrando nel rovescio dell’Appennino verso la Lombardia, conciliare si potrebbe con le parole di Tito Livio, il quale ne assicura, che i 303,000 jugeri del terreno assegnato alla colonia di Lucca, sebbene fosse stato tolto ai Liguri, innanzi tutto esso apparteneva agli Etruschi?
    Questioni importantissime, ma non confacenti a un dizionario istorico. – Dirò solo, in quanto all’ultimo quesito, che le parole di Livio e la Tavola Velejate concordar potrebbero con le vicende istoriche, quante volte l’erudito, distinti bene i tempi e le cose, richiami alla sua memoria altri fatti di natura consimile. Citerò a modo di esempio, il caso non infrequente pel quale i legislatori del Campidoglio costumavano concedere ad una stessa colonia terreni distaccati dal territorio distrettuale della città, o capoluogo, da cui prendevano nome i coloni. – Per tal guisa non sembrerà strano, se Cicerone raccomandava a Decimo Bruto la sorveglianza e tutela sugli affitti ed entrate provenienti dai terreni che il municipio di Arpino, posto negli Abruzzi, possedeva nell’alta Italia. ( Epist. Famil. Lib. XIII . n° 11 e 12).
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    /> Né tampoco fa opposizione il detto di Tito Livio in quanto al territorio assegnato alla colonia lucchese, per aver detto, tolto ai Liguri sebbene in origine stato degli Etruschi. Avvegnachè anche costassù nei contorni di Modena, di Parma ec. prima dei Liguri e dei Galli vi signoreggiò per lunga età quella confederazione che si appellò degli Etruschi Circompadani . E nella guisa che lo storico patavino disse, essere stato dei Toscani innanzi che fosse occupato dai Galli Boj il territorio, sul quale furono dedotte le colonie romane di Bologna, di Modena e di Parma ( Histor. Lib. XXXVII, e XXXIX), per la ragione medesima quello consegnato alla colonia di Lucca potè per avventura essere un dì appartenuto agli Etruschi Circompadani o Transappennini; i quali furono espulsi dai contorni di Piacenza e di Parma dai Liguri Montani, Levi, Apuani, Briniati, e da altre simili tribù.
    Dove apparisce anche meno chiara la verità, mi sembra dalla parte orientale del territorio lucchese; tostochè ignorasi affatto quali fossero i suoi confini sotto il romano dominio con quelli della Toscana.
    Comunque vada la bisogna, ad ogni modo non mancano ragioni da conchiudere, che il territorio lucchese all’epoca romana abbracciava un’assai grande estensione di paese. E questa doveva trovarsi ben popolata alla decadenza della Romana repubblica, essendochè la contrada di Lucca, per asserto di Stradone, era sparsa di frequenti casali e borgate abitate da gente rinomata per probità: e dalla quale il senato romano traeva gran moltitudine di scelte milizie a piedi e a cavallo: Regio tamen probitate virorum (disse quello scrittore) floret, et robur militare magnum hinc educitur, et equitum multitudo, ex quibus senatus militares capit ordines, etc. (GEOGRAPH. Lib. V.)
    Da quali colonie si scegliessero le legioni e le coorti del senato di Roma ai tempi del greco geografo lo diede a conoscere Cornelio Tacito ( Annales Lib. IV c. 5), quando avvertiva, che
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    una milizia speciale e più distinta tenevasi di guarnigione nella capitale dell’impero; cioè, tre coorti urbane, e nove coorti pretoriane scelte dall’Etruria, dall’Umbria, dal vecchio Lazio e dalle colonie anticamente romane ( et coloniis antiquitus romanis ). Le quali ultime espressioni, a parere dell’eruditissimo istorico Borghini, vanno intese per colonie romane non state mai manomesse, né riformate.
    Da quanto ho qui accennato può quasi stabilirsi, che il decreto sulla nuova divisione politico-geografica, che staccò dalla Gallia Cisalpina il territorio lucchese per riunirlo alla Toscana, dovè pubblicarsi verso il principio del triumvirato di Ottaviano con Marcantonio e Lepido; cioè, 38 anni innanzi Gesù Cristo. E sebbene più volte nominato Stradone nella sua geografia adottasse l’antica divisione, e descrivesse Lucca col suo contado nella Gallia Citeriore, egli pertanto non mancò di avvertire, che fino da’suoi tempi molti scrittori designavano la Magra per confine fra la Liguria e la Toscana, per quanto le città di Lucca e di Luni, anche nei tempi posteriori al romano impero, tenessero una parte del loro territorio nella ligustica regione. – Vedere LUNI e LUNIGIANA.
    Altronde vi fu più di uno scrittore il quale opinò, che non solo dal lato dell’Appennino anticamente s’innoltrasse il territorio lucchese, ma eziandio credè che si estendesse di qua verso la Toscana fino nel volterrano e nelle grossetane maremme. Alla quale opinione presentavano un buon appoggio varii documenti dei secoli intorno al mille, appartenenti alla chiesa cattedrale di Lucca. Ma per aderire a tale opinione troppe difficoltà mi si affacciano, quali mi riserbo di esternare qui appresso. Vedere Articolo DIOCESI DI LUCCA.
    Se nel trascorrere i tempi romani non troppo copiose furono le memorie che riferire potevano al territorio lucchese, anche più scarse mi si presentano quelle relative ai secoli barbari. Durante i quali, se la giurisdizione civile ed ecclesiastica della città di Lucca venne accorciata e suddivisa dal lato settentrionale, sembra all’incontro che essa per nuovi acquisti andasse allargando
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    dalla parte occidentale e meridionale sino al punto da pervenire verso ponente sul lido del mare, e dalla parte di scirocco arrivare nel Val d’Arno inferiore sulle colline dell’Evola nel territorio sanminiatese, e verso la Valle dell’Era attraversare la vallecola della Cascina fino in Val di Tora.
    Mancano è vero documenti anteriori al secolo VIII per dimostrare l’acquisto fatto dai Lucchesi nella Marina di Viareggio e di Pietrasanta. – Che se non fosse perduta la pergamena originale della fondazione della badia di Monte verdi, fatta nell’anno 754 da due signori longobardi, uno di Pisa, l’altro di Lucca, forse potrebbesi da quel documento intendere meglio una espressione relativa alla chiesa e monastero di S. Salvatore di Versilia , (ora parrocchiale di S. Salvatore presso le mura di Pietrasanta), il qual monastero ivi si dichiara edificato nei predii di Walfredo nobile pisano situati sul confine dell’agro pisano e lunense: quem nos (Walfredo) edificavimus super campo Pisanica et Luniensi.
    Infatti il fiume Versilia per lunga età servì di confine orientale alla diocesi e giurisdizione lunense, siccome sembra che lo fosse durante il dominio romano rapporto al contiguo distretto civile di Pisa. Se non che col progredire dei secoli, a principiare almeno dalla dinastia Carolingia, dubito che le divisioni territoriali di alcune città della Toscana, e specialmente di quelle di Lucca e di Pisa, soffrissero una sensibile variazione. Alla qual epoca certamente ne richiamano le carte dell’Archivio Arcivescovile Lucchese, le quali dimostrano, come al secolo IX i confini dello stato lucchese, almeno per la giurisdizione spirituale, eransi dilatati al di là della base meridionale dei monti di Camajore e di Pietrasanta, comecchè la diocesi ecclesiastica di Lucca avesse già da lunga mano oltrepassato i confini dell’Arno ed esteso il suo dominio alla sinistra di questo fiume sopra l’antica Toscana, a scapito verosimilmente del territorio di Pisa.
    Infatti il distretto di San Miniato, ossia l’antico ed esteso pievanato di S. Genesio, nel secolo
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    IX dipendeva dal governo di Lucca anche nel civile, siccome da lungo tempo innanzi gli era sottoposto per l’ecclesiastico. Del qual vero non ne lascia dubitare una donazione fatta dal Marchese Adalberto il Ricco alla cattedrale di S. Martino sul cadere del suddetto secolo IX, o al principio del X; avvegnachè in quell’istrumento si dichiara, che il Marchese Adalberto donava le sue corti poste a Pescia e a S. Genesio, quas habere visus sum in Comitatu Lucense.
    Ma se in tanta distanza di tempi e con scarsissime memorie fia difficile l’investigazione degli antichi limiti del territorio lucchese, alquanto meno oscuri essi appariscono dopo che la città di Lucca, nel secolo XII, emancipossi dal governo dei marchesi, duchi e conti imperiali.
    In questo mezzo tempo, perciò che riguarda l’amministrazione civile e giudiciaria, a Lucca fu assegnata una gran parte della Val di Cornia, benché compresa nella giurisdizione ecclesiastica di Populonia; sicchè essa valle, per diritto di conquista divenuto patrimonio del fisco, fu divisa fra il re e i duchi, dai quali passò per dono, o per successione ereditaria in altri potenti longobardi pisani e lucchesi. Vedere CORNINO ( CONTADO e SUBDOMINIO ).
    Per lo stesso modo, come paese di prima aggressione de’Longobardi, Luni col suo territorio dipendere dovè nel civile e nel politico dal governo dei duchi lucchesi, almeno persino all’istituzione dei conti di Luni nella persona dei vescovi di quella città. – Vedere LUNI e LUNIGIANA.
    In quanto poi all’estensione del territorio di Lucca nei secoli intorno al mille, oltre la carta di donazione del Marchese Adalberto II qui sopra rammentata, colla quale si dichiarano le corti di S. Genesio e di Pescia del contado lucchese, io già feci conto, all’Articolo CERRETO GUIDI, di un’atto pubblico dell’ano 1086, rogato ad istanza dei conti Guidi nel loro castello di Cerreto, giudicaria lucchese . Il quale
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    rogito giova a dimostrare, che a quella età il territorio lucchese estendevasi nel Val d’Arno inferiore fino alle falde del Monte Albano; comecchè all’Articolo FUCECCHIO non omettesi di accennare un istrumento del 1034, in cui si dichiarava quest’ultimo castello della giurisdizione di Pistoja.
    Per egual modo la chiesa di S. Donnino a Cerbaja , ora a Castel Martini , posta dentro i confini dell’antica Diocesi Lucchese, nel secolo XIII dipendeva nel politico da Pistoja. – Vedere DONNINO (S.) a CASTEL MARTINI.
    Confinando pertanto il territorio di Lucca con quelli di Pisa e di Firenze, nei secoli posteiori al mille dovè andar soggetto a frequenti variazioni, secondo gli eventi delle guerre per cagione appunto di castella scambievolmente pretese e guerreggiate, tanto nella Val di Nievole come nella Versilia e nella Lunigiana, e ciò per sino a che la repubblica di Lucca, dall’anno 1439 al 1513, dovè lasciare affatto dal lato orientale il dominio della vicaria di Val di Nievole, ossia di Pescia, e le cinque terre di Val d’Arno; dal lato settentrionale le vicarie di Barga, di Castelnuovo, e di Camporgiano, tutte in Garfagnana; e dal lato di ponente le vicarie di Massa Lunense, Carrara e Pietrasanta.
    Furono erette posteriormente in vicarie, Gallicano, Minacciano e Montagnoso. Quelle di Capannori e di Viareggio sono di più moderna istituzione; la prima di esse venne formata con una parte del contado delle sei miglia, e l’altra con porzione della vicaria di Camajore.
    La comunità di Pescaglia conta la sua origine dall’anno 1838. Essa componesi di 17 sezioni o parrocchie con una popolazione di 5455 abitanti, che figura nel Quadro qui appresso insieme con la popolazione delle limitrofe comunità di Lucca, di Borgo e di Camajore.
    Il più recente smembramento del territorio lucchese è stato fatto dalla dinastia attualmente regnante, la quale rinunziò a favore del duca di Modena il territorio di Castiglione in Garfagnana, circondato per ogni lato
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    dagli Stati Estensi.

    QUADRO della popolazione del DUCATO di LUCCA a tre epoche diverse.

    - nome del Capoluogo di Comunità: LUCCA città e comunelli compresi nella Comunità.
    Capitale: abitanti anno 1744 n° 20,770, abitanti anno 1832 n° 21,829, abitanti anno 1837 n° 23,167, famiglie nel 1837 n° 4,778
    Sezioni (N° 83): abitanti anno 1744 n° 12,312, abitanti anno 1832 n° 37,267, abitanti anno 1837 n° 42,192, famiglie nel 1837 n° 7,110
    - nome del Capoluogo di Comunità: Viareggio città e comunelli compresi nella Comunità.
    Capoluogo: abitanti anno 1744 n° 469, abitanti anno 1832 n° 4,883, abitanti anno 1837 n° 5,590, famiglie nel 1837 n° 1,041
    Sezioni (N° 12): abitanti anno 1744 n° 1,810, abitanti anno 1832 n° 6,283, abitanti anno 1837 n° 7,281, famiglie nel 1837 n° 1,221
    - nome del Capoluogo di Comunità: Camajore terra e comunelli compresi nella Comunità.
    Capoluogo: abitanti anno 1744 n° 8,616 (compresi gli abitanti delle 20 sezioni), abitanti anno 1832 n° 2,661, abitanti anno 1837 n° 2,120, famiglie nel 1837 n° 2,692 (comprese le famiglie delle 20 sezioni)
    Sezioni (N° 20): abitanti anno 1744 n° 8,616 (compresi gli abitanti del Capoluogo), abitanti anno 1832 n° 9,061, abitanti anno 1837 n° 12,127, famiglie nel 1837 n° 2,692 (comprese le famiglie del Capoluogo)
    - nome del Capoluogo di Comunità: Capannori borgata e comunelli.
    Capoluogo: abitanti anno 1744 n° 32,595 (compresi gli abitanti delle 39 sezioni), abitanti anno 1832 n° 1,820, abitanti anno 1837 n° 33,952 (compresi gli abitanti delle 39
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    sezioni), famiglie nel 1837 n° 5,499 (comprese le famiglie delle 39 sezioni)
    Sezioni (N° 39): abitanti anno 1744 n° 32,595 (compresi gli abitanti del Capoluogo), abitanti anno 1832 n° 29,611, abitanti anno 1837 n° 33,952 (compresi gli abitanti del Capoluogo), famiglie nel 1837 n° 5,499 (comprese le famiglie del Capoluogo)
    - nome del Capoluogo di Comunità: Villa Basilica borgata e comunelli.
    Capoluogo: abitanti anno 1744 n° 7,275 (compresi gli abitanti delle 11 sezioni), abitanti anno 1832 n° 3,472, abitanti anno 1837 n° 7,505 (compresi gli abitanti delle 11 sezioni), famiglie nel 1837 n° 1,473 (comprese le famiglie delle 11 sezioni)
    Sezioni (N° 11): abitanti anno 1744 n° 7,275 (compresi gli abitanti del Capoluogo), abitanti anno 1832 n° 5,379, abitanti anno 1837 n° 7,505 (compresi gli abitanti del Capoluogo), famiglie nel 1837 n° 1,473 (comprese le famiglie del Capoluogo)
    - nome del Capoluogo di Comunità: Montignoso villaggio e rocca senza comunelli.
    Capoluogo: abitanti anno 1744 n° 921, abitanti anno 1832 n° 1,378, abitanti anno 1837 n° 1,582, famiglie nel 1837 n° 341
    Sezioni (N° -)
    - nome del Capoluogo di Comunità: Borgo a Mozzano villaggio e comunelli.
    Capoluogo: abitanti anno 1744 n° 7,178 (compresi gli abitanti delle 25 sezioni), abitanti anno 1832 n° 741, abitanti anno 1837 n° 10,375 (compresi gli abitanti delle 25 sezioni), famiglie nel 1837 n° 1,981 (comprese le famiglie delle 25 sezioni)
    Sezioni (N° 25): abitanti anno 1744 n° 7,178 (compresi gli abitanti del Capoluogo), abitanti anno 1832 n° 8,890, abitanti anno 1837 n° 10,375
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    (compresi gli abitanti del Capoluogo), famiglie nel 1837 n° 1,981 (comprese le famiglie del Capoluogo)
    - nome del Capoluogo di Comunità: Bagno villaggio e comunelli.
    Capoluogo: abitanti anno 1744 n° 7,567 (compresi gli abitanti delle 16 sezioni), abitanti anno 1832 n° 780, abitanti anno 1837 n° 8,470 (compresi gli abitanti delle 16 sezioni), famiglie nel 1837 n° 1,641 (comprese le famiglie delle 16 sezioni)
    Sezioni (N° 16): abitanti anno 1744 n° 7,567 (compresi gli abitanti del Capoluogo), abitanti anno 1832 n° 7,276, abitanti anno 1837 n° 8,470 (compresi gli abitanti del Capoluogo), famiglie nel 1837 n° 1,641 (comprese le famiglie del Capoluogo)
    - nome del Capoluogo di Comunità: Coreglia castello e comunelli.
    Capoluogo: abitanti anno 1744 n° -, abitanti anno 1832 n° 1,159, abitanti anno 1837 n° 4,228 (compresi gli abitanti delle 6 sezioni), famiglie nel 1837 n° 806 (comprese le famiglie delle 6 sezioni)
    Sezioni (N° 6): abitanti anno 1744 n° -, abitanti anno 1832 n° 2,574, abitanti anno 1837 n° 4,228 (compresi gli abitanti del Capoluogo), famiglie nel 1837 n° 806 (comprese le famiglie del Capoluogo)
    - nome del Capoluogo di Comunità: Gallicano castello e comunelli.
    Capoluogo: abitanti anno 1744 n° 2,464 (compresi gli abitanti delle 9 sezioni), abitanti anno 1832 n° 1,087, abitanti anno 1837 n° 3,359 (compresi gli abitanti delle 9 sezioni), famiglie nel 1837 n° 601 (comprese le famiglie delle 9 sezioni)
    Sezioni (N° 9): abitanti anno 1744 n° 2,464 (compresi gli abitanti del Capoluogo), abitanti anno 1832 n° 1,991,
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    abitanti anno 1837 n° 3,359 (compresi gli abitanti del Capoluogo), famiglie nel 1837 n° 601 (comprese le famiglie del Capoluogo)
    - nome del Capoluogo di Comunità: Minucciano castello e comunelli.
    Capoluogo: abitanti anno 1744 n° 2,016 (compresi gli abitanti delle 9 sezioni), abitanti anno 1832 n° 324, abitanti anno 1837 n° 2,203 (compresi gli abitanti delle 9 sezioni), famiglie nel 1837 n° 361 (comprese le famiglie delle 9 sezioni)
    Sezioni (N° 9): abitanti anno 1744 n° 2,016 (compresi gli abitanti del Capoluogo), abitanti anno 1832 n° 1,759, abitanti anno 1837 n° 2,203 (compresi gli abitanti del Capoluogo), famiglie nel 1837 n° 361 (comprese le famiglie del Capoluogo)
    - nome del Capoluogo di Comunità: Castiglione di Garfagnana.
    Abitanti anno 1744 n° 2,606, abitanti anno 1832 n° -, abitanti anno 1837 n° -, famiglie nel 1837 n° -
    - Totale degli abitanti anno 1744 n° 106,599
    - Totale degli abitanti anno 1832 n° 150,225
    - Totale degli abitanti anno 1837 n° 164,151
    - Totale delle famiglie anno 1837 n° 29,545

    DIOCESI DI LUCCA

    La diocesi di Lucca è una delle più antiche, siccome lo era tra le più vaste della Toscana, il di cui gerarca, prima di essere arcivescovo (cioè nel 1726) fu sempre immediatamente soggetto alla Chiesa maggiore del cristianesimo, a quella cioè di Roma, come lo furono fino dal 4 secolo dell’Era volgare tutte le cattedrali della provincia etrusca. Quindi è che i vescovi di Lucca si trovano talvolta sottoscritti nei sinodi romani del secolo IV come suffraganei del sommo pontefice.
    Che il martire S. Paolino, uno dei discepoli di S. Pietro, fosse
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    il primo battezzatore dei Lucchesi venuti dal paganesimo alla fede di Cristo, ritiensi da ognuno per tal vero da non aver duopo di riandarvi sopra. Bensì non tutti la penseranno come la pensò cinque secoli addietro il fiorentino Fazio degli Uberti, il quale nel suo Dittamondo scriveva di Lucca:

    Ma perché illuminata dalla fede
        Fu pria ch’altra cittade di Toscana
        Cangiò il suo nome, e LUCE se le diede.

    Sebbene posteriormente all’epoca di S. Paolino la storia ecclesiastica abbia trovato qualche nome di altri presidi della chiesa lucchese, non avendo noi intorno a ciò dati positivi, ci conviene scendere per la serie dei più antichi vescovi di Lucca a quel Massimo che nell’anno 347 di Gesù Cristo assistè al concilio di Sardice celebrato nell’Illirio contro gli Ariani, e negli atti del quale si trovò segnato un Maximus a Thuscia de Luca .
    Frattanto se, a opinione dei più, le diocesi ecclesiastiche all’epoca della loro prima istituzione costituironsi sul perimetro distrettuale delle giurisdizioni civili, nel modo che allora trovavansi ripartiti i distretti delle città provinciali, resterà sempre da sapere, come già dissi altre volte, quali fossero i limiti giurisdizionali di Lucca al IV secolo dell’Era cristiana, allora quando cioè esisteva egualmente che a Lucca il pontefice della diocesi di Pisa.
    Certo è che dal terzo all’ottavo secolo una profonda lacuna si pone innanzi a colui che tentasse cimentarsi ad attraversarla; né io penso, che fosse per trovare ragioni plausibili da persuaderci colui che cercasse dedurlo dal perimetro che mostrava la diocesi lucchese sotto il regno dei Longobardi; cioè allora quando un personaggio medesimo col titolo di duca presedeva al governo di Pisa, di Luni e di Lucca. Aggiungasi ancora, qualmente le persone affini, e persino i figli dei duchi venivano promossi alla prima dignità della chiesa lucchese, in guisa che eglino a preferenza degli altri vescovi furono beneficati e protetti a scapito forse delle vicine diocesi.
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    Non ha luogo pertanto a domandare, se, trovando noi al secolo VIII la diocesi di Lucca nelle colline di San Miniato, di Palaja e di Lari, il territorio lucchese fosse lo stesso dell’epoca romana, e conseguentemente che sin d’allora avesse oltrepassato gli antichi limiti per entrare in Toscana?
    Arroga a ciò, che l’uso d’invadere arbitrariamente le parrocchie continuava eziandio ai tempi di Carlo Magno, siccome lo dimostrò Adriano I, tostochè egli chiedeva assistenza e cooperazione al nuovo re di Lombardia, acciocché comandasse a certi vescovi d’Italia, e specialmente della Toscana, che non invadessero le diocesi e pievi antiche degli altri prelati, ec. (BARONII, Annal. Eccles. ad ann. 799).
    Dopo tali premesse reputo superfluo di qui trattenermi per rispondere ad alcuni per altro rispettabili scrittori, i quali non contenti di dare alla diocesi lucchese, nei secoli anteriori al mille, un’estensione maggiore di quanto realmente se gli apparteneva, ne portarono i limiti non solamente dentro i contadi di Luni, di Pistoja, di Volterra e di Pisa, ma ancora in mezzo ad altre diocesi dalla lucchese afatto distaccate. – Il quale equivoco fu motivato segnatamente dal riscontrare nelle diocesi di Volterra, di Populonia, di Roselle e perfino di Sovana delle chiese, oratorii e cappelle di giuspadronato dei vescovi di Lucca, cui erano pervenute per donazioni, ossia per diritto ereditario. Comecchè andasse, non cade dubbio sopra un fatto più confacente a dimostrare la giurisdizione episcopale, quello, intendo dire, di non riscontrarsi mai nelle diocesi e contadi sopra rammentati alcuna chiesa battesimale, o altra parrocchiale, dipendente dalla giurisdizione ecclesiastica di Lucca.
    Che però in ogni caso non credo che la diocesi di Lucca fosse maggiore di quella dimostrata in un catalogo delle sue chiese, monasteri e pivieri redatto nel 1260 per ordine del Pontefice Alessandro IV. Da quel registro si conoscono non solamente i varii luoghi con chiesa succursale, i diversi ospedali, monasteri ed eremi, ma ancora le respettive rendite di ciascuna di esse e dei luoghi
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    pii posti dentro i confini della diocesi. Dal prospetto medesimo resulta, che nel secolo XIII la diocesi di Lucca noverava 526 chiese; 58 di esse dentro la città con 4 canoniche, 13 ospedaletti, e 5 monasteri; altre 22 chiese erano suburbane con 6 monasteri e 3 spedali; mentre nel restante della diocesi esistevano 419 chiese, fra le quali 59 pievi, 32 spedaletti e 38 monasteri celle e romitorii.
    Tutte coteste chiese e stabilimenti sacri al culto, all’anno 1260, possedevano la rendita annua di 164,433 lire senza contare l’entrate speciali del vescovato, che erano di 3500 lire all’anno. Cosicché, computandosi allora il fiorino d’oro a poco più di lire due e mezzo per ciascuno, la rendita annuale del patrimonio ecclesiastico della diocesi di Lucca veniva a corrispondere intorno a 120,000 scudi di lire sette per scudo, della moneta corrente; per cui si richiedeva un capitale di 2,400,000 scudi, vale a dire 16,800,000 lire toscane!!
    Sappiamo frattanto da Paolo Warnefrido ( De Reb. Langobard. Lib. IV. 6.) che i Longobardi al loro apparire in Italia impossessaronsi della massima parte dei beni di chiesa; e con tutto che la regina Teodolinda fosse la prima ad impetrare dal re Agilulfo la restituzione di una parte del patrimonio alle chiese cattoliche, queste non tornarono ad arricchirsi se non dopo spariti i vescovi Ariani. Finalmente a favorire le pie istituzioni di Lucca concorsero i devoti magnati di questa città e molti vescovi eletti tra le principali famiglie. Dondechè non deve far meraviglia, se la cattedrale lucchese giunse ad acquistare molti beni e giuspadronati di chiese, non solo dentro i confini della sua, ma ancora nei territorii di altre diocesi della Toscana, e specialmente nelle pisane e rosellane maremme.
    Basta leggere i 150 documenti lucchesi spettanti all’epoca longobarda, che furono pubblicati nei volumi IV e V delle Memorie per servire alla storia di questo ducato, onde persuadersi delle ricchezze dalla cattedrale di S. Martino acquistate, e della grande quantità di
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    oratorii, monasteri e spedali dentro e fuori di Lucca fondati. Delle quali chiese, sebbene molte siano state ad altro uso destinate, o distrutte, pure ve ne restano tante anche oggidì aperte, e conservate al culto, da potere dar a Lucca l’epiteto di Città devota .
    Che se poi si voglia discendere dal secolo VIII sino al X per esaminare altri 1300 documenti di quel tempo, sempre più si farà manifesto, quanto il patrimonio della chiesa lucchese andasse aumentando: in guisa che per causa di livelli si resero dei vescovi tributarie non solo le primarie famiglie della città e del contado, che figurano dopo il mille nella storia di Lucca, ma molti altri cittadini e perfino degli ebrei, i quali ottennero ad enfiteusi beni di chiesa. – Leggasi su questo rapporto un documento dell’11 novembre anno mille, spettante all’ Archivio Arcivescovile Lucchese edito nelle Mem. Cit. T. IV P. II, col quale atto il vescovo Gherardo rilasciò ad enfiteusi a Kanomino del fu Giuda, e a Samuele del fu Isacco, entrambi ex genere Ebreorum , beni in Sorbanello di pertinenza della chiesa di S. Maria Forisportam .
    Essendo i vescovi riguardati fra i primi dignitarii del regno longobardo, incombeva ad essi l’obbligo in tempo di guerra di recarsi all’armata per far la corte al re, o per incoraggiare con la loro presenza i soldati. Fu di questo numero il vescovo lucchese Walprando nato dal duca Walperto, il quale innanzi di partire per l’esercito, nel luglio dell’anno 754, fece il suo ultimo testamento in Lucca, che più non si rivide. Con tale atto egli assegnò il suo pingue patrimonio sparso in Lunigiana, in Garfagnana, in Versilia e nelle pisane maremme, per metà alla mensa vescovile di S. Martino, e per l’altra metà alle chiese di S. Frediano e di S. Reparata di Lucca, dichiarando il testatore che i suoi fratelli superstiti si contentassero di un legato
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    in denaro.
    Né da meno in ricchezze e per lustro di natali fu il vescovo Peredeo successore di Walprando, il quale destinò alla sua chiesa cattedrale il vasto patrimonio, ch’egli aveva ereditato dal di lui padre Pertualdo posto nel lucchese, nel pisano, volterrano, populoniense, e perfino nel rosellano, e sovanese territorio.

    QUADRO SINOTTICO delle Pievi, Capitoli, Monasteri, Cappelle e Spedali della DIOCESI di LUCCA con le loro rendite all’anno 1260. (Le chiese della città di Lucca e suo distretto sono distinte per quartieri, in suburbane e in pivieri).

    - LUCCA Porta S. Gervasio, n° delle chiese del quartiere: 19, n° dei monasteri: 1, n° degli spedali: 4, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 20,606
    - LUCCA Porta S. Pietro, n° delle chiese del quartiere: 9, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 3, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 14,425
    - LUCCA Porta S. Donato, n° delle chiese del quartiere: 20, n° dei monasteri: 4, n° degli spedali: 3, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 20,609
    - LUCCA Porta S. Frediano, n° delle chiese del quartiere: 10, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 3, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 14,425
    - Suburbio della città di Lucca, n° delle chiese del suburbio: 22, n° dei monasteri: 6, n° degli spedali: 3, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 18,830
    - 1 Pieve di Compito, n° delle chiese del piviere: 17, n° dei monasteri: 4, n° degli spedali: 1, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 6,640
    - 2 Pieve di Vorno, n° delle chiese del piviere: 3, n° dei monasteri: 3, n° degli spedali: 1, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 755
    - 3
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    Pieve di Massa pisana, n° delle chiese del piviere: 11, n° dei monasteri: 2, n° degli spedali: 2, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 3,785
    - 4 Pieve di Vico Pelago, n° delle chiese del piviere: 3, n° dei monasteri: 1, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 1,755
    - 5 Pieve di Flexo ora di Montuolo, n° delle chiese del piviere: 10, n° dei monasteri: 2, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 1,028
    - 6 Pieve di Arliano, n° delle chiese del piviere: 9, n° dei monasteri: 1, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 556
    - 7 Pieve di S. Macario, n° delle chiese del piviere: 7, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 2, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 664
    - 8 Pieve di S. Stefano, n° delle chiese del piviere: 6, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 1,050
    - 9 Pieve di Mostesigradi, n° delle chiese del piviere: 13, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 1, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 1,146
    - 10 Pieve di Torri, n° delle chiese del piviere: 5, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 1, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 536
    - 11 Pieve di Sesto a Moriano, n° delle chiese del piviere: 12, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 1,354
    - 12 Pieve di Brancoli, n° delle chiese del piviere: 12, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 1, valle in cui si trovano:
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    Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 1,523
    - 13 Pieve di S. Pancrazio, n° delle chiese del piviere: 7, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 756
    - 14 Pieve di Marlia, n° delle chiese del piviere: 8, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 971
    - 15 Pieve di Lammari, n° delle chiese del piviere: 1, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 450
    - 16 Pieve di Segromigno, n° delle chiese del piviere: 9, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 2, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 2,053
    - 17 Pieve di S. Gennaro, n° delle chiese del piviere: 2, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 330
    - 18 Pieve di Lunata, n° delle chiese del piviere: 5, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 890
    - 19 Pieve di S. Paolo, n° delle chiese del piviere: 8, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 1,620
    - 20 Pieve di Camajore, n° delle chiese del piviere: 15, n° dei monasteri: 3, n° degli spedali: 2, valle in cui si trovano: Val di Versilia, rendita annua delle chiese: 3,485
    - 21 Pieve di S. Felicita, n° delle chiese del piviere: 13, n° dei monasteri: 1, n° degli spedali: 2, valle in cui si trovano: Val di Versilia, rendita annua delle chiese: 1,995
    - 22 Pieve d’Ilici, n° delle chiese del piviere: 6, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: -, valle in
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    cui si trovano: Val di Versilia, rendita annua delle chiese: 395
    - 23 Pieve di Villa Basilica, n° delle chiese del piviere: 4, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 1, valle in cui si trovano: Valle Ariana, rendita annua delle chiese: 490
    - 24 Pieve di Valle Ariana, n° delle chiese del piviere: 9, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 2, valle in cui si trovano: Valle Ariana, rendita annua delle chiese: 1,173
    - 25 Pieve Avellana o Vellano, n° delle chiese del piviere: 1, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Valle Ariana, rendita annua delle chiese: 140
    - 26 Pieve di Vico Pancelloro, n° delle chiese del piviere: 4, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 1, valle in cui si trovano: Val di Lima, rendita annua delle chiese: 516
    - 27 Pieve di Controne, n° delle chiese del piviere: 10, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Val di Lima, rendita annua delle chiese: 1,012
    - 28 Pieve di Casabasciana, n° delle chiese del piviere: 7, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 1, valle in cui si trovano: Val di Lima, rendita annua delle chiese: 603
    - 29 Pieve di Mozzano, n° delle chiese del piviere: 6, n° dei monasteri: 1, n° degli spedali: -, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 392
    - 30 Pieve di Decimo, n° delle chiese del piviere: 17, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 1, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 1,830
    - 31 Pieve di Villa Terenzana, n° delle chiese del piviere: 6, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 1, valle in cui si trovano: Val di Lima, rendita annua delle chiese: 528
    - 32 Pieve di Loppia (*), n° delle chiese del piviere: 24, n° dei monasteri: 2, n° degli spedali:
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    2, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 2,106
    - 33 Pieve di Gallicano, n° delle chiese del piviere: 19, n° dei monasteri: 2, n° degli spedali: 3, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 1,709
    - 34 Pieve di Fosciana (*), n° delle chiese del piviere: 40, n° dei monasteri: -, n° degli spedali: 2, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 1,677
    - 35 Pieve di Caregine (*), n° delle chiese del piviere: 1, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: 1, valle in cui si trovano: Val di Serchio, rendita annua delle chiese: 490
    - 36 Pieve di San Pietro in Campo (*), n° delle chiese del piviere: 5, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: 1, valle in cui si trovano: Val di Nievole, rendita annua delle chiese: 820
    - 37 Pieve di Pescia (*), n° delle chiese del piviere: 19, n° dei monasteri del piviere: 1, n° degli spedali del piviere: 3, valle in cui si trovano: Val di Nievole, rendita annua delle chiese: 3,733
    - 38 Pieve di Massa Buggianese (*), n° delle chiese del piviere: 7, n° dei monasteri del piviere: 4, n° degli spedali del piviere: 1, valle in cui si trovano: Val di Nievole, rendita annua delle chiese: 1,743
    - 39 Pieve di Montecatini (*), n° delle chiese del piviere: 9, n° dei monasteri del piviere: 1, n° degli spedali del piviere: 1, valle in cui si trovano: Val di Nievole, rendita annua delle chiese: 2,302
    - 40 Pieve di Vajano ora in Monte Vettolini (*), n° delle chiese del piviere: 7, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val di Nievole, rendita annua delle chiese: 765
    - 41 Pieve di Cappiano (*), n° delle
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    chiese del piviere: 5, n° dei monasteri del piviere: 2, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val d’Arno, rendita annua delle chiese: 4,265
    - 42 Pieve di Cerreto (*), n° delle chiese del piviere: 8, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val d’Arno, rendita annua delle chiese: 1,097
    - 43 Pieve di Ripoli (*), n° delle chiese del piviere: 3, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val d’Arno, rendita annua delle chiese: 340
    - 44 Pieve di S. Maria a Monte (*), n° delle chiese del piviere: 19, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val d’Arno, rendita annua delle chiese: 1,846
    - 45 Pieve di Laviano (distrutta), n° delle chiese del piviere: 2, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val d’Arno, rendita annua delle chiese: 120
    - 46 Pieve di Appiano ora a Ponsacco (*), n° delle chiese del piviere: 5, n° dei monasteri del piviere: 1, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val d’Era, rendita annua delle chiese: 810
    - 47 Pieve di Triana ora a Lari (*), n° delle chiese del piviere: 13, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val di Tora e Val d’Era, rendita annua delle chiese: 1,245
    - 48 Pieve di Milliano e Leccia (distrutta), n° delle chiese del piviere: 5, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val di Tora, rendita annua delle chiese: 271
    - 49 Pieve di Tripallo (*), n° delle chiese del piviere: 11, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali
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    del piviere: -, valle in cui si trovano: Val di Tora, rendita annua delle chiese: 650
    - 50 Pieve di Gello delle Colline, ora S. Eremo (*), n° delle chiese del piviere: 4, n° dei monasteri del piviere: 1, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val di Tora e Val d’Era, rendita annua delle chiese: 185
    - 51 Pieve di Acqui (*), n° delle chiese del piviere: 9, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val di Tora e Val d’Era, rendita annua delle chiese: 606
    - 52 Pieve di Suvilliana (disf.), n° delle chiese del piviere: 15, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val di Tora e Val d’Era, rendita annua delle chiese: 2,338
    - 53 Pieve di Padule (distrutta), n° delle chiese del piviere: 2, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val di Tora e Val d’Era, rendita annua delle chiese: 220
    - 54 Pieve di S. Gervasio con la chiesa di S. Colombano (*), n° delle chiese del piviere: 23, n° dei monasteri del piviere: 1, n° degli spedali del piviere: 1, valle in cui si trovano: Val di Tora e Val d’Era, rendita annua delle chiese: 2,370
    - 55 Pieve di Musicano ora in Montopoli (*), n° delle chiese del piviere: 13, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val d’Evola e Val d’Era, rendita annua delle chiese: 1,350
    - 56 Pieve di Barbinaja (*), n° delle chiese del piviere: 8, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val d’Evola e Val d’Era, rendita annua delle chiese: 624
    - 57 Pieve di Quarazano (*), n° delle
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    chiese del piviere: 12, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val d’Evola e Val d’Era, rendita annua delle chiese: 1,300
    - 58 Pieve di S. Genesio ora in S. Miniato (*), n° delle chiese del piviere: 26, n° dei monasteri del piviere: -, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val d’Arno, rendita annua delle chiese: 4,344
    - 59 Pieve di Fabbrica (*), n° delle chiese del piviere: 20, n° dei monasteri del piviere: 1, n° degli spedali del piviere: -, valle in cui si trovano: Val d’Arno, rendita annua delle chiese: 2,012

    - Totale chiese comprese nei quartieri e pivieri: 430
    - Totale monasteri compresi nei quartieri e pivieri: 43
    - Totale spedali compresi nei quartieri e pivieri: 53
    - Totale rendite annue delle chiese comprese nei quartieri e pivieri: 164,433

    N. B. Le pievi contrassegnate con l’asterisco ( * ) spettano ad altre Diocesi, e specialmente a quella di Sanminiato, di Pescia e di Massa di Carrara.

    VICENDE TERRITORIALI DELLA DIOCESI DI LUCCA DOPO IL SECOLO XII

    Se ai monumenti poco sopra accennati si aggiunga la deliberazione presa dal Comune di Modena, nel luglio del 1222, per apporre i termini lungo il giogo dell’Appennino tra la diocesi modenese e quelle di Lucca e Pistoja, facilmente apparirà, che la giurisdizione ecclesiastica lucchese nel secolo XIII, al pari di quella di Arezzo, era senza dubbio la più estesa della Toscana. Poiché, se l’aretina toccava gli estremi suoi confini dal grado 42° 58’ al 43° 48’ di latitudine, e dal grado 29° 15’ al 29° 45’ di longitudine; questa di Lucca nella sua più lunga estensione arrivava dal grado 43° 31’ al 44° 12’ di latitudine, e dal grado 27° 53’ sino al grado 28° 35’ di longitudine.
    Tale fu, ed in
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    simile guisa il territorio ecclesiastico lucchese intatto si mantenne, finchè il Pontefice Leone X separò dall’antica sua cattedrale (anno 1519) la pieve di Pescia per dichiarare il suo parroco Preposto Nullius Dioecesis . Alla quale chiesa semi-episcopale lo stesso Papa volle assoggettare, oltre le consuete chiese suddite, ossia filiali della pieve pesciatina, molte altre parrocchie della Val di Nievole e di Valle Ariana, a partire dalla pieve Avellana, o di Castel vecchio, sino ai confini di quella di Vajano, ora di Monte Vettolini; per modo tale che la prepositura e collegiata di Pescia, nel 1727, dal Pontefice Benedetto XIII fu eretta in chiesa cattedrale. – Vedere PESCIA DIOCESI.
    Il secondo e più vasto smembramento della Diocesi di Lucca accadde nel 1622, quando il Pontefice Gregorio XI, per erigere in sede vescovile la prepositura di S. Maria e S. Genesio in Sanminiato, staccò dalla Diocesi lucchese i pivieri della giurisdizione civile del Granducato di Toscana compresi nella Valle inferiore dell’Arno, in Val d’Evola, in Val d’Era e in Val di Tora, a partire cioè dalle terre fra l’Arno e le Cerbaje, fino a Carigi sul Roglio di Val d’Era; a Colle Mattaccino in Val di Cascina, a Tremolato e Faglia in Val di Tora, a Crespina e Cenaja in Val Triana.
    La terza riduzione della Diocesi di Lucca seguì sotto il pontificato di Pio VI; il quale per bolla del 18 luglio 1789 distaccò dalle parrocchie lucchesi quelle dei vicariati granducali di Barga e di Pietrasanta, oltre il distretto di Ripafratta, che assegnò tutti alla diocesi di Pisa, dalla quale la lucchese ebbe in cambio 7 chiese costituenti il piviere di Massaciuccoli.
    Finalmente l’ultimo e recentissimo smembramento fu decretato nel 1823 dal Pontefice Leone XII, nel tempo in cui fu eretta in cattedrale la collegiata di Massa di Carrara a carico delle diocesi di Luni-Sarzana e di Lucca. L’ultima delle quali dovè perdere tutte le chiese comprese negli antichi pivieri
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    della Garfagnana; cioè, quelle di Pieve Fosciana e di Caregine con una porzione del piviere di Gallicano.
    In vista pertanto dei 4 smembramenti accennati la Diocesi di Lucca trovasi attualmente ristretta dentro i limiti del territorio unito del suo Ducato. Essendochè la comunità staccata di Montagnoso dipende per l’ecclesiastico dal vescovo di Massa, e l’altra di Minucciano conservasi costantemente sotto gli antichi suoi pastori, che sono i vescovi di Luni-Sarzana.
    Nello stato presente la Diocesi lucchese conta 251 chiese parrocchiali, undici delle quali dentro la città, e 32 pievi sotto matrici sparse nel territorio.
    Vi sono in città quattro capitali, ossiano chiese collegiate, compresa la cattedrale: cioè, il duomo che conta 18 canonici e quattro dignità; S. Michele con 10 canonici e una dignità; S. Paolino con 10 canonici e una dignità; S. Alessandro con 8 canonici e una dignità. Tra quelle fuori della capitale vi è Camajore, la quale è decorata di un’insigne collegiata con 14 canonici e una dignità, il Priore, cui fu concesso il privilegio dei pontificali.
    Conservansi in Lucca due seminarii, uno addetto al servizio della cattedrale, l’altro alla collegiata di S. Michele.
    I vescovi di Lucca ottennero il privilegio del pallio dal Pontefice Calisto II (anno 1120) e, per concessione del papa Alessandro II, quello della croce come gli arcivescovi. Finalmente per bolla del di 11 settembre 1726, Benedetto XIII innalzò la cattedra di S. Martino all’onore di sede arcivescovile, ma senza suffraganei.
    La chiesa lucchese fornì un copioso numero di prelati celebri per santità, per dottrina e virtù. Contansi fra i primi S. Paolino Antiocheno , l’apostolo dei Lucchesi; S. Frediano , insigne loro patrono; Walprando e Peredeo per influenza politica e per vistose donazioni alla loro chiesa; S. Anselmo che col nome di Alessandro II riedificò l’attuale cattedrale, accrescendo onori e privilegii alla città di Lucca ed al suo clero; e
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    S. Anselmo II , il consigliere della contessa Matilde, ec. – Furono famosi per dottrina e per esemplarità di costumi un vescovo Sandonnini nel secolo XV, un Guidiccioni nel declinare del secolo XVI, un Mansi nel secolo XVIII; un Sardi al principio del secolo attuale, ec. ec.

    COMUNITA’ DI LUCCA

    La comunità di Lucca abbraccia, oltre la città, una campagna d’irregolare periferia, la di cui superficie non è stata ancora completamente misurata dai geometri che al presente si occupano nei lavori del catasto lucchese. – Innanzi la erezione della nuova comunità di Pescaglia, cioè alla fine dell’anno 1837, questa di Lucca abbracciava, nella campagna 89 sezioni, con una popolazione di 42,192 abitanti, ripartita in 7110 famiglie, mentre la città era abitata da 23167 individui; sicchè nel 1837 tutta la popolazione della Comunità di Lucca ascendeva al 65359 persone appartenenti a 11888 famiglie; lo che, equivale a individui 5 e 1/2 per ogni capo di casa.
    Questa suddetta Comunità confina con altre sette, cinque delle quali appartenenti al suo Ducato e le altre due spettanti al Granducato di Toscana. – Infatti, dalla parte di scirocco e di grecale essa tocca i confini della Comunità di Capannori ; dal lato di settentrione rasenta la Comunità del Borgo a Mozzano ; dalla parte di maestro ha la Comunità di Camajore , dal lato di ponente quella di Viareggio ; dalla parte volta a libeccio tocca la Comunità di Vecchiano , appartenente al Granducato; alla quale sottentra l’altra Comunità dei Bagni a S. Giuliano , pure del Granducato, e quest’ultima confina dal lato di ostro con la Comunità di Lucca mediante la criniera del Monte pisano.
    Il territorio della Comunità in discorso consiste in una pianura profondamente coperta di ghiaja e di terre di recente alluvione, coronata alla destra del Serchio, cioè
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    dal lato di grecale e di settentrione da colline di macigno (arenaria), di basciajo (schisto-marnoso), di grès color castagnuolo, di calcarea-compatta e di galestro; questo generalmente superiore, e quella inferiore alli strati di macigno. Dietro alle stesse colline si alzano le così dette Pizzorne , e il monte di Brancoli , mentre dal lato di maestro, di ponente e di grecale gli fanno spalliera l’alpe di Pascoso , di Montemagno , e il monte di Quiesa ; la cui ossatura è formata di rocce di calcarea-semi-cristallina con vene metallifere, di schisto argilloso e di macigno; il tutto spesse volte coperto da galestro e da schisto marnoso alterato. Dal lato poi di ostro serve di cornice alla stessa pianura il marmoreo-verrucano monte di S. Giuliano, ossia Pisano, anch’esso sovrapposto nei fianchi, e alla base da un macigno a grossi elementi ( selagite ) dal grès castagnolo, e dal galestro. – Vedere MONTE PISANO.
    Il territorio comunitativo di Lucca, a tenore dei diplomi di Arrigo IV, V e di Lottario III, stendevasi fino alle sei miglia intorno alla città. Quali fossero le borgate, ville, popoli e pivieri di esso contado, lo dichiarò un altro diploma di Arrigo VI dato nel Borgo di S. Donnino li 30 aprile del 1186. Col qual privilegio non solo fu confermata ai Lucchesi la giurisdizione dentrò le sei miglia attorno la città, ma affinchè non nascesse dubbio sulle ville comprese in detto contado, volle a sufficiente cautela, che fossero distintamente nominate per distretti di pivieri; cioè, di Sexto a Moriano , di Mostesigradi (ora Monsagrati), di S. Stefano , di S. Macario , di Arliano , di Massa (pisana), di Vorno , di Compito , di S. Paolo , di Lunata , di Lammari , di Marlia ,
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    di S. Pancrazio , di Subgromigno , e di S. Gennaro con tutte le ville e borgate comprese dentro i confini dei 15 pivieri, fra i quali però non si trova quello di Ripafratta. ( Memor. Lucch. T. I.)
    I maggiori corsi d’acqua che attraversano il territorio della Comunità di Lucca, dopo il Serchio che scorre fra le estreme falde occidentali delle Pizzorne e quelle orientali dell’Alpe di Pascoso, di Monte magno e del monte di Quiesa, si contano i torrenti Vinchiana , Fraga , Freddana , Cerchia e Contesora , che i primi due scendono a sinistra, e gli altri tre a destra per vuotarsi nel fiume sunnominato.
    Considerando ora il Serchio nella sola sezione spettante al territorio comunitativo di Lucca, a partire dai secoli posteriori all’VIII dell’Era volgare, mi sembra rilevare dalle scritture del tempo, che questo fiume discendesse a Lucca tripartito, in guisa che il primo ramo passava a ponente poco lungi da Lucca, presso a poco com’ora succede, lambendo il monticello di S. Quirico , davanti al quale era il ponte omonimo, altre volte detto del Marchese . Il ramo di mezzo rasentava le mura occidentali dei primi due cerchi della città, e questo appellossi parimente Serchio , o talvolta Auserclo ; mentre il terzo ramo, che passava a levante di Lucca, fu chiamato costantemente Auxer , Auxere , poscia Ozzeri .
    Io non rimonterò ad epoche troppo recondite, quando una delle tre diramazioni del Serchio, conosciuta tuttora col nome suo vetusto di Ozzeri ( Auxer ) scorreva da maestro a scirocco nella pianura orientale di Lucca per vuotarsi nel Lago di Bientina, e di là per l’emissario della Auxerissola (vecchia Seressa) nel fiume Arno. Ma qui non debbo ommettere di rammentare la mirabile direzione data per opera di S.
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    Frediano nel sesto secolo dell’Era volgare, forse al sinistro piuttosto che al ramo destro del Serchio, affine di liberare dalle inondazioni la pianura di Lucca, quando cioè questo medesimo Auxer discostandosi dalla città prese la direzione di Lammari, di Antraccoli, della pieve di S. Paolo in Gurgite , di Turingo , ec. – Di tale maravigliosa operazione e dell’andamento dell’ Auxer (Ozzeri) dopo il sesto secolo più non esistono tracce, se non forse quella accennata dall’alveo del fiumicello Ozzeretto , il quale scorre per Antraccoli, per la pieve di S. Paolo, per Turingo e Sorbano , finchè sottentra l’attuale canale dell’ Ozzeri .
    Sul qual proposito mi gioverò della non dubbia testimonianza di un antico e santo scrittore, cioè di S. Gregorio Magno, il quale al lib. III cap. 9 dei suoi dialoghi diede a conoscere, che l’Auxer innanzi all’epoca di S. Frediano scorreva vicino alle mura della città, e che spesse volte traboccava dal suo alveo con danno delle vicine campagne. Che poi lo stesso Auxer , tradotto in Ozzeri , fosse diverso dal Serchio, il quale passava dal lato occidentale della città, anche meglio lo mostrava un rozzo poeta, scrittore del secolo XII, allorchè, decantando le azioni di S. Frediano, disse che, dopo il prodigioso deviamento dell’ Auxer , piacque al S. Vescovo di recarsi nella campagna di Lunata, vico quasi tre miglia a levante di Lucca; nella quale circostanza alcuni villani di quella vicinanza fecero al santo vescovo tali insulti da giungere persino a percuoterlo, indispettiti, dice il Bertini, di vedere occupato al nuovo alveo dell’ Auxer i loro terreni. – (BERTINI Memor. Lucch. T. IV pag. 260 e 261.)
    Infatti moltissime pergamene lucchesi posteriori al secolo VII danno bastantemente a divedere l’andamento del nuovo alveo dell’ Auxer , nelle vicinanze di S. Paolo, di Turingo , di
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    Sorbano ec., siccome fu accennato all’Articolo GORGO (S. PAOLO IN) – Vedere LAGO DI BIENTINA, OZZERI, SERCHIO, SORBANO ec.
    Che però limitandomi qui a far parola del corso dell’ Ozzeri , che attraversa attualmente nella direzione da levante a ponente la campagna all’ostro di Lucca, dirò, che in grazia delle antiche naturali colmate di cotesta pianura posta lungo la base settentrionale del Monte pisano, questo corso d’acqua ha una doppia, sebbene languida inclinazione; tostochè la parte occidentale scola nel Serchio, mentre il armo orientale dell’ Ozzeri fluisce nel Lago di Sesto, ossia di Bientina, sotto nome di canale Rogio .
    Contuttociò la livellazione del piano di Lucca e dell’alveo del Serchio, essendo decisamente superiore al livello del Lago suddetto ( Vedere le due Tavolette dell’Altezze a pagg. 873 e 874), si dovette ricorrere nel 1786 alla costruzione delle cateratte in bocca d’Ozzeri, onde con esse riparare al rigurgito del Serchio fluente nel Lago, e così impedire le frequenti innondazioni, cui era soggetta la pianura orientale di Lucca. – Vedere OZZERI e SERCHIO.
    Allo stesso scopo di rimediare in parte simili inconvenienti dello spagliamento delle acque, che per l’antico alveo dell’ Ozzeri scorrevano vaganti e senza ripe nella pianura di Lucca, il governo della repubblica nei secoli andati risolvè di ridurre il Serchio in un solo alveo col dare a questo un’ampiezza maggiore.
    Nel 1562 pertanto incominciossi la costruzione del grande argine di Saltocchio, che si continuò fin verso la città, di maniera che in una estensione di quasi quattro miglia furono restituiti alla cultura circa mille quadrati agrarii di terreno già stato ricoperto da ciottoli e da grosse ghiaje. – La quale arginazione fu con maggiore impegno accresciuta dopo che le straordinarie piene del 1624 diressero gran parte dell’acque del Serchio nel Lago di Bientina; donde avvenne che ne conseguirono forti reclami per parte del governo
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    di Firenze, in guisa che la repubblica di Lucca nel 1627 deliberò di far di nuovo allargare l’alveo del Serchio sino a 300 braccia, e di destinare braccia 200 per la golena dalla parte sinistra, e braccia 40 dal lato destro del fiume.
    Finalmente neppure questi argini essendo riesciti a contenere il Serchio nelle sue maggiori escrescenze, e veduti i danni da esso apportati nella piena del 1812 alle campagne di Lucca, per ordine della principessa Elisa furono rifatti importantissimi e dispendiosissimi lavori, e quindi rialzati gli argini tre braccia più che non lo erano nel 1812.
    Resta a dire del canale denominato il Fosso , il quale entra ed attraversa la città di Lucca da tempi remotissimi, sebbene abbia variato direzione, e sia stato ampliato dalla repubblica lucchese per benefizio della popolazione e degli edifizii manifatturieri. – Cotesto Fosso prende le acque dal Serchio presso S. Gimignano a Moriano, e di là per Saltocchio, per S. Pietro, e S. Cassiano a Vico, dopo aver servito all’irrigazione di quelle campagne, col somministrare l’acqua a diversi mulini, gualchiere, e ad altri edifizii economici, entra in città, le cui strade percorre da grecale a libeccio in guisa di una copiosissima gora, ora scoperto, ora coperto, ma sempre difeso da parapetti e fornito di frequenti ponti per attraversarlo.
    L’origine di questo canale, come dissi, è antichissima, tostochè le memorie di una gora che entrava in città presso la Porta S. Gervasio, rimontano al secolo IX. La qual gora a quell’epoca passava per la corte della Regina, mentre fra S. Giusto e la piazza ducale esisteva una pescaja che metteva in moto le macine di un mulino spettante alla chiesa di S. Pietro ad Vincula , siccome lo prova un contratto di fitto di quell’edifizio fatto nel 5 novembre dell’anno 862. ( Memor. Lucch. T. V. P. II.)
    La stessa gora, o Fossa dirigevasi dalla
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    corte della Regina verso la piazza di S. Michele in Foro , dov’era attraversata da un ponticello e quindi da una seconda pescaja, nel modo che leggesi in un istrumento del 1134 dell’Archivio di S. Paolino, in cui sono descritti i confini di una casa posta in Lucca juxta pontem, qui dicitur ad Forum, ab alia parte coheret cum sepe , etc. In altri documenti di poco posteriori, sotto gli anni 1169, 1183, e 1206, la chiesa medesima è designata con questa indicazione: Ecclesia S. Michaelis de Ponte ad Forum, et juxta pontem S. Angeli in Foro. (MORICONI, Dell’antichità di Lucca ec. Lib. II. MS.)
    A rintracciare la continuazione dell’antico fosso giova al caso nostro un istrumento del 1178, in cui cotesta gora macinante nella sezione tra la chiesa di S. Michele e quella di S. Matteo appellavasi la Fossa di Natale , dicendosi: in Eccl. S. Mathaei in civitate lucana juxta fossam, quae dicitur Natalis.
    Era probabilmente una derivazione della stessa Fossa quella di cui fa parola nello statuto lucchese del 1308 al capitolo 33. – Finalmente con provvisione del 29 agosto 1369 la Signoria di Lucca ordinò, che per comodo de’cittadini, per difesa e splendore della città, e per vantaggio e facilità delle manifatture si costruisse un acquedotto che traesse l’acqua dal Serchio, e sul quale si fabbricassero dei mulini, ed altri utili edifizj. La deliberazione peraltro non specificò il punto donde l’acquedotto dovesse partire, se dal Serchio direttamente, o dalla continuazione di quello che negli Statuti del 1308 trovasi rammentato.
    Non essendo però quel fosso difeso da cateratte e da argini sufficienti ad assicurare la circostante pianura dalle escrescenze del medesimo, con provvisione dei 21 febbrajo 1505, e dei 13 agosto 1507 fu deliberato, che la presa delle sue acque si facesse di contro alla pieve di Sesto a Moriano. Ma neppur qui potè sussistere
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    la cangiata imboccatura dell’acquedotto, la quale nel 1585 fu tolta di là e aperta sopra il paese di Sesto a Moriano, onde condurre il canale nella guisa che tuttavia sussiste con grande vantaggio delle adiacenti campagne e della città. Essendochè il fosso mette in moto alcuni mulini, e diversi edifizii manifatturieri, oltre il benefizio che apporta alle tintorie, alle fabbriche di conce, ai lavandari, e all’irrigazione di molti giardini.
    Dovendo rammentare i ponti che attualmente cavalcano il Serchio e l’Ozzeri, dirò, che il primo nel tragitto che fa per il territorio della Comunità di Lucca, cioè da Brancoli sino al di sotto di Nozzano, viene attraversato da tre ponti di pietra. Il più alto è detto Ponte a Moriano , di cui si hanno memorie fino dal secolo VIII. Era anticamente di legname, poi di macigno, rifatto nel 1490 da Matteo Civitali; ma nel 1580 essendo in parte rovinato, furono riedificati i due archi nel 1582 da Vincenzio Civitali nipote del primo artista.
    Nel secolo però che corre (anno 1832) un nuovo ponte vi è stato edificato di pietra serena levata delle vicine cave. È del primo più largo e più pianeggiante, disegnato e diretto dall’architetto lucchese Giovanni Lazzarini.
    Il secondo ponte, che prese nome dall’opposta collina di S. Quirico , è il più prossimo di tutti a Lucca. Esso trovasi fuori della Porta al Borgo circa 1250 braccia lontano dalla città. Era egualmente del primo tutto di legname, talchè molte volte nelle guerre della repubblica lucchese, per impedire ai nemici il passaggio del fiume, veniva appositamente disfatto; ma nel 1363, scrive il Donati, furono fatti i piloni di pietra, servendosi, a detta di quell’autore, dei materiali della distrutta cittadella dell’ Augusta ; lo che, se fosse vero, converrebbe ammettere che l’Augusta venisse demolita innanzi il 1369, siccome ne informa la storia. Peraltro neppur questo ponte resistè all’urto violento delle acque, sicchè in una straordinaria escrescenza del fiume
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    furono rovesciati i piloni, e il ponte cadde in un’istante.
    Allora fu che si tornò a fabbricarlo intieramente di legname. Variate però le circostanze politiche dopo l’estinzione delle repubbliche a Lucca limitrofe, il ponte minacciando di rovinare fu ordinato a Bramante Soldini, che tutto di pietra lo rifacesse, siccome avvisava un’iscrizione. Ma in vista del rialzamento dell’alveo del fiume, essendo rimasta angusta la luce degli archi, fu atterrato nel 1813, e quindi riedificato più ampio tra il 1816 e 1818; al quale anno appella la lapida in lettere d’oro posta in mezzo al ponte medesimo davanti a un’edicola avente una statuina di S. Frediano.
    Il terzo ponte è quello detto di S. Pietro , distante più di due miglia dalla porta della città. La sua origine per altro non dovrebb’essere più antica del secolo IX o X, quando signoreggiavano in Lucca i marchesi di Toscana. E forse devesi a uno di questi toparchi la sua fondazione, essendochè fu chiamato il ponte del Marchese , seppure non ebbe tale indicazione per la ragione delle possessioni che i marchesi Adalberti e Bonifazii tenevano fra la Porta S. Pietro e il Serchio. – Comunque fosse la bisogna, innanzi la fondazione del ponte S. Pietro, costà presso doveva esservi per il passaggio del Serchio una Nave , il cui vocabolo è rimasto alla contigua contrada di S. Matteo alla Nave . – Vedere NAVE (S. MATTEO ALLA).
    Dall’anno 1372 al 1375 il ponte S. Pietro fu rifatto, e nell’anno 1535 nuovamente ricostruito, ma sempre di legname, fino a che nel principio del secolo XVIII si riedificò tutto di pietra.
    In quanto ai ponti dell’ Ozzeri mancano i documenti per far parola di quelli che dovevano cavalcare l’antichissimo ramo dell’ Auxer che scendeva dal Serchio, a levante della città, deviato dalle sue mura per opera, come si disse, di S. Frediano.
    I ponti pertanto
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    che attraversano attualmente il canale dell’ Ozzeri , a partire dalle pendici settentrionali del monte S. Giuliano sino al perno variabile, dove le acque dell’ Ozzeri bilanciano con quelle che fluiscono per il Rogio nel Lago di Bientina, sono i seguenti, 1° il ponte Strada dirimpetto alla chiesa di Guamo; 2° il ponte de’ Frati , il quale è posto sotto la confluenza dell’ Ozzeretto , dove termina lo stradello lungo il canale della Formica . Poco distante di là trovasi il terzo ponte più famoso di tutti, sulla strada maestra di S. Maria del Giudice, o del Monte S. Giuliano. Questo ponte, che porta il nome di Ponte tetto , era difeso da due torri, e costà l’ Ozzeri doveva avere un alveo assai più largo del fosso attuale, tostochè alcuni archi dell’antico ponte trovansi sotterrati dagli argini più angusti. Infatti l’annalista Tolomeo, parlando della sorpresa di una mano di soldati comandati dal re Corradino, il quale si mosse da Pisa per la via del Monte S. Giuliano contro Lucca; ma dovè retrocedere per aver trovato il passo di Ponte tetto difeso dai Lucchesi, soggiungendo: che ivi est Auxeris aqua profunda et lata, neque vadabilis . – Il ° e il 5° ponte sull’ Ozzeri diconsi di Salissimo e di Gattajola dalla contrada compresa in quest’ultima parrocchia. Il 6° cavalca il canale fra le chiese di Fagnano e di Meati; finalmente il 7° ponte è sulla strada postale fra Ripafratta e Lucca presso la pieve di Montuolo, già del Flesso ; la quale chiesa innanzi il mille era situata sulla ripa sinistra, e non già, come lo è adesso, sulla destra dell’ Ozzeri . – Vedere MONTUOLO.

    Strade maestre mantenute a carico
    dello stato nel Ducato di Lucca
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    1. Le 4 strade postali che escono dalle 4 porte della città di Lucca sono, la strada Pisana , la strada Pesciatina o Fiorentina, la strada de’ Bagni e la strada Massese o di Genova.
    2. La strada detta delle Tagliate ; per la porzione che gira al largo degli spalti di levante, settentrione e maestro. – Essa staccasi dalla strada postale Pesciatina , passando dalla chiesa di S. Marco, dal luogo denominato ai Giannotti e dal Campo santo per riunirsi alla postale Pisana . Il restante della strada medesima dal lato di ponente e di ostro è a carico della Comunità di Lucca.
    3. La strada traversa di Marlia , che dalla postale Pesciatina conduce alla Regia villa e parco di Marlia.
    4. Altra strada traversa per Marlia , che staccasi da quella postale de’ Bagni e conduce lungo il torrente Fraga alla stessa Regia villa.
    5. Strada dell’ Altopascio , ossia l’antica strada Francesca , che staccasi dalla postale Pesciatina fuori di Porta nuova , e per S. Paolo, Paganico e Turchetto entra nel Granducato al porto dell’Altopascio.
    6. Strada del Tiglio che si parte dalla Francesca , al di là della pieve di S. Paolo, e varcando il Rogio sul Ponte Maggiore passa per la Badia a Sesto, sotto Castel vecchio di Compito, e al Tiglio sul Lago di Bientina, dove sottentra il territorio granducale.
    7. Strada del Monte S. Giuliano . – È l’antica via maestra che esce dalla Porta S. Pietro, per dirigersi a Vaccoli, quindi passa l’ Ozzeri sul Ponte tetto, e di là per Massa pisana sale il monte S. Giuliano, sul cui vertice continua il cammino nel territorio granducale dei Bagni
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    di S. Giuliano.
    8. Strada per Barga e Castelnuovo di Garfagnana. – Staccasi dalla postale de’Bagni di Lucca presso alla confluenza della Lima sul ponte di Chifenti, rasentando la sponda sinistra del Serchio, sino alla confluenza dell’ Ania , dove continua nel territorio granducale sino a Barga. – La strada poi di Castelnuovo traversa il Serchio sul ponte di Calporno, e di là presso il borgo di Gallicano s’incammina a Castelnuovo dello Stato Estense.
    9. Strada da Montramito a Viareggio. – Staccasi a Montramito dalla postale Massese per condurre a Viareggio.
    10. Strada da Montramito alla Regia villa di Stiava . – È un breve tratto di due miglia a grecale di Montramito.
    11. Strada Regia Modanese aperta da Maria Luisa di Borbone nella terza decade del secolo attuale. – Staccasi dalla strada di Barga fra la Lima e la Fegana , e rimonta lungo la ripa sinistra di quest’ultimo torrente sul fiano occidentale del monte Fegatese ; di là trapassando diversi ponti sale per tortuosi giri sino al varco occidentale del Rondinajo , che è il monte più elevato di tutto l’Appennino toscano. Costassù alla foce al Giogo , sottentra il territorio modanese, nel quale la strada scende lungo le prime fonti del fiume Scoltenna per dirigersi a Pieve a Pelago, dove si riunisce alla postale che viene da Bosco lungo dell’Abetone nel Granducato.
    12. Finalmente la strada per Camajore lungo la Freddana , per la fiumana di Nocchi , va ad ampliarsi per la parte di Val di Serchio a carico della Comunità di Lucca, e per la parte della vallecola di Camajore sarà tenuta dallo Stato.
    Una nuova strada, che chiamerò provinciale, perché ampia rotabile e utilissima a più d’una comunità, è quella che sta attualmente per compirsi fra Lucca e Massaciuccoli. La medesima si
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    stacca dalla postale Massese passato il ponte S. Pietro, di là dirigesi sotto il colle di Nozzano, passa per Balbano, e sale i poggi che corrono fra il monte di Quiesa e Castiglioncello, i quali poggi servono di anello di comunicazione fra l’Alpe Apuana ed il Monte Pisano. Di là la stessa strada scende fra le masse di calcarea semigranosa sino all’orlo del lago di Massaciuccoli, dove per via di fosse trasportansi le merci venute di oltremare a Viareggio.
    Fin qui del territorio comutativo, ora della città. – Ogni qual volta si potessero avere dati sicuri, che il lastrico in quest’anno ed anche nei tempi addietro scoperto a quattro e perfino a braccia sei e mezzo sotto le strade attuali della città di Lucca, ogni qualvolta dico quel lastrico fosse appartenuto ad antiche vie, noi avremmo un dato positivo per conchiudere, che il piano più vetusto di Lucca e della circostante pianura era almeno cinque in sei braccia inferiore all’attuale. Alla qual conclusione mi sembra che in parte si prestino le vestigia dell’anfiteatro lucchese: avvegnachè lo zoccolo dei suoi archi esteriori trovasi basato qualche braccio sotto la strada che fiancheggia quell’edifizio eretto nei primi secoli dell’impero romano.
    Primo cerchio delle mura di Lucca. – Tre sono i successivi cerchi delle mura di questa città. – A qual epoca risalga il primo, ignorasi assolutamente; poiché, sebbene qualcuno abbia sospettato essere stata quell’opera eseguita durante l’impero di Probo, e qualcun altro ne abbia fatto autore il re Desiderio, vi sono peraltro migliori ragioni per credere il primo cerchio assai più antico, sia perché Frontino diede a conoscere Lucca munita di mura sino dai tempi della repubblica romana, sia perché non poche vestigia di quel cerchio di costruzione all’etrusca incontraronsi nei secoli ultimi scorsi, ed anche alla nostra età. Infatti delle antiche mura sussistono visibili tracce sul canto del palazzo arcivescovile nella parte volta a scirocco che guarda il bastione di S.
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    Colombano, e sul muro cui si appoggia l’oratorio di S. Maria della Rosa. La qual venerata immagine fu dipinta sulla vecchia muraglia dalla parte esterna della città, nel luogo istesso dove fu costruita nel 1309 quella graziosa chiesina che tuttora vi resta.
    Sono visibili costà grandi massi di pietra calcarea di forma parallelepippeda, scavati dal Monte S. Giuliano. Dei quali massi recentemente se n’estrassero alcuni dalla parete dello stesso oratorio, della grossezza di quattro e più braccia. Attualmente, sopra la muraglia medesima posa la facciata posteriore del palazzo arcivescovile.
    Di altre consimili pietre, cavate in altri luoghi dai fondamenti delle stesse mura, fece testimonianza quasi due secoli indietro il canonico Libertà Moriconi nella sua opera MS delle Antichità di Lucca .
    Dall’oratorio suddetto, dirigendosi in linea retta a settentrione lungo la strada della Rosa, il muro del primo cerchio doveva attraversare la piazza di S. Maria del Presepe , ossia di S. Maria Maggiore, detta Forisportam , per essere stata fabbricata fuori di città insieme colla distrutta chiesa contigua di S. Gervasio. Da quest’ultima prese il nome la porta di S. Gervasio, già romana, per dove esciva la via Francesca , o Romèa . Stanno in appoggio di ciò molti istrumenti dell’ Archivio Arcivescovile Lucchese dal secolo VIII al XII, i quali rammentano la chiesa di S. Maria e S. Gervasio posta juxta murum civitatis Lucae . – E meglio ancora ce lo manifesta altra pergamena dell’anno 1063 dello spedale della Misericordia, in cui si legge: Ecclesiae S. Mariae, quae dicitur Majoris, aedificata extra civitatem Lucensem, prope muros ipsius civitatis, et prope portam, quae dicitur S. Gervasii.
    Continuando l’andamento del primo giro, questo dirigevasi lungo la strada oggi detta dell’ Angelo Custode fino dietro la chiesa di S. Simone, che dal lato della tribuna appoggiavasi al muro della città. Ciò vien provato, fra i molti, da un istrumento del 22 aprile
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    839, col quale il proprietario rinunziò al vescovo di Lucca Ecclesia mea S. Simeonis sita infra hanc civitatem recta muro istius civitatis , etc. ( Mem. Lucch. T. V. P. II.)
    A questo punto pare che terminasse la linea orientale, sicchè voltando faccia da levante a grecale, le vecchie mura della città per una traversa diretta a maestro passavano dal canto oggi detto dell’ Impresa sulla via del Fil lungo, la dove escir doveva dalla Porta settentrionale che prese il nome dal borgo di S. Frediano. Costà il muro piegando alquanto in fuori passava per mezzo alle case Boccella e giungeva a tergo della distrutta chiesa di S. Giovanni in Muro , presso alla quale nel secolo XIV fu eretto il Monastero con la chiesa di S. Agostino.
    In cotesta traversa veniva incluso dentro la città il teatro romano, i di cui ruderi s’incontrano tuttora fra la chiesa di S. Agostino e il convento di S. Maria Cortelandini; mentre l’anfiteatro con le chiese di S. Pietro Somaldi, di S. Pietro Cigoli, di S. Andrea, di S. Micheletto, di S. Frediano, di S. Leonardo e molte altre restavano nei borghi fuori del primo cerchio della città.
    A S. Giovanni in Muro , così detto per esser contiguo alle mura settentrionali, queste voltavano direzione da maestro a libeccio, passando rasenti alla chiesa di S. Tommaso, situata, come dice un documento del 924, infra hanc civitatem et recta muro istius civitatis. – Progredendo di là le mura lasciavano dentro la chiesa e monastero di S. Giorgio, siccome ne avvisano diverse membrane dell’ Archivio Arcivescovile di Lucca dei secoli intorno al mille.
    La linea di fronte a libeccio percorreva da S. Giorgio fino alla così detta Cittadella ; in mezzo al quale tragitto, nel canto corrispondente a un dipresso alla moderna piazza dei Malcontenti , doveva trovarsi la porta occidentale, alquanto
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    più indietro di quella del secondo e del terzo cerchio, cui fu dato il nome di S. Donato da un’antica chiesa che restava fuori della città insieme con quelle di S. Giustina (già S. Salvatore in Brisciano ) di S. Benedetto, ora del Crocifisso dei Bianchi, ed altre.
    Finalmente dal luogo della Cittadella le mura dirigendosi verso levante e grecale arrivavano al palazzo vescovile dopo aver rasentato l’orto, ossia il Brolio della canonica di S. Martino; dalla qual linea restavano esclusi dalla città il monastero di S. Maria del Corso , fondato nel 722, e le chiese ora distrutte di S. Pietro ad Vincula , de’SS. Filippo e Giacomo, di S. Colombano, di S. Silvestro e delle estinte S. Bartolommeo in Silice .
    In mezzo a quest’ultimo lato trovavasi la porta S. Pietro, presso cui sino dall’anno 720 fu eretta la chiesa di S. Silvestro e l’annesso ospedale per alloggiarvi e nutrirvi i pellegrini. – ( Memor. Lucch. T. V. P. II.)
    A poca distanza dalla porta S. Pietro esisteva una porticciuola, che nel secolo XI dicevasi postierla di Leone Giudice , ossia che costà fossero le case di quel ricco magnate lucchese, o perché da tale postierla esciva la strada maestra che guida in linea retta a S. Maria di Leone Giudice , e di là per il Monte S. Giuliano a Pisa. Forse era la porticciuola stessa che innanzi l’epoca di Leone appellavasi Posterula Maggiore , della quale è fatta menzione in un documento degli 11 gennajo dell’anno ( ERRATA : 951) 851. ( Memor. cit. T. IV. P. II).
    A confermare l’andamento del testè designato perimetro del primo cerchio di Lucca giovano varie scritture anteriori all’epoca del secondo giro della stessa città, molte delle quali furono già, o stanno per pubblicarsi, mercè l’operosità degli
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    accademici lucchesi, nelle Memorie per servire alla storia della loro patria.
    Inoltre lo dà in qualche modo a divedere un rituale della cattedrale di Lucca scritto nel 1230, in cui trovasi registrato il giro che nel secolo XII facevano le processioni di quel capitolo nei tre giorni delle rogazioni, passando fuori o d’appresso al primo e secondo cerchio della città, nello stesso modo che un egual uso conservano sempre altre città della Toscana, segnatamente Firenze e Pistoja.
    Dal citato scrittore Moriconi, e più modernamente dal Diario Sacro delle chiese di Lucca, ristampato nel 1836, si rammenta il giro che allora faceva quell’itinerario sacro, il quale giova al mio scopo, perché qui ne dia un breve sunto.
    “Il primo giorno delle rogazioni la processione esciva dalla porta orientale della città per recarsi alla chiesa di S. Maria Maggiore (cioè di Forisportam ), di là a S. Pietro Somaldi, poi a S. Frediano, quindi a S. Giustina e a S. Donato e finalmente a S. Ponziano, dopo di che rientrava in città e nella chiesa di S. Reparata finiva con la messa cantata”.
    “Il secondo giorno il clero partiva dalla cattedrale per recarsi a S. Dalmazio, poscia esciva dalla città per porta S. Pietro e andava a S. Silvestro e a S. Colombano, e di là alla chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, dipoi a S. Bartolommeo in Silice , dove faceva stazione e predica; finalmente visitava la chiesa di S. Michele di Borghicciuolo (ora S. Micheletto) e rientrava in città per la porta S. Gervasio”.
    “Il terzo giorno la processione partendo dalla cattedrale esciva dalla città per la porta S. Pietro, dove visitava la chiesa di S. Pietro Maggiore e quella di S. Maria ( del Corso ), indi l’altra di S. Romano e di S. Benedetto; di poi rientrava in città ( dalla porta S. Donato ) per visitare la chiesa di S. Giorgio, poscia quella di S.
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    Alessandro Maggiore e di S. Michele in Foro , dalla quale recavasi alla Corte del Re (S. Maria in Palazzo) dove faceva stazione epredica, finalmente, data la benedizione, ritornava alla cattedrale”.
    Secondo cerchio di Lucca. – Col secondo cerchio delle mura restarono rinchiuse nella città diversi subborghi, varie strade e case che avvicinavano il primo giro, massimamente dalla parte di oriente e di grecale. La popolazione di cotesti subborghi dopo il secolo XII costituiva nel regime della repubblica una sezione della città, designata col titolo di Quartiere dei Borghi , e conseguentemente diversa dall’altra denominata dalla Porta S. Frediano , ossia del Borgo . – Vedere qui a pag. 845 e segg.
    È opinione che il secondo cerchio di Lucca venisse decretato dal governo nell’anno 1200, e che restasse terminato nel 1260, comecchè vi siano documenti di data anteriore confacenti a dimostrare, che fino dal 1095 si era presa qualche misura per mettere in più largo cerchio la città, siccome fra gli altri lo dà a conoscere un istrumento dell’Archivio de’canonici di S. Martino dell’anno 1095, nel quale si parla di un orto presso S. Colombano e S. Alessandro (detto poi S. Alessandretto), il quale orto confinava con una via, quae est juxta murum veteris civitatis.
    Comunque sia, l’annalista Tolomeo ne avvisò, che all’anno 1184 Alcherio di Pagano , allora console di Lucca, fece escavare i fossi attorno alla città, dicendo, che sotto di lui costruironsi le carbonaje .
    Già poco sopra, a pagina 845, fu accennato un diploma dell’anno 1209 da Ottone IV concesso ai Lucchesi, nel quale si rammenta, non solo il muro vecchio , ma anche il nuovo della città di Lucca.
    Dovendo pertanto rintracciare il giro del secondo cerchio, sembra che esso dal lato di scirocco, a incominciare dal luogo ora detto
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    la Scesa di piaggia , s’indirizzasse lungo la strada, che vien percorsa dal fosso, dirigendosi contr’acqua da ostro a settentrione quasi in linea retta fino al luogo detto la Fratta : costà dove nel secolo trapassato fu innalzata in mezzo ad una crociata di strade la colonna della Madonna dello Stellario . Questa porzione di mura non può realmente contare un’età più antica del secolo XIII; e lo prova fra i molti un contratto del 1197 dell’archivio di S. Maria Forisportam , ora nella biblioteca di S. Frediano in cui si legge: Actum extra muros civitatis, videlicet in ecclesia S. Mariae Forisportam , sicchè alla fine del secolo XII la chiesa di S. Maria Maggiore, oggi detta S. Maria Bianca , era sempre fuori di città. – Esiste tuttora la grandiosa porta di S. Gervasio, attualmente appellata il portone dei Servi, oppure il portone dell’Annunziata da una chiesa contigua di tal titolo; la qual porta, oltre l’incassatura fatta per la Sanacinesca , trovasi in mezzo a due torrioni circolari, tutti da capo a fondo lavorati con mirabile arte di pietra squadrata, nella guisa appunto che essi con la porta medesima furono descritti da Ciriaco Anconitano, quando nell’anno 1442 passò da Lucca. Ecco le sue parole: Vidimus praeterea in praefata egregia civitate Lucana moenia ex vivo lapide circum noviter recensita conspicua arte elaborata, sed aliqua ex parte vetustatum vestigia nonnulla videntur, et inter potiora portam duabus rotundis turribus insignem vivis ex lapidibus mirifice instructam; et hinc inde ab utraque summitatis listarum parte leonem marmoreum habentem; quam vero portam Romanam antiqui vocarunt indigenae, nunc vero S. Gervasii nomine incertum vulgus appellat; etc. (CYRIACI ANCON. Commentar. Nova Fragmenta. )
    Proseguendo il giro del secondo cerchio, coteste mura da settentrione a maestro dirigevansi verso il borgo S. Leonardo, il quale insieme con la sua chiesa, allora in Capite Burg
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    i, restava escluso dalla città, mentre venivano dal cerchio medesimo rinchiuse le chiese di S. Maria Forisportam , di S. Pietro Somaldi, di S. Pier Cigoli, di S. Bartolommeo in Silice , di S. Micheletto, e di S. Andrea, detta allora in Pelleria , perché in quella contrada vi erano le conce delle pelli, e vi passava quel fosso che in tempi più antichi attraversò la città per i luoghi di sopra indicati. – Esisteva probabilmente da questo lato la postierla che si disse di Pagano , forse dal padre del console che nel 1184 edificò le carbonaje , di cui si è fatta testè menzione. – Il Moriconi in appoggio di essa postierla cita, senza data, un istrumento dell’archivio dei canonici di S. Martino, segnato (NN. 102) con la seguente indicazione: Domus juxta posterulam, quae dicitur Pagani, in contrata S. Petri Cigoli: tenet unum latus in muro civitatis, etc.
    Continuando l’andamento del secondo giro della città, sembra che al principio del borgo di S. Leonardo il muro dovesse piegare da maestro a ponente, e voltasse faccia a settentrione. In questa linea fu aperta la nuova porta di S. Frediano, che vedesi tuttora nel così detto Portone dei Borghi , difesa, come l’altra di S. Gervasio, da due torrioni. Se non che questa di S. Frediano ha doppio ingresso, i cui archi tuttora sussistono della forma rotonda e costruiti di pietra concia. Se non che i torrioni del Portone dei Borghi sono stati mozzati e in gran parte nascosti fra le adiacenti abitazioni. Nella facciata esteriore di questa, come dall’altra porta S. Gervasio, trovasi murato l’emblema della Redenzione, in forma di croce quadra di marmo bianco in campo di pietra nera.
    Dal Portone dei Borghi le mura proseguivano verso ponente-libeccio fra il bastione attuale di S. Frediano e la chiesa di S.
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    Agostino. E qui giova avvertire, che nel muro del terzo cerchio, posto fra la porta di Borgo e il bastione di S. Frediano, avvi una porta murata costruita non già di mattoni, né a sdrajo come sono i muri del terzo cerchio, ma di pietra squadrata simile alle muraglia del secondo cerchio, cioè a quelle mura conspicua arte elaborata , che Ciriaco Anconitano all’anno 1442 disse, noviter recensita . Sarebbe mai questo tratto del muro del secondo cerchio conservato per cortina nella riedificazione del terzo giro della città? Niuno altronde, ch’io sappia, parlò della porta ivi murata, seppure non fu questa una postierla. Certo è che all’estremità del borgo S. Frediano presso le mura del secondo cerchio passava il Serchio, dove fu un ponte e uno spedale per i pellegrini, chiamato di S. Giovanni in Capo di Borgo , per essere appartenuto alla distrutta chiesa di S. Giovanni in Muro , manuale di quella di S. Frediano. Infatti un contratto dell’archivio di S. Frediano del dì 8 dicembre 1260, segnato (B. 65. Arca 2.) tratta di un livello perpetuo fatto da un canonico rettore della chiesa e spedale di S. Giovanni de Capite Pontis , col consenso del priore e capitolo di S. Frediano, a fovore di un tal Luparello abitante in detta contrada di Capo di Borgo fuori della porta , per cui il rettore concede al fittuario per l’annuo canone di soldi 22 lucchesi un orto posto presso i nuovi muri di Lucca, vicino al ponte della porta di Borgo S. Frediano.
    A S. Giovanni in Muro il secondo recinto della città dubito che andasse parallelo ai bastioni attuali fino presso alla porta. S. Donato, nel quale tragitto includeva in città la chiesa col monastero di S. Giustina, e quella di S. Benedetto, ora detto il Crocifisso de’Bianchi .
    Costà le mura dirigendosi a scirocco
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    passavano fra la porta attuale di S. Donato e quella del primo cerchio, la quale si doveva trovare in capo alla via di S. Paolino. – A sinistra della porta medesima il muro, rasentando d’appresso la chiesa di S. Luca e lo spedale della Misericordia, lasciava fuori di città il prato del Marchese , ossia del corso, per arrivare alla così detta Cittadella , dove voltando faccia a ostro dirigevasi verso levante sino al bastione di S. Colombano, dietro il palazzo vescovile. – In questo lungo tragitto, di fronte a libeccio e ostro esistevano oltre le porte di S. Donato e di S. Pietro alcune postierle, per le quali, a forma delli statuti antichi di Lucca (Lib. ultimo, cap. 55.) non era permesso il passaggio ai carri. Da questo lato il secondo cerchio rinchiuse in città le chiese di S. Romano, di S. Maria del Corso, di S. Alessandro, ossia di S. Alessandretto insieme con l’annesso ospizio, ed altre antiche chiese state fino allora suburbane.
    Terzo cerchio delle mura di Lucca. – Il terzo e l’attuale più grandioso giro delle mura di Lucca fu decretato nell’anno 1504, dalla repubblica, che vi fece lavorare dalla parte di levante e di mezzodì sino al 1544. Per altro fattisi accorti, che quel modo di costruire i bastioni circolari e le mura forse con poca scarpa, non era il più confacente a ridurre Lucca, come si voleva, una piazza forte, gli Anziani affidarono l’esecuzione ad altri ingegneri, fra i quali meritossi maggior lode Vincenzio Civitali.
    Questa grandiosa opera non restò compita intieramente prima dell’anno 1645, madiante la spesa di scudi 995,162, pari a 5,510,550 franchi, senza contare il valore di 120 grossi cannoni di bronzo che guarnivano gli 11 bastioni dai quali è difesa la città. – Le mura dalla parte che guardano la città sono fornite di larghi terrapieni, lungo i quali campeggia una spaziosa strada carrozzabile. È questa via fiancheggiata
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    dal lato della campagna da un comodo marciapiede, mentre dalla parte esterna le mura sono difese da opere avanzate contornate da fossi e da terrapieni. A questi fa corona da ogni lato una libera e aperta pianura sino alla distanza di circa 750 braccia, chiamata la Tagliata , per la ragione che in quello spazio è vietato piantare alberi di sorta alcuna. Da questo punto bella e variata offresi la prospettiva della coltivatissima campagna intorno a Lucca, contornata da colline, da poggi e da monti sparsi di ville signorili, di paesetti, di chiese, di torri e di borgate. Il passeggio sopra le mura non è tampoco interrotto dalle porte della città, poiché l’ampia strada vi passa sopra pianeggiante lungo tutto il giro della città che misura 7100 braccia lucchesi, pari a metri 4192,55.
    La superficie del suolo occupata dal fabbricato di Lucca, compreso il giro esterno delle mura e delle fortificazioni degli spalti, corrisponde a coltre lucchesi quadre 481,3, equivalenti a quadrati fiorentini 566,6, ossiano a undici sedicesimi di miglia toscane quadrate.
    In questo terzo cerchio di Lucca esistevano tre sole porte, (Porta al Borgo, Porta S. Donato e Porta S. Pietro) innanzi che dirimpetto a una magnifica, veramente strada regia, fosse aperta la Porta Nuova , o di S. Croce , già detta Elisa , perché questa principessa la ordinò nel 1806.
    Da cotesta Porta nuova , volta a levante, esce l’ampia strada postale Pesciatina fiancheggiata da doppio marciapiede e difesa da quadrupla linea di alberi. – Dalla Porta al Borgo , detta anche S. Maria , esce la strada nuova dei Bagni e di Barga; dalla Porta S. Donato , escono le strade postali di Pisa e di Genova; e dalla Porta S. Pietro parte la strada vecchia del Monte di S. Giuliano.

    EDIFIZJ E STABILIMENTI PUBBLICI
    DELLA CITTA’ DI LUCCA
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    /> Chiese più grandiose e più celebri della città. – Quantunque sussistino molti documenti scritti innanzi al mille, nei quali si rammentano fra le molte chiese alcune delle più insigni tuttora esistenti in Lucca, se debbasi eccettuare la cattedrale di S. Martino, e dirò anche la chiesa di S. Frediano, non sembra che le altre fossero di quella dimensione e struttura architettonica che dopo il secolo X hanno acquistato; tanto più che poche di esse prima di quel tempo furono da più di un prete, o da più d’una persona ecclesiastica dirette e governate.
    Che la chiesa, ora insigne collegiata di S. Michele in Piazza , nel secolo IX fosse poco più di un oratorio, lo danno a divedere le carte state recentemente pubblicate nelle Memor. Lucch. T. IV. e T. V. P. II. e III; alle quali aggiungere si può quel poco che fu accennato qui sopra alla pagina 825. – Fu bensì dopo il mille che si riunirono nella chiesa di S. Michele in Piazza alcuni preti per vivere canonicamente, finchè poi vi passarono i monaci Benedettini; per opera dei quali nell’anno 1142 quel tempio si restaurò, e forse allora fu nella grandezza e forma attuale riedificato.
    Realmente la facciata trovasi eseguita per la massima parte nell’anno 1188, per opera dell’architetto Guidetto, autore di quella cattedrale. Il second’ordine però delle colonnette dal lato sinistro della facciata è un’aggiunta fatta nel 1377. Il campanile, e gli ornati dalla parte volta a levante, al pari che l’esterna tribuna dal lato di settentrione, contano l’epoca della signoria, di Paolo Guinigi, per ordine del quale furono fatti. – ( Vedere DIARIO SACRO delle chiese di Lucca, di Mons. Mansi, accresciuto dal Barsocchini . – GUIDA di Lucca del Mazzarosa ).
    Della chiesa di S. Maria Forisportam si hanno notizie fino dall’anno 788 nelle carte dell’Archivio
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    Arcivescovile ed anche da altri archivii; due delle quali, del 7 marzo 844 e del 31 dicembre 854, sono state pubblicate nel supplemento al T. IV delle più volte citate Memorie lucchesi. Perocchè da quei documenti chiaro apparisce, che le chiese riunite di S. Maria e S. Gervasio, quae sitae sunt prope murum istius civitatis lucense : o come dice l’altro istrumento, foras civitate ista lucense prope portam S. Gervasii , quelle chiese cioè che rispondono a S. Maria Forisportam , non erano altro che meri oratorii dal vescovo concessi in benefizio a un ecclesiastico, cui era ingiunto l’obbligo d’uffiziarli, di tenervi il lume giorno e notte, e di pagare ogn’anno 90 denari alla mensa vescovile, più qualch’altro tributo ivi specificato.
    Anche nell’anno 900 la chiesa medesima di S. Maria e SS. Gervasio e Protasio, situata foras civitate ista Lucense , fu concessa in benefizio da Pietro vescovo di Lucca per l’annuo censo di 20 denari d’argento (loc. cit.). Appella alla stessa chiesa di Forisportam un calendario della cattedrale di S. Martino, scritto innanzi la prima metà del secolo XIII, nel quale si racconta, ch’essa sul declinare del secolo VIII era già rovinata, mentre, trattandosi ivi del vescovo Jacopo che presedè alla chiesa lucchese sul principiare del secolo IX, si dice, che egli ricostruì questa chiesa di Forisportam tutta di materiale, la quale innanzi era una chiesupola: quae nuper diruta fuerat, ei cum columnis ligneis (episcopus Jacopus) ipsum altare fecit, nec officium, nec luminaria, nisi tantum in die dominicae aestivo tempore missa celebratur. Modo numero… sacerdotes ibidem diurno et nocturno officium plenum peragunt sicut in ecclesia S. Martini, etc.
    Infatti in un libro di contratti dell’Archivio capitolare di S. Martino esiste un istrumento del 1230, in cui si rammenta il prete Orlando Maestro di scuola e Canonico di S. Maria Forisportam . (MEMOR. LUCCH.
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    T. IX. pag. 21).
    Del luogo dove fu la distrutta chiesa di S. Gervasio ne dà notizia un istrumento del 22 giugno 1034, col quale Giovanni II vescovo di Lucca allivellò fundamentum illud, ubi jam fuit ecclesia SS. Gervasii et Protasii, quod est posito et fundato foris hanc urbem Lucae prope ecclesiam S. Mariae et prope Portam, quae dicitur S. Gervasii. – (BERTINI, Memor. Lucch. T. IV. P. II.)
    Cattedrale di S. Martino. – Troppe memorie confermano a cotesto chiesa matrice l’onorificenza fra le più antiche cattedrali dell’Italia, comecchè il bel tempio attuale sia stato riedificato in dimensioni assai più grandiose dal vescovo Anselmo di Badagio, mentre egli sedeva contemporaneamente nella cattedra di S. Pietro sotto nome di Alessandro II; e fu lo stesso Pontefice che, ai 6 ottobre del 1070, la cattedrale medesima solennemente consacrò. In quella occasione fu collocato il simulacro del Volto Santo nella cappella, in cui attualmente si trova. Questa elegante cappella in forma di tempietto ottagono venne rifatta nel 1484 col disegno e direzione del Fidia lucchese, voglio dire di Matteo Civitali, ch’è pure l’autore della bellissima statua di S. Sebastiano nella nicchia esterna dietro l’altare del Volto Santo. – La facciata esteriore del duomo fu eseguita nel 1204 dall’architetto Guidetto, da quello stesso che nel 1188 diresse l’architettura della facciata di S. Michele in piazza. – Gli ornamenti dell’atrio sopra la porta minore, a sinistra entrando nel duomo di S. Martino, sono del celebre Niccola Pisano.
    Questo grandioso tempio, della prima maniera così detta gotica, è a tre navate divise da nove grandi archi per parte; otto de’quali a mezzo-tondo; ma l’ultimo di essi, che arriva alla tribuna, essendo a sesto acuto fece dubitare essere stata un’aggiunta fatta nel principio del secolo XIV. La lunghezza interna della maggior navata è di braccia lucchesi 140,4; la larghezza di braccia 44,5; la crociata braccia 61,2, e l’altezza della nave di mezzo braccia 45,3. –
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    Nella navata maggiore è praticato un second’ordine di archi in numero doppio di quelli del primo ordine, figurati da altrettanti finestroni in due gallerie che percorrono tutta la chiesa sino alla tribuna. Ciascuno di cotesti archi è suddiviso da due sottili colonnette gotiche che sostengono degli ornati traforati in archivolto di sesto semi-acuto.
    L’edifizio al di fuori è tutto incrostato di marmo del vicino Monte Pisano, e nell’insieme presenta all’occhio un’armonia e regolarità che per il tempo in cui fu fatto può dirsi portentosa.
    La cattedrale lucchese abbonda di belle opere di scultura, di pittura e di orificeria. All’altare del Volto Santo esistono preziosi lavori di cesello in argento dorato; così in sagrestia, dove si custodisce una croce d’argento dorato dal peso di libbre 30, della la Croce dei Pisani , lavoro del secolo XIV assai delicato, e ricco di figurine. Nell’altare della stessa sagrestia havvi una bella tavola di Domenico Ghirlandajo, ed in una stanza contigua va visitato il sarcofago d’Ilaria del Carretto, moglie di Paolo Guinigi, per essere un pregiato lavoro d’Jacopo della Quercia.
    Dentro alla chiesa poi si ammira sopra tutte le opere di scalpello il monumento sepolcrale di Pietro da Noceto, e vicino a questo il ritratto parlante di Domenico Bertini mecenate dell’artefice insigne, Matteo Civitali, cui si debbono eziandio i bassorilievi del pulpito, li due angeletti di marmo al tabernacolo del Sacramento, e le tre statue coi basso-rilievi nell’altare di S. Regolo, mentre le figure scolpite a Cornu Evangelii sull’altare della Libertà sono lavorate da Giovan Bologna.
    Rapporto agli oggetti di pittura, trovasi di fronte al sarcofago di Pietro da Noceto una tavola di Fra Bartolommeo della Porta rappresentante la Beata Vergine, opera delle più pregiate di quell’insigne pittore, fatta nel 1509, e contornata da pilastri di marmo scolpiti ad ornato dallo stesso Civitali. Agli altari delle navate una Visitazione, d’Jacopo Ligozzi; la Presentazione al tempio, di Alessandro Allori; la Cena del Signore, del Tintoretto; la Crocifissione e
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    la Natività, due tele del Passignano, l’Adorazione dei Magi, di Federigo Zuccari, e una bella Resurrezione, del vivente Michele Ridolfi lucchese.
    In quanto alla fabbrica della contigua canonica, essa conta la sua prima fondazione sotto il vescovo Giovanni II, il quale nell’anno 1048 prescrisse al clero della sua cattedrale la vita comune secondo le regole canoniche, per cui concedè al capitolo di S. Martino un pezzo di terreno con casa contigua alla cattedrale e all’episcopio; al quale dono fu da Alessandro II, nel 1063, aggiunto un altro pezzo di terra posto presso la stessa cattedrale. ( Memor. Lucch. T. IV. P. II.)
    Chiesa di S. Frediano. – Èdopo la cattedrale una delle più antiche e più vaste chiese di Lucca, giacchè la sua prima riedificazione rimonta all’anno 685, sebbene vi sia da dubitare che non fosse tale come ora la si vede. Ciò nonostante essa è stata segnalata per un’opera dei tempi longobardici, e quasi la sola chiesa che sia rimasta in Italia di quell’epoca la meno alterata nell’interno; qualora si eccettuino le cappelle in fondo alla chiesa, e il presbitero visibilmente rialzato sopra il gradino posto verso la metà della navata maggiore, e del quale abbiamo consimili in S. Croce, ed in S. Maria Novella di Firenze ec.
    Già da qualche tempo esisteva la chiesa dei SS. Lorenzo, Vincenzio e Stefano Martiri nella quale sul declinare del sesto secolo fu sepolto il corpo del santo vescovo Frediano, quando la stessa chiesa nel 685 fu riedificata da Faulone, creduto maggiordomo del re Cuniberto, e da esso lui dotata e assegnata a Babbino abate ed ai suoi monaci, lo che indica esservi stato fino d’allora costà presso un monastero di claustrali. Infatti nell’anno stesso Felice vescovo di Lucca diè facoltà a quei monaci di vivere conventualmente, e di amministrare la loro chiesa, promettendo ai medesimi di non assegnare ad altro luogo pio alcuna parte della pecunia e dei beni che
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    Faulone aveva donati alla stessa chiesa, e di lasciare all’arbitrio di quei claustrali la nomina dell’abate, dopo che fosse per mancare il vivente abate Babbino.
    Questa famiglia religiosa alla metà del secolo VIII doveva esistere in credito, tostochè Walfredo nella fondazione della badia di S. Pietro a Monte-verdi nell’anno 754, nominò fra gli altri l’abate della chiesa di S. Frediano di Lucca, ubi et ejus corpus quiescit humatum . Bensì nel secolo IX, alcuni testimoni esaminati nell’838 deposero che la chiesa di S. Frediano molto innanzi quel tempo era stata data in benefizio dal vescovo Giovanni al di lui fratello Jacopo; il quale appena fatto vescovo, nell’anno 801, rinunziò il benefizio della chiesa medesima in favore di un prete e di un diacono, cui diede ancora facoltà di amministrare il di lei patrimonio.
    Anche nel secolo X, e segnatamente nell’anno 923, con istrumento del 5 settembre, il vescovo Pietro ordinò il prete Willerado rettore della chiesa di S. Frediano; ut in tua (egli dice) sit protestate una cum secretario, seu subdito, et casis recta ipsa ecclesia, et prope eandem ecclesiam cum edificiis suis, seu curte et orto, etc. (MEMOR. LUCCH. Tomo IV. P. II. e T. V. P. II. e III.).
    In conclusione, fino all’epoca del 923 si parla di S. Frediano come di una chiesa semplice, senza dichiararla parrocchiale, e molto meno battesimale. All’onore per altro di parrocchia plebana era stata innalzata, quando con atto pubblico del 2 dicembre, nell’anno 1042, il vescovo di Lucca Giovanni II ordinò il chierico Benedetto e lo investì della chiesa battesimale de’SS. Vincenzio, Frediano, Stefano e Lorenzo, la qual chiesa, (dice il testo) est aedificata foris civitatem istam lucensem prope fluvio Serclo. (loc. cit.).
    Posto adunque ciò, converrebbe credere che non prima del secolo XI la chiesa di S. Frediano divenisse pieve, e conseguentemente, che l’uso in essa introdotto della benedizione del fonte nel sabato santo
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    della Pentecoste non contasse un’epoca molto più antica dell’accennata.
    Alla qual funzione della benedizione del S. fonte appella un privilegio di Pasquale II del 24 maggio 1106 in aumento di altra bolla dello stesso pontefice, data in Laterano il 28 ottobre del 1105, quando egli, ad istanza di Rotone preposto e pievano di S. Frediano, instituì in mezzo a quella famiglia di preti e curati una nuova congregazione regolare di canonici, denominati poi Lateranensi di S. Frediano . Comecchè sia, allora fu che il priore della nuova canonica si diede a riedificare in più ampia forma la sua chiesa, siccome venne registrato in un’antica scrittura di quell’archivio, ora smarrita. – Tale poi era l’impegno del Pontefice Pasquale II nel favorire cotesto istituto, che molte lettere su di ciò furono pubblicate nel Tomo IV delle Miscellanee del Baluzio raccolte dall’erudito vescovo Gio. Domenico Mansi; alcune delle quali leggonsi dirette al vescovo ed ai canonici dalla cattedrale di Lucca invitandoli a mostrarsi più propensi verso i canonici di S. Frediano.
    Infatti mancato di vita il priore Rotone, e poco dopo anche il Pontefice Pasquale II, la congregazione agostiniana di S. Frediano, o per scandali eccitati, o per insistente persecuzione, come disse il Pontefice Callisto II, restò per poco tempo soppressa, finchè sotto il priore Attone successore di Rotone dallo stesso Pontefice Callisto II venne ripristinata. D’allora in poi crebbe in fama quell’ordine di canonici regolari tanto, che sotto i Papi Innocenzo II ed Eugenio III riescì loro di ottenere dal vescovo di Lucca la chiesa di S. Salvatore in Mustiolo con le chiese ed eremi di S. Antonio e di S. Giuliano, e poscia il convento di S. Pantaleone nel Monte pisano; dal vescovo di Luni la pieve di Carrara; da quello di Siena la chiesa di S. Martino, e dal Pontefice Adriano IV il Monastero di S. Maria di Bagno in Romagna.
    Non deve perciò far maraviglia, se in tanta prosperità
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    di quei claustrali venne con maggiore lustro restaurata o rifatta la chiesa di S. Salvatore in Mustiolo ; di che può far fede un bassorilievo sull’architrave della porta di fianco scolpito da quel Beduino, che lavorò nell’anno 1180 alla chiesa di S. Casciano presso Pisa; e ritengo ancora che da essi fosse rifatto la chiesa di S. Frediano, il cui altare, per attestato del Pontefice Alessandro III, consacrò Eugenio III alla presenza di Gregorio vescovo di Lucca. (BALUZI, Op. cit. )
    Questo tempio è a tre navate, la maggiore delle quali è lunga braccia 107 lucchesi; larga nella crociata braccia 36,7; e alta braccia 35,8. La nave di mezzo ha 12 archi per parte a intiero sesto, sostenuti da colonne di marmi diversi, e alcune diseguali per l’altezza, con capitelli e basi di antico stile, tutte sproporzionate rispetto alla mole ed all’altezza del muro che sorreggono. – Danno luce alla stessa navata delle finestre a strombo, divise da un colonnina di marmo, alla maniera usata nei primi secoli dopo il mille.
    Vi si vede tuttora una gran vasca marmorea che serviva pel battistero d’immersione, nella quale sono scolpite varie storie del testamento vecchio, e sull’orlo superiore il nome di chi la fece, cioè Robertus magister la… , forse uno scultore del secolo XII o XIII. Il moderno battistero è di Nicolao Civitali, nipote dell’egregio Matteo.
    Fra le altre opere di scultura esistono in questa chiesa alcune figurine ad alto rilievo sull’altare del Sacramento, e due statue sopra i sepolcri della stessa cappella, lavori creduti dei meno pregiati di Jacopo della Quercia.
    Assai più pregevole bensì è il sarcofago che l’amicizia ha di corto innalzato in S. Frediano al defunto letterato lucchese Lazzaro Papi, scultura esprimentissima del fiorentino Luigi Pampaloni.
    Non spenderò parole sopra molte altre chiese di antica età e fattura, come quelle di S. Alessandro, di S. Pietro Somaldi, di S. Giovanni, di S.
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    Pier Cigoli, ossia del Carmine, di S. Maria in Corte-Landini, di S. Cristofano ec. Non dirò quelle più vaste erette in Lucca nel XIV e XV secolo, come a S. Agostino e a S. Francesco; non dell’altra di S. Paolino innalzata nel secolo XVI col disegno di Baccio da Montelupo; né finalmente parlerò della chiesa di S. Romano rifatta nel secolo XVII, giacchè ognuno che il voglia può trovare assai meglio che io nol potrei materia da soddisfare alle sue indagini nelle Guide di Lucca , che da due nobili ed eruditi lucchesi, Tommaso Trenta nel 1820, e Antonio Mazzarosa nel 1829, hanno pubblicato. Dirò solamente, che, fra le tavole pittoriche più segnalate, di che sono adorni i tempii di Lucca, non si può ammirare tanto che basta il capo d’opera di Fra Bartolommeo della Porta nella chiesa di S. Romano che dipinse per questa chiesa un altro meno celebre quadro.
    Secondo per merito possono dirsi due tavole di Guido Reni in S. Maria Corte-Landini, l’Assunta del lucchese Zacchia il vecchio in S. Agostino; al qual pittore spettano pure altre due tavole a S. Salvatore in Mustiolo , e a S. Pietro Somaldi. In quest’ultima chiesa esiste anche una tavola di Palma il vecchio; due del Guercino sono in S. Maria Forisportam , e un’altr’Assunta del nominato Zacchia sta in S. Francesco, per tralasciare di altri quadri di buoni artisti posteriori al secolo XVI.
    Palazzo Ducale. – Innanzi di lasciare i monumenti di belle arti incombe di rammentare l’antica residenza del Gonfaloniere e dei Signori della repubblica lucchese, attualmente reggia ducale.
    Ebbe principio questo palazzo nel 1578 col disegno e direzione del celebre Bartolommeo Ammannato, cui appartiene il portico interno e l’esterna facciata, a partire dal lato meridionale sino alla gran porta d’ingresso. Tutto il restante della facciata davanti alla piazza, e quella laterale volta a settentrione, restò terminato verso l’anno 1729 dall’architetto lucchese Francesco Pini secondo il
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    disegno, sebbene alquanto alterato, del primo autore.
    Quantunque il palazzo nello stato attuale, fornito di due grandi atrii, comparisca grandioso, e sia divenuto uno dei più comodi e dei più confacenti a un a reggia, pure esso è un buon terzo minore di quello in origine ideato dall’Ammannato.
    La principale facciata doveva esser voltata a mezzogiorno, ed è quella parte che si trova nell’interno del secondo cortile, cui doveva servire di adornamento un portico simile al primo atrio. Fra questi due è stato aperto un magnifico peristilio di colonne doriche della pietra di Guamo ( Selagite ) esso dà l’accesso ad una grandiosa scala con gradini di marmo bianco carrarese di sei braccia, tutti di un pezzo. Tale opera fu eseguita, per ordine della duchessa Maria Luisa di Borbone, dall’architetto lucchese Lorenzo Nottolini.
    Da questa scala veramente regia si sale agli appartamenti nobili, i quali furono riccamente addobbati di drapperie e mobilie, quasi tutte ordinate e lavorate da fabbricanti e manifattori lucchesi.
    Ciò che più importa di esser veduto è la galleria dei quadri per le opere di autori di primo ordine. Citerò fra questi la Madonna de’Candelabri, di Raffaello; una tavola della Beata Vergine con S. Anna e quattro Santi, ch’era in S. Frediano, dipinta dal Francia; una Vergine col bambino, di Leonardo da Vinci; una piccola tavola di S. Giovanbattista fanciullo, colorita dal Coreggio; un’altra rappresentante Cristo in croce con la Vergine e S. Giovanni, di Michel Angelo Buonarroti; la Strage degl’Innocenti, di Niccolò Poussin , una S. Cecilia, mezza figura in tela, di Guido Reni, e una S. Apollonia dipinta sul rame, dello stesso Guido; un Noli me tangere , del Barocci; una mezza figura della Vergine, del Sassoferrato; un quadro della S. Casa di Loreto, del Domenichino; un Cristo davanti al giudice, di Gherardo delle Notti; tre quadri in tela rappresentanti tre miracoli di Gesù Cristo, dipinti dai tre Caracci ec.
    Fra le tele moderne
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    ivi figurano il Camuccini di Roma, il Landi di Piacenza, il Nocchi, il Giovannelli ed il Ridolfi, tre egregii pittori lucchesi del nostro secolo.
    Non parlo dell’antico palazzo pubblico di S. Michele in piazza, da dove sino dal secolo XVIII si traslocò in questo ducale la Signoria di Lucca. Dirò una parola sull’altro edifizio o palazzo de’tribunali, perchè richiama alla memoria il secondo magistrato della repubblica lucchese. Tale è il palazzo pretorio, già residenza del potestà ora dei tribunali, situato nella piazza di S. Michele; la cui fabbrica, incominciata nel secolo XV e terminata al principio del XVI, presenta uno stile che sembra della scuola dell’Orcagna, tra il gotico italico e il gusto moderno. – Essa in gran parte si regge sopra una loggia che ha dirimpetto alla piazza tre arcate a sesto intero, mentre un solo arco trovasi dal lato della strada, per la quale si và al palazzo ducale.
    In quanto all’edifizio della zecca non ne resta più indizio alcuno, essendo già scorsi molti secoli dalla distruzione di quello che servì per simile uso al tempo de’Longobardi. Essendo che la zecca lucchese, la quale, come già fu avvertito alla pagina 823, era la più accreditata per la bassa Italia, nei secoli intorno al mille esisteva presso la chiesa di S. Giusto, siccome ne avvisa fra le altre una carta dell’ Archivio Arcivescovile Lucchese dell’anno 1040, ed un istrumento scritto li 15 giugno dell’anno 1068, presso al monastero di S. Ponziano, allora fuori di Lucca. Trattasi in esso dell’affitto di una casa di proprietà della badia di Poggibonsi; la qual casa si dichiara situata dentro la città di Lucca in vicinanza della chiesa di S. Giusto prope Monetam , etc. – (ARCH. DIPL. FIOR. Carte dello Spedale di Bonifazio ).
    Assai tardi la fabbrica della zecca lucchese fu eretta dove attualmente si trova, cioè, nella via del Fosso fra la porta S.
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    Pietro e quella di S. Donato.
    Tra le fabbriche destinate all’uso pubblico deve rammentarsi la Torre , che appellasi delle Ore , perché sopra di essa è collocato uno dei più antichi orologi a peso. Fu deliberato questo meccanismo con provvisione del giugno anno 1391, e ne fu commessa l’esecuzione all’artefice lucchese Labruccio Cerotti con l’obbligo di compiere quel lavoro dentro il mese di febbrajo del 1392; a condizione che egli dovesse fabbricare un orologio della grandezza di quello di Pisa al prezzo di fiorini 200 d’oro, e collocarlo al posto sulla torre della casa Diversi , stata dal governo a tale oggetto acquistata. – (CIANELLI, Memor. Lucch. T. II.)
    Stabilimenti pii e di pubblica carità, Ospedali, Orfanotrofi, e Depositi di Mendicità. – I Lucchesi diedero antiche e cospicue prove di questi due generi d’istituzioni, sopra tutto rapporto alla fondazione di spedali presso le porte della città e lungo le strade maestre del contado. Da gran tempo però quegli ospedali, e simili ospizii sono cessati, destinando il loro patrimonio ad altri usi di pubblica utilità, o riunendoli ad ospedali superstiti. – Tale si è quello della Misericordia dotato dall’arte dei mercanti lucchesi sotto la protezione di S. Luca, cui è dedicata la chiesa. Fu edificato presso i beni dei marchesi Adalberti e della gran contessa Matilde, giacchè il suo locale trovasi accosto al Prato del Marchese, ossia al Circo di porta S. Donato.
    Se dobbiamo credere all’iscrizione posta nel muro esterno della strada che va da S. Paolino alla porta prenominata, l’epoca della fondazione di quest’ospedale sarebbe dell’anno 1287; essendochè ce lo dice una lapida ivi murata con l’arme dell’ospedale della Misericordia, simboleggiata in una balla di seta, sotto una M con queste parole: Anno Domini MCCLXXXVII, i Mercanti d’Arti. – Un’altra lapida più vicina al canto della chiesa di S. Luca, dell’anno 1288, c’indica il
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    nome dello spedalingo, per opera del quale l’ospedale medesimo fu eretto: Hoc Hospitale fecit fieri Dominus Bonaccursus Rector Hospitalis Misericordiae. An. MCCLXXXVIII.
    Sul fianco esteriore del portico della chiesa vedesi scolpita altra iscrizione con l’arme suddetta per avvisare che, nel 1340, sotto il vescovo Fr. Guglielmo fu riedificato, o piuttosto ingrandito l’ospedale della Misericordia dell’Arte dei Mercadanti. La chiesa però è stata rimodernata nel 1735, col farne in gran parte le spese lo spedalingo, o rettore di quel tempo, il nobile lucchese Francesco Balbani.
    La nomina dello spedalingo dipendeva probabilmente dai consoli della curia, ossia dell’arte de’mercanti lucchesi per vigilare sull’amministrazione di questo stabilimento. Appena sottentrò in Lucca il reggimento dei principi Baciocchi, quel governo avocò a se il giuspadronato di questo e do ogni altro luogo pio.
    La fabbrica è divisa in due separate e spaziose corsie, una per gli uomini e l’altra per le donne; cui formano annesso le sale per la clinica medica e chirurgica. Contiguo all’ospedale degli uomini esiste l’ospizio dei fanciulli esposti, e quello dei maschi orfani.
    Sino dall’anno 1809 fu ridotto per ricovero delle femmine orfane l’antichissimo monastero di S. Giustina, già S. Salvatore in Bresciano , dopo avere servito per il lungo periodo di dieci secoli alle monache che professavano la regola di S. Benedetto. Attualmente cotesto deposito è popolato da circa 550 ragazze fra orfane, figlie esposte, oppure dai proprii genitori abbandonate. In mezzo però a tante persone vi si trova buon ordine, nettezza e provida educazione.
    Spedale de’Pazzi. All’assistenza dell’umanità più compassionevole, dall’anno 1770 in poi, fu destinato il suburbano soppresso convento dei canonici regolari Lateranensi. – Questo bel claustro è tre miglia a ponente di Lucca, sopra una deliziosa collinetta che porta il nome di Fregionaja ; luogo amenissimo per il sito, e per la salubrità dell’aria, dove si ammira la pazienza e carità di chi vi assiste, ma che reclama maggiori ajuti e comodità stante il
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    cipioso numero dei dementi (attualmente sopra cento) cui mostrasi angusta la fabbrica a tal uopo destinata.
    Deposito di Mendicità. Nel vasto palazzo de’Borghi , il quale fu fondato nel 1413, con disegno gotico-moderno, da Paolo Guinigi che lo destinò pei divertimenti del popolo, tre secoli dopo venne convertito a più proficuo e caritatevole uso, quando la repubblica lucchese nel 1726 vi raccolse gl’invalidi e questuanti della città, per apprendervi le arti e mestieri onde sostentarne la vita. Soppressa quella pia instituzione, che portò il nome di Quarconia , venne convertito il locale in un bagno di galeotti; fino a che nel 1823 il palazzo de’ Borghi fu ripristinato all’abitazione e mantenimento dei poveri vagabondi di ambedue i sessi, per occuparli in mestieri confacenti alla loro capacità.
    Gli usi, a cui nei diversi tempi questo palazzo fu destinato, sono ricordati da un’iscrizione ivi affidata a un legno, meritevole però di essere scolpita in marmo. Essa fu dettata dal celebre Cesare Lucchesini nelle espressioni seguenti:

    Paulus Guinisius
    A fundamentis ann. MCCCCXIII
    Principis splendidissima aedes
    Ad populi voluptates scenicis ludis cessit.
    Religione et veterum Patrum pietate
    In Pauperum custodia
    Varietate temporum deserta
    Dehinc ad Triremes clausit,
    Maria Aloysia Borbonia
    Pia clemens benefica ingenti cura
    Vagantium egenorum utriusque sexu
    Vindicavit
    Ex vestigiis magnifice evexit.
    An. Dom. sui Sexto
    R. S. MDCCCXXIII.

    Confraternita della Carità. – Fu istituita dal generale governatore austriaco nel 1816, e quindi avvalorata dal duca regnante che ne prese la protezione. Sembra modellata su quella della Misericordia di Firenze, perché i confratelli accorrono ai casi di disgrazie, si prestano all’assistenza de’malati, non che al trasporto dei defunti.
    Monte di Pietà. – Col fine di riparare al disordine delle gravose usure che gli ebrei andavano esercitando in Lucca a pregiudizio dei bisognosi, il governo della repubblica,
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    nell’anno 1489, fondò un Monte di pietà sulla piazza di S. Martino, ove mantiensi costantemente attivo.
    Stabilimenti d’istruzione pubblica. – Fra le concessioni nel 1369 dall’Imperatore Carlo IV fatte alla repubblica di Lucca vi fu quella di possedere una università; lochè poi nel 1387 venne confermato dal pontefice Urbano VI per tutte le facoltà, tranne la teologale. – Contuttociò bisogna confessare, che il governo di Lucca non si valse di questi privilegii prima del 1780. Imperocchè, se dalle lauree di dottorati state conferite dal vescovo di Lucca mercè i privilegii imperiali e papali di sopra allegati, se da ciò in certa guisa trasparisce l’esistenza di uno studio lucchese, nondimeno dalla storia letteraria dell’erudito Cesare Lucchesini, pubblicata nei volumi IX e X delle Memorie lucchesi , si rileva che il governo si limitò a chiamare in Lucca, o a pensionare qualche maestro di umane lettere, di geometria, di calcolo e poco più. Arroge a ciò, che per le indagini fatte nei libri della repubblica da quel diligente archivista di Stato (il signor Girolamo Tommasi), ne conseguita, che, sebbene nell’anno 1455 e di nuovo nel 1477 si proponesse dal gonfaloniere al senato, e da questo si approvasse lo stabilimento del suddetto studio nel modo consueto di altre città d’Italia, niuna realmente delle due deliberazioni ebbe il suo effetto. Avvegnachè la Signoria di Lucca nel 1521 adottò provvedimenti affatto contrarii all’esistenza del ridetto studio generale, quando cioè fu deliberato di somministrare mezzi e soccorsi ai giovani bene istruiti nella lingua latina, onde si ponessero in grado di recarsi presso qualche università per acquistare le nozioni scientifiche. In una parola, dai capitoli in varii tempi dal governo lucchese sopra le pubbliche scuole riformati e approvati, chiaramente risulta, che anteriormente al 1780 non insegnavasi in Lucca a spese pubbliche altro che grammatica, rettorica, principii d’aritmetica, e talvolta musica, geometria, logica, elementi di filosofia, e le istituzioni civili.
    A dimostrare però che anche in tempi di barbarie il clero
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    lucchese veniva istruito in teologia, citerò non solamente l’opera di quel Pietro da Lucca distinto oratore sacro che in una sua opera stampata in Bologna nel 1506 si qualifica canonico regolare di S. Frediano indegno professore di sacra Teologia , ma dirò, che fino dal principio del secolo XIII nella canonica del Duomo di Lucca tenevansi le scuole per il clero. Avvegnachè nell’archivio di quel capitolo havvi una carta del 1226, in cui si rammenta il prete Orlando magistro scolarum S. Martini. Il quale prete Orlando era nel tempo stesso canonico della chiesa di S. Maria Forisportam , siccome viene meglio specificato da un documento dell’anno 1231 e da altro contratto del 1230, fatto in Lucca nel claustro di S. Martino, in presenza fra gli altri del maestro delle scuole . ( Memor. Lucch. T. IX.)
    Che si professassero in Lucca anche fuori del clero di S. Martino scuole di umane lettere fino dal secolo XII, ne abbiamo una luminosa prova in quel prete Enrico, benemerito non che saggio maestro di grammatica e di canto, di cui si conserva memoria in un’iscrizione sepolcrale in versi leonini posta nella facciata esteriore della chiesa de’SS. Vincenzio e Anastasio in Lucca, dove quel prete era rettore, e dove morì nell’anno 1167. Basteranno i seguenti versi;

    Clauditur hoc parvo vita venerandus in arvo
    Presbiter Henricus sapiens pius atque pudicus,
    Grammaticus, Cantor, Scholas tenuitque magister,
    Istius Ecclesiae splendor, decus, atque minister, etc.

    Ad un altro più famigerato professore di belle lettere la repubblica fece grande onore, cioè, a Gio. Pietro d’Avenza, detto da Lucca, il quale ebbe egli stesso a maestro il celebre Vittorino da Feltre. Imperocchè Gio. Pietro riescì valente nelle greche e nelle latine lettere al segno che, dopo avere ottenuto, nel 1446, la cattedra di umanità in Venezia, la Repubblica lucchese, per decreto del 22 giugno 1456, lo
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    volle in patria a precettore di eloquenza greca e latina con l’onorario di ducati 107 annui. Al quale stipendio con deliberazione del 28 giugno 1457 furono aggiunti 25 fiorini d’oro per pagare un ripetitore, stante il soverchio concorso ch’ebbe di scolari. Ma in quell’anno medesimo (3 ottobre 1457) essendo rimasto vittima del contagio, in Duomo furono celebrati a Gio. Pietro solenni funerali coll’assistenza della signoria, incoronando il suo capo d’alloro, e perpetuando la sua memoria in un medaglione di marmo, il quale scolpito si vede nel portico della cattedrale con questa iscrizione attorno: “ Jo. Petrus Lucensis doctus Graece et Latine ingenio miti proboque ”.
    Liceo di Lucca. – Il governo della estinta repubblica domandò ed ottenne dal Papa nel 1780 la soppressione dei canonici regolari Lateranensi di S. Frediano, a condizione d’impiegare il loro patrimonio e destinare il vasto e ben disposto locale del convento per pubblica istruzione.
    Il nuovo liceo, che non fu da prima molto numeroso di cattedre pel carico delle pensioni vitalizie ai canonici soppressi, di prima giunta portò il titolo d’ Istituto de’pubblici studii , poi nel 1802 quello troppo fastoso di Università .
    Cotesto Liceo attualmente è fornito di 26 cattedre, compresevi due di teologia dogmatica e morale. È repartito in tre facoltà ; legale, medico-chirurgica, e fisico-matematica, con un gabinetto di macchine e un orto botanico. La laurea in legge si conferisce dall’arcivescovo; nelle altre facoltà la dà il direttore della pubblica istruzione, delegato dal sovrano.
    Scuole dei chierici regolari della Madre di Dio. – Nel convento di S. Maria in Cortelandini, dove ebbe origine nel 1583 questa dotta e pia Congregazione, si danno pubbliche lezioni di umane lettere, e, specialmente ai seminaristi di S. Michele, un’istruzione religiosa e scientifica confacente alla loro carriera.
    Inoltre esiste nel convento medesimo una pregevole biblioteca corredata di circa 4000 volumi, molti dei quali appartenuti a Mons. Gio. Domenico Mansi, al Franciotti,
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    al Beverini, al Paoli, che furono altrettanti luminari di quella famiglia di regolari.
    Scuola del disegno e pubblica biblioteca. – Accanto alla chiesa di S. Frediano sino dal 1802 fu aperta una scuola del disegno diretta da un professore di pittura lucchese, provvista di sufficienti modelli con lo studio del nudo.
    La sala della biblioteca che fa parte del fabbricato di S. Frediano, può dirsi, e meglio poteva dirsi provvista di libri e di codici innanzi che vi si appiccasse il fuoco la sera del 30 gennajo 1822; dal quale accidente tuttora arcano restò danneggiato assaissimo anche un quadro grandioso rappresentante il convito dato da S. Gregorio ai poveri, dipintura di Pietro Paolini di Lucca, che sente della maniera di Paolo Veronese.
    In questa biblioteca esistono circa 15000 volumi stampati, molti libri manoscritti e costà furono riunite le pergamene dei conventi e monasteri soppressi al tempo dei principi Baciocchi.
    Collegio Carlo Lodovico . – Sino dal 1809 nel claustro di S. Frediano, oltre il liceo e la biblioteca fu aperto un collegio di giovani alunni, cui il governo borbonico nel 1819, cambiando il nome di Felice in quello di Collegio Carlo Lodovico , accrebbe mezzi e locale, quando fu traslocato il liceo nel palazzo già Lucchesini, a tale scopo acquistato, per lasciare esclusivamente il fabbricato di S. Frediano ad uso delle pubbliche scuole di umane lettere, e per uso solamente de’collegiali.
    La Regia biblioteca palatina, sebbene da poco tempo creata, conta sopra 25000 volumi, molti dei quali sono pregevoli per l’edizione, per il merito degli autori, o per l’importanza dei manoscritti.
    Conservatorii. – Sebbene Lucca nei secoli scorsi non mancasse di stabilimenti per le fanciulle, conosciuti sotto il nome di Ritirate , di Convertite ec. pure mancava un conservatorio per l’educazione della fanciulle civili. Due di questi si videro sorgere nel secolo attuale, il primo dei quali
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    prese il nome d’ Istituto Elisa , poi di Maria Luisa , dalle due sovrane cui doveva la fondazione e la protezione. – L’altro conservatorio di S. Nicolao fu appellato di Luisa Carlotta dalla principessa sorella del duca regnante. – Se non che l’ Istituto Maria Luisa , in grazia del sistema signorile e del troppo lusso introdottovi, trovandosi in decadenza per l’esaurimento dei fondi, fu creduto meglio il sopprimerlo (anno 1834) piuttosto che riformarlo, per rilasciare quel vasto locale libero alle monache domenicane, le quali già sono tornate ad abitarlo.
    Dopo la soppressione dell’ Istituto Maria Luisa non è rimasto per le fanciulle civili altro che il conservatorio Luisa Carlotta , dove convivono attualmente circa 40 educande; le quali in breve saranno traslocate nel restaurato monastero di S. Ponziano, per cedere tutto il locale alle loro vicine, che sono monache di Agostiniane in S. Nicolao.
    Archivii di Lucca. – Non vi è erudito che non conosca per fama, e che capitando a Lucca non visiti il ricchissimo Archivio Arcivescovile e quello dei Canonici . Fu specialmente dal primo donde trassero tesori i più celebri diplomatici, ed è costà dove per le cure dell’Accademia lucchese, e coi mezzi che fornisce il tesoro si vanno da quei dotti con diligenza copiando le molte pergamene originali e quindi tutte si pubblicano e s’illustrano per ordine cronologico, sieno o no altre volte state date alle stampe.
    Nell’ Archivio poi dello Stato , ossia delle Riformagioni della repubblica lucchese furono riuniti i documenti officiali dello Stato, tanto quelli in copie autentiche, quanto in originale, i quali ultimi sono posteriori a Castruccio: e tutti con somma diligenza e perizia dall’attuale archivista disposti e registrati.
    Merita pure di essere rammentato l’ Archivio pubblico degli Atti notariali , attualmente collocato in un palazzo, che il governo a
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    tal’uopo nel 1822 acquistò dall’illustre famiglia Guidiccioni . Questo che può dirsi uno dei buoni palazzi di Lucca, fu fabbricato sulla fine del secolo XVI col disegno di Vincenzo Civitali. – Resta sopra una piazzetta dincontro al palazzo de’ Sanminiati , ora detto degli Uffizii , essendo costà attualmente riunite le segreterie di stato, e i primi dicasteri politici, amministrativi e finanzieri del Ducato.
    Accademie scientifiche e letterarie . – La Regia Accademia lucchese, appellata per due secoli degli Oscuri , fu tra le più illustri di quante altre società letterarie sorsero in Lucca nei tempi trapassati sotto i variati vocaboli degli Accesi , dei Freddi , dei Balordi , dei Principianti , e dei Raffreddati , sino a quella che chiamossi Accademia dell’Anca . Quest’ultima ottenne cortese ricovero fra i chierici regolari della Madre di Dio in Cortelandini, dove pur nacque verso la metà del secolo XVIII un’altra società dedicata alla storia ecclesiastica.
    L’Accademia degli Oscuri ebbe dai principi Baciocchi il titolo di Napoleone , a da quell’epoca fu ad essa affidato l’onorevole incarico di far tesoro e pubblicare i documenti patrii nelle Memorie per servire alla storia della città e territorio di Lucca; impresa che onora assaissimo chi la dettò, il governo attuale che la protegge, ed i zelanti illustri socii dell’Accademia, ai quali essa fu o trovasi affidata.
    Né a questo solamente si limitano gli accademici lucchesi, mentre nelle loro adunanze mensuali leggono componimenti letterarii e scientifici di vario argomento, gran parte dei quali sono fatti degni di stampa nella collezione dei loro Atti.
    Non dirò di un gabinetto letterario aperto di corto da una società di cultori dei lumi e promotori delle industrie nazionali, poiché essi trovasi ancora nella sua infanzia. – Piuttosto sarebbe da dire di un’altra patriottica associazione destinata a incoraggire con apposite commissioni gli artisti più abili
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    della città, coll’esporne annualmente i lavori per dispensarli ai socii medesimi che vi contribuiscono, mediante una lotteria.
    Né meno utile fia l’istituzione della Cassa di risparmio , aperta in Lucca nel 1837; sicchè anche costà trovando il suo profitto l’onesto artigiano, il sobrio figlio di famiglia e la giovane lavoratrice, naturalmente ne consegue che ogni giorno vanno aumentando i concorrenti per depositar alla Cassa e rendere fruttifero il loro obolo di risparmio .
    Teatri . – Di questi stabilimenti fondati col lodevole scopo d’istruire il popolo dilettando, Lucca ne conta tre; il Teatro del Giglio per la Musica, il Teatro della Pantera e quello di Nota , già Castiglioncelli , per la prosa; comecchè mai tutti insieme aperti, e non di rado tutti chiusi.
    Manifatture nazionali . – Dopo l’agricoltura, una delle principali industrie dei Lucchesi, e di antichissima data è l’arte della seta, la quale va ognor più estendendosi nella città e nel territorio. Avvegnachè non solo l’ducazione dei filugelli sta a cura di quasi tutti i campagnoli e dei cittadini che abitano fissi, o che appositamente nella stagione di primavera villeggiano nei loro casini di campagna, ma ancora si aumentano in Lucca le telaja, e vi si procura migliorare di ogni maniera la fabbricazione dei drappi lisci e delle stoffe a opera.
    In verità si può dire che in questa città l’arte di tessere risalga ad un’epoca più remota di quello che comunemente si opina. Conciossiachè comparvero documenti atti a provare, che perfino dal secolo IX in Lucca si tessevano drappi in seta e lana, e tappeti. Citerò fra gli altri un instrumento celebrato costà nel dì 10 maggio dell’846, col quale Ghisolfo del fu Simone promise al vescovo Ambrogio, finchè vivesse Ildeconda abbadessa del monastero di S. Pietro posto dentro la stessa città, di consegnargli ogn’anno un vestito di lana tessuto in
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    seta, un tappeto
    ed un'altra specie di drappo chiamato dungartin , ec. ( Memor. Lucch. T. IV. P. II.)
    Quindi troviamo in Lucca la corte , ossia il collegio dei mercanti di generi e di prodotti lucchesi fino dal principio del secolo XII stabilito, come fu avvertito a pag. 843, nei contorni del Duomo di S. Martino; poscia un secolo dopo i mercanti di seta apposero la loro insegna della balla all’ospedale della Misericordia; e ciò nel tempo che essi tenevano case e società di commercio non solo nell’alta Italia, ma nelle città principali dell’Europa.
    È altresì vero che la maggior prosperità dell’arte della seta per Lucca dovè essere verso la metà del secolo XVI, tempo in cui molte famiglie ricche, negozianti e fabbricanti di drappi, alla caduta della Repubblica Fiorentina si ricovrarono in detta città, dove si conta che vi fossero allora fino a 3000 telaja di drappi con una popolazione di 30,000 abitanti, dei quali una gran parte lavorava alla manifattura della seta. – All’incontro nel principio del secolo XVII l’arte medesima era decaduta al segno che, nel 1614, si contavano in Lucca soli 700 telai.
    Dai dati statistici i più recenti resulta, che esistono attualmente in questa città cinque grandi fabbriche di stoffe di seta, con altrettanti filatoj e torcitoj, il maggiore dei quali si compone di 2400 rocchetti. Tali fabbriche danno di continuo lavoro a 2500 persone. – Vi sono mille telai, fra i quali 17 alla Jacquard . Due fabbriche di galloni e nastri di seta impiegano continuamente 20 telai. – Havvi una gran fabbrica di panni lani, una nuova di panni a pressione, e una di berretti all’uso di levante che danno lavoro a 5000 donne, e a un migliajo di uomini e ragazzi.
    Si contano inoltre nel restante del ducato altri 1600 telaj che tessono tele di canapa, di lino, e altre di filo e lana, dei
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    bordatini di cotone con canapa o lino, ec.
    Terza dopo l’arte del tessere si distigne in Lucca per gusto e precisione quella degli ebanisti, intarsiatori e lavoranti di mobilia di legno. – Vi sono tre principali fabbriche di cappelli di feltro, 5 di cappelli di paglia, una fornace di vetri e una di terraglie; e sparse per il territorio 30 cartiere, varie conce e 3 ferriere, ec.
    Commercio di Lucca. – Il commercio de’cereali, meno che alle fiere, si fa unicamente a Lucca. – I mercati settimanali cadono nel giorno di sabato; il commercio per altro del bestiame grosso si fa ancora nei mercati di Viareggio. Il bestiame bovino dello stato lucchese ascende a circa 4,000 capi, senza dire di quello pecorino, porcino ec.- Il principale, e più ricco articolo di esportazione consiste nell’olio d’oliva, la di cui ottima qualità è bastantemente famigerata, per l’olio in specie raccolto nel distretto delle sei miglia attorno alla città. La media esportazione annua del medesimo può calcolarsi a circa 700,000 lire toscane.
    Uomini illustri lucchesi. – Non dirò qui degli uomini saliti a eminenti dignità, essendo bastantemente noto che Lucca diede due pontefici, due principi assoluti della sua patria, non compresivi il marchese Bonifazio, la gran contessa Matilde, gli Adalberti ec., oltre i molti cardinali, un maggior numero di vescovi e arcivescovi, e moltissimi diplomatici insigni, tutti lucchesi.
    Né dirò dei tanti dotti il novero, il merito e le gesta dei quali hanno empito due volumi della storia compilata dal letteratissimo lucchese Cesare Lucchesini. Chi volesse pertanto da quella lodevole fatica coglierne il più bel fiore troverebbe nel primo di quei volumi moltissimi letterati anteriori al secolo XVI, fra i quali per opere edite di maggior grido meritano di essere citati un Bonagiunta Orbiciani, poeta del secolo XIII distinto dall’Alighieri nel suo Purgatorio ( canto 24); un Fr. Tolomeo Fiadoni, autore dei primi annali lucchesi; un Nicolao
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    Tegrimi, primo biografo del vaolroso Castruccio; un Giovanni Guidiccioni, oratore e poeta; un Fra Santi Pagnini, celebre orientalista; un Simone Cardella, e un Bartolommeo Civitali, primi tipografi a Roma e a Lucca (anno 1471 e 1477); finalmente un insigne scultore in Matteo Civitali.
    Nei secoli che succedettero al XVI la lista dei dotti lucchesi è anche più copiosa; basta dire che il Beverini, il Franciotti, Gio. Domenico Mansi, Sebastiano Paoli e tanti altri eruditi e scienziati escirono tutti dalla Congregazione di Cortelandini, che fu per Lucca una pepiniera di uomini di merito in varie dottrine.
    A questi giova aggiungere l’illustre giureconsulto Lelio Altogradi, il celebre idraulico Attilio Arnolfini, l’eruditissimo medico e illustre storico Francesco Maria Fiorentini, il ch. Lazzero Papi troppo presto rapito alle lettre, e poco innanzi preceduto dalla perdita che fece Lucca in pochi anni del P. Cianelli, di Domenico Bertini, dei due fratelli Girolamo e Cesare Lucchesini, cui venne dietro la veterana improvvisatrice Bandettini, ec. ec.

    QUADRO della Popolazione della Comunità di LUCCA a due epoche diverse

    - nome della sezione: LUCCA città capitale; totale degli abitanti delle 10 chiese parrocchiali: anno 1832 n° 21,829, anno 1837 n° 23,167; famiglie del 1837 n° 4,778.
    - nome della sezione: S. Alessio; titolo della chiesa: S. Alessio (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 676, anno 1837 n° 742; famiglie del 1837 n° 122.
    - nome della sezione: S. Anna; titolo della chiesa: S. Anna (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 1,852, anno 1837 n° 2,076; famiglie del 1837 n° 319.
    - nome della sezione: Santissima Annunziata; titolo della chiesa: SS. Annunziata (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 294, anno 1837 n° 314; famiglie del 1837 n° 53.
    - nome della sezione: Antraccoli; titolo della chiesa: S. Michele (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 674, anno 1837 n° 739; famiglie del 1837 n° 123.
    - nome della
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    sezione: Aquilea; titolo della chiesa: S. Leonardo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 474, anno 1837 n° 521; famiglie del 1837 n° 93.
    - nome della sezione: Arancio; titolo della chiesa: S. Bartolommeo in Silice (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 275, anno 1837 n° 315; famiglie del 1837 n° 48.
    - nome della sezione: Arliano; titolo della chiesa: S. Giovanni Battista (Pieve); abitanti anno 1832 n° 127, anno 1837 n° 133; famiglie del 1837 n° 21.
    - nome della sezione: Arsina; titolo della chiesa: S. Frediano (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 263, anno 1837 n° 278; famiglie del 1837 n° 43.
    - nome della sezione: Balbano; titolo della chiesa: S. Donato (Pieve); abitanti anno 1832 n° 512, anno 1837 n° 563; famiglie del 1837 n° 96.
    - nome della sezione: Brancoli (Deccio di); titolo della chiesa: S. Frediano (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 191, anno 1837 n° 187; famiglie del 1837 n° 37.
    - nome della sezione: Brancoli (S. Giusto e S. Lorenzo di); titolo della chiesa: SS. Giusto e Lorenzo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 391, anno 1837 n° 451; famiglie del 1837 n° 80.
    - nome della sezione: Brancoli (S. Ilario di); titolo della chiesa: S. Ilario (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 86, anno 1837 n° 84; famiglie del 1837 n° 13.
    - nome della sezione: Brancoli (Ombreglio di); titolo della chiesa: S. Pietro (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 154, anno 1837 n° 165; famiglie del 1837 n° 28.
    - nome della sezione: Brancoli (Piazza di); titolo della chiesa: S. Maria Assunta (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 306, anno 1837 n° 341; famiglie del 1837 n° 69.
    - nome della sezione: Brancoli (Pieve di) con Grignano; titolo della chiesa: S. Giorgio (Pieve) con l’annesso di S. Genesio; abitanti
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    anno 1832 n° 358, anno 1837 n° 381; famiglie del 1837 n° 67.
    - nome della sezione: Brancoli (Tramonte di); titolo della chiesa: S. Martino (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 93, anno 1837 n° 91; famiglie del 1837 n° 14.
    - nome della sezione: Busdagno e Carignano; titolo della chiesa: S. Maria Assunta (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 401, anno 1837 n° 457; famiglie del 1837 n° 67.
    - nome della sezione: Campo (S. Angelo in); titolo della chiesa: S. Michele (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 872, anno 1837 n° 995; famiglie del 1837 n° 163.
    - nome della sezione: Cappella e Montecatino; titolo della chiesa: S. Lorenzo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 567, anno 1837 n° 611; famiglie del 1837 n° 95.
    - nome della sezione: Castagnori; titolo della chiesa: S. Tommaso (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 137, anno 1837 n° 132; famiglie del 1837 n° 17.
    - nome della sezione: Castiglioncello; titolo della chiesa: S. Martino (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 160, anno 1837 n° 170; famiglie del 1837 n° 33.
    - nome della sezione: Cerasomma; titolo della chiesa: S. Pietro (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 360, anno 1837 n° 392; famiglie del 1837 n° 65.
    - nome della sezione: Chiatri; titolo della chiesa: SS. Giusto e Barbera (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 253, anno 1837 n° 258; famiglie del 1837 n° 41.
    - nome della sezione: Ciciana; titolo della chiesa: S. Bartolommeo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 174, anno 1837 n° 175; famiglie del 1837 n° 32.
    - nome della sezione: Colombano (S.), S. Concordio, Pulia, S. Pietro maggiore e S. Ponziano; titolo della chiesa: S. Concordio (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 1,564, anno 1837 n° 1,654; famiglie del 1837 n° 280.
    - nome della sezione: Colle e
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    Fregionaja; titolo della chiesa: S. Maria a Colle (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 939, anno 1837 n° 1,011; famiglie del 1837 n° 167.
    - nome della sezione: Convalle; titolo della chiesa: SS. Simone e Giuda (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 375, anno 1837 n° 424; famiglie del 1837 n° 87.
    - nome della sezione: Donato (S.) nel suburbio; titolo della chiesa: S. Donato (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 708, anno 1837 n° 729; famiglie del 1837 n° 138.
    - nome della sezione: Escheto; titolo della chiesa: S. Michele (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 162, anno 1837 n° 166; famiglie del 1837 n° 30.
    - nome della sezione: Fagnano; titolo della chiesa: S. Maria Assunta (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 339, anno 1837 n° 400; famiglie del 1837 n° 59.
    - nome della sezione: Farneta; titolo della chiesa: S. Lorenzo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 278, anno 1837 n° 291; famiglie del 1837 n° 42.
    - nome della sezione: Fiano; titolo della chiesa: S. Pietro (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 434, anno 1837 n° 463; famiglie del 1837 n° 88.
    - nome della sezione: Filippo (S.) nel suburbio; titolo della chiesa: S. Filippo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 455, anno 1837 n° 503; famiglie del 1837 n° 83.
    - nome della sezione: Focchia e Barbamento; titolo della chiesa: S. Paolo (Cappellania); abitanti anno 1832 n° -, anno 1837 n° 257; famiglie del 1837 n° 38.
    - nome della sezione: Formentale; titolo della chiesa: S. Bartolommeo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 78, anno 1837 n° 90; famiglie del 1837 n° 12.
    - nome della sezione: Freddana; titolo della chiesa: S. Martino (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 237, anno 1837 n° 253; famiglie del 1837 n° 47.
    - nome della sezione: Gattajola
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    e Salissimo; titolo della chiesa: S. Andrea (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 316, anno 1837 n° 335; famiglie del 1837 n° 48.
    - nome della sezione: Gugliano; titolo della chiesa: S. Stefano (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 135, anno 1837 n° 148; famiglie del 1837 n° 23.
    - nome della sezione: Loppeglia, Batone e Frenello; titolo della chiesa: S. Maria Assunta (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 333, anno 1837 n° 354; famiglie del 1837 n° 62.
    - nome della sezione: Macario (S.); titolo della chiesa: S. Macario (Pieve); abitanti anno 1832 n° 607, anno 1837 n° 642; famiglie del 1837 n° 105.
    - nome della sezione: Maggiano; titolo della chiesa: S. Andrea (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 192, anno 1837 n° 220; famiglie del 1837 n° 37.
    - nome della sezione: Marco (S.) nel suburbio; titolo della chiesa: SS. Marco e Jacopo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 1,162, anno 1837 n° 1,220; famiglie del 1837 n° 260.
    - nome della sezione: Maria (S.) del Giudice; titolo della chiesa: S. Maria (Pieve); abitanti anno 1832 n° 1,766, anno 1837 n° 1,936; famiglie del 1837 n° 370.
    - nome della sezione: Massa Pisana; titolo della chiesa: S. Ambrogio (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 300, anno 1837 n° 310; famiglie del 1837 n° 48.
    - nome della sezione: Mastiano e Mammoli; titolo della chiesa: S. Andrea (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 298, anno 1837 n° 351; famiglie del 1837 n° 48.
    - nome della sezione: Meati; titolo della chiesa: S. Michele (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 188, anno 1837 n° 200; famiglie del 1837 n° 35.
    - nome della sezione: Monsagrati; titolo della chiesa: S. Giovanni Battista (Pieve); abitanti anno 1832 n° 388, anno 1837 n° 475; famiglie del 1837 n° 60.
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    /> - nome della sezione: Monsanquilici e Vallebuja; titolo della chiesa: S. Quirico (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 1,384, anno 1837 n° 1,520; famiglie del 1837 n° 260.
    - nome della sezione: Montuoso e Cocombola; titolo della chiesa: S. Giovanni Battista (Pieve); abitanti anno 1832 n° 593, anno 1837 n° 684; famiglie del 1837 n° 117.
    - nome della sezione: Moriano (S. Cassiano di); titolo della chiesa: S. Cassiano (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 148, anno 1837 n° 149; famiglie del 1837 n° 29.
    - nome della sezione: Moriano (S. Concordio di); titolo della chiesa: S. Concordio (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 140, anno 1837 n° 145; famiglie del 1837 n° 24.
    - nome della sezione: Moriano (S. Gemignano di); titolo della chiesa: S. Gemignano (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 264, anno 1837 n° 266; famiglie del 1837 n° 50.
    - nome della sezione: Moriano (S. Lorenzo e S. Michele di); titolo della chiesa: SS. Lorenzo e Michele (Pieve); abitanti anno 1832 n° 454, anno 1837 n° 472; famiglie del 1837 n° 74.
    - nome della sezione: Moriano (S. Quirico di); titolo della chiesa: S. Quirico (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 244, anno 1837 n° 270; famiglie del 1837 n° 42.
    - nome della sezione: Moriano (S. Stefano di); titolo della chiesa: S. Stefano (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 490, anno 1837 n° 538; famiglie del 1837 n° 96.
    - nome della sezione: Moriano (Sesto a); titolo della chiesa: S. Maria Assunta (Pieve); abitanti anno 1832 n° 310, anno 1837 n° 315; famiglie del 1837 n° 60.
    - nome della sezione: Mugnano; titolo della chiesa: S. Michele (Cappellania); abitanti anno 1832 n° 166, anno 1837 n° 197; famiglie del 1837 n° 32.
    - nome della sezione: Mutigliano; titolo della chiesa: SS. Ippolito
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    e Cassiano (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 219, anno 1837 n° 236; famiglie del 1837 n° 35.
    - nome della sezione: Nave; titolo della chiesa: S. Matteo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 612, anno 1837 n° 685; famiglie del 1837 n° 112.
    - nome della sezione: Nozzano; titolo della chiesa: S. Pietro (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 1,174, anno 1837 n° 1,226; famiglie del 1837 n° 225.
    - nome della sezione: Palmata; titolo della chiesa: S. Maria Assunta (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 151, anno 1837 n° 159; famiglie del 1837 n° 30.
    - nome della sezione: Pancrazio (S.); titolo della chiesa: S. Pancrazio (Pieve); abitanti anno 1832 n° 335, anno 1837 n° 392; famiglie del 1837 n° 58.
    - nome della sezione: Pascoso; titolo della chiesa: S. Maria Assunta (Rettoria); abitanti anno 1832 n° -, anno 1837 n° 851; famiglie del 1837 n° 157.
    - nome della sezione: Pascoso (S. Rocco di); titolo della chiesa: S. Rocco (Cappellania); abitanti anno 1832 n° -, anno 1837 n° 339; famiglie del 1837 n° 54.
    - nome della sezione: Pescaglia; titolo della chiesa: SS. Pietro e Paolo (Propositura); abitanti anno 1832 n° 879, anno 1837 n° 965; famiglie del 1837 n° 198.
    - nome della sezione: Piazzano; titolo della chiesa: S. Frediano (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 217, anno 1837 n° 238; famiglie del 1837 n° 43.
    - nome della sezione: Picciorana; titolo della chiesa: S. Lorenzo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 461, anno 1837 n° 512; famiglie del 1837 n° 85.
    - nome della sezione: Piegajo; titolo della chiesa: S. Bartolommeo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 209, anno 1837 n° 439; famiglie del 1837 n° 85.
    - nome della sezione: Ponte S. Pietro; titolo della chiesa: S. Pietro (Rettoria); abitanti
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    anno 1832 n° 253, anno 1837 n° 298; famiglie del 1837 n° 55.
    - nome della sezione: Pontetetto; titolo della chiesa: S. Maria delle Grazie (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 261, anno 1837 n° 327; famiglie del 1837 n° 65.
    - nome della sezione: Pozzuolo; titolo della chiesa: S. Stefano (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 134, anno 1837 n° 145; famiglie del 1837 n° 18. - nome della sezione: Saltocchio; titolo della chiesa: S. Andrea (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 475, anno 1837 n° 547; famiglie del 1837 n° 109.
    - nome della sezione: Sorbano del Giudice; titolo della chiesa: S. Giorgio (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 247, anno 1837 n° 269; famiglie del 1837 n° 41.
    - nome della sezione: Sorbano del Vescovo; titolo della chiesa: S. Lorenzo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 343, anno 1837 n° 381; famiglie del 1837 n° 69.
    - nome della sezione: Stefano (S.) Forci e Greco; titolo della chiesa: S. Stefano (Pieve); abitanti anno 1832 n° 457, anno 1837 n° 495; famiglie del 1837 n° 58.
    - nome della sezione: Stabbiano; titolo della chiesa: S. Donato (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 160, anno 1837 n° 183; famiglie del 1837 n° 29.
    - nome della sezione: Tempagnano di Lunata; titolo della chiesa: S. Andrea (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 405, anno 1837 n° 435; famiglie del 1837 n° 76.
    - nome della sezione: Torcigliano di Monsagrati; titolo della chiesa: S. Bartolommeo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 165, anno 1837 n° 177; famiglie del 1837 n° 50.
    - nome della sezione: Torre, Pieve e Cerreto; titolo della chiesa: S. Nicolao (Pieve); abitanti anno 1832 n° 491, anno 1837 n° 545; famiglie del 1837 n° 86.
    - nome della sezione: Vaccoli; titolo della chiesa: S.
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    Lorenzo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 1.121, anno 1837 n° 1,212; famiglie del 1837 n° 214.
    - nome della sezione: Vecoli; titolo della chiesa: SS. Annunziata e S. Lorenzo (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 142, anno 1837 n° 180; famiglie del 1837 n° 22.
    - nome della sezione: Vico (S. Cassiano a); titolo della chiesa: S. Cassiano (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 1,096, anno 1837 n° 1,161; famiglie del 1837 n° 206.
    - nome della sezione: Vico (S. Pietro a); titolo della chiesa: S. Pietro (Prioria); abitanti anno 1832 n° 1,161, anno 1837 n° 1,279; famiglie del 1837 n° 211.
    - nome della sezione: Vico Pelago; titolo della chiesa: S. Giorgio (Pieve); abitanti anno 1832 n° 160, anno 1837 n° 185; famiglie del 1837 n° 28.
    - nome della sezione: Vignale; titolo della chiesa: S. Martino (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 151, anno 1837 n° 159; famiglie del 1837 n° 20.
    - nome della sezione: Vito (S.) a Lunata ; titolo della chiesa: S. Vito (Rettoria); abitanti anno 1832 n° 513, anno 1837 n° 613; famiglie del 1837 n° 101.
    - Totale abitanti anno 1832 n° 58,768
    - Totale abitanti anno 1837 n° 65,359
    - Totale famiglie anno 1837 n° 11,999

    LUCCA nella Valle centrale del Sarchio, ecc. – Al paragrafo LUCCA sono i Romani; dove dice, allorché i Romani conquistarono la prima volta sopra i Liguri questa città, e quando Q. Minuzio Termo (anno U. C. 562) combatteva contro i Liguri nelle campagne di Pisa, si aggiunga: allora quando, cioè, Gneo Domizio Enobarbo fu fra i consoli designati quello cui toccò le provincie al di là dell'Italia romana, quel console stesso che prese probabilmente per stratagemma la città di Lucca, mentre all'altro Cons. L. Quincio Flaminio era stati assegnata
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    la Gallia Cispadana. – (TITO Livio Histor. Lib. XXXV. )
    Dove poi si parla delle memorie relative ai consoli di Lucca e di altre città della Toscana, rammenterò un documento, forse de' più antichi su tale rapporto, pubblicato dal Muratori nel Volume III delle sue Antichità del Medio Evo; il quale risale al 5 ottobre 1094, dove si nomina il magistrato temporario de’ Consoli della città di Pisa sotto la presidenza di quel vescovo, locchè dopo è confermato da altre due carte pisane dell' 11 dicembre 1109, e 21 novembre 1110. – ( ivi ) . Rispetto poi ai Consoli maggiori di Lucca trovo i medesimi rammentali in una membrana del 3 dicembre 1107 pubblicata nel Volume IV. P. II delle Memor. Lucch. – Inoltre fra le carte della Badia di Passignano, ora nell’Arch. Dipl. Fior. se ne conserva una del 1 gennajo 1108 ( stile. fior. ) m cui si tratta della donazione di tre pezzi di terra fatta a favore di una figlia con l’annuenza di due fratelli e di una sorella, dove si legge: sotto l'obbli go de' Consoli e del Potestà di Firenze. Talché il ch. Muratori trovando rammentati nel 1107 i consoli della città di Milano, ebbe a dire messer ciò una prova chiara che i Milanesi si erano già sgravati dei ministri imperiali o regj, ed avevano presa la forma di repubblica e la libertà governandosi da se stessi, e solamente riconoscendo la sovranità di chi era imperate re, oppure re d'Italia.» ( An nali ad hunc annum ). – Vedere l’ Introduzione alla presente Opera.
    Dopo la concordia stabilita nel 16 giugno 1181 fra i Comuni di Pisa e di Lucca rispetto al conio delle monete lucchesi, permesso anche nella zecca di Pisa,
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    aggiungerò la notizia di un'altra convenzione fatta nel 6 luglio 1184 tra i Fiorentini ed i Lucchesi, dove fra gli altri patti i consoli del Comune di Lucca promisero dare a quelli di Firenze la metà del lucro che dagli uomini della loro città, contado e diocesi fosse dovuto rispetto alla zecca delle monete lucchesi, detratta prima la metà del guadagno promesso ai Pisani (a tenore de' patti del 16 giugno 1181) e prelevate le spese che si fossero fatte. – (Giovanni Targioni Tozzetti, Sopra il Fiorino di Sigillo, nota 5.)
    In quanto poi all'epoca del secondo cerchio delle mura di Lucca costruite nel principio del secolo XIII, oltre alle parole di un diploma dell' Imperatore Ottone IV spedito a favore della città di Lucca nel dì 14 agosto 1209, gioverà ricordare un istrumento del 23 agosto 1207 scritto fuori delle nitore mura dì Lucca. – ( Vedere l’Articolo Monte Falcone Volume III pag. 383.) Infatti che il secondo recinto di mura non esistesse in Lucca nei secoli anteriori al XIII lo dichiara soprattutto una pergamena del 28 dicembre dell’ anno 983 scritta in Lucca, nella quale si rammenta la chiesa di S. Maria e S. Gervasio ( S. Ma ria Bianca ) sita foras civitale ista lucense prope portam S. Gervasii. – (Memor. Lucch. Volume V. P. III ) , ed in secondo luogo lo assicura un' altra carta del 1140 scritta presso la postierla di S. Simone (nel primo cerchio di Lucca). – (Telesforo Bini, Memorie sui Tempieri. )
    Alle pagine 873, e 874 dello stesso Volume II vanno corretti i numeri seguenti di altezze di varj luoghi di quel Ducato in braccia lucchesi.

    Antracoli , nel piazzale della chiesa, Braccia Lucchesi 30,6
    Cupola degli Acquedotti ,
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    Braccia Lucchesi 57,0
    Tre Potenze , a levante della Foce a Giovo, Braccia Lucchesi 3275,0
    Gombitelli , sommità del monte, Braccia Lucchesi 1253,3
    Brancoli , sommità della torre, Braccia Lucchesi 1186,7

    (Dove dice Vaccoli si legga Vecoli )

    Rispetto poi al libero possesso di beni che gli Ebrei innanzi il mille godevano nel territorio di Lucca, dopo quanto fu detto ivi alla pagina 883 relativamente ad una enfiteusi fatta da Gherardo vescovo di Lucca in favore di due Isdraeliti, meritano di essere citati tre istrumenti del 18 novembre 859, del 1 gennajo 974 e del 9 detto 975, nel primo de' quali si rammenta un podere stato venduto da un Ebreo ad un Cattolico; mentre nel secondo e terzo si citano terre spettanti alla pieve di Massa Pisana poste a contatto di altre di proprietà di un Giudeo. – (Memor. Lucch. Volume V. P. III e sua Appendice )
    Se a cotesti documenti si aggiungerà quanto ivi fu indicato all’ Articolo LUNI pag. 945, si dovrà di ragione concludere, che non solo a quell'età, ma ancora sotto la dinastia longobarda, gli Ebrei potevano acquistare liberamente e possedere beni immobili, se non per tutta Italia, di certo nella Toscana orientale.


    LUCCA (DUCATO di). – Il Ducato di Lucca è sottentrato al Principato, e questo alla sua Repubblica. – Non è per anco conosciuta la quantità de' quadrati agrarj che occupano la superficie territoriale dello Stato Lucchese, il quale si suole suddividere nel Contado delle Sei miglia intorno alla capitale; in quello della Marina nel terzo della Montagna. Spettano al primo i Comuni di Lucca, e di Capannori , al secondo i Comuni di Viareggio, Camajore e di
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    Montignoso, al terzo i Comuni di Pescaglia, di Borgo, di VillaBasilica, di Bagno, di Coreglia, di Gallicano, e di Minucciano. I due Comuni di Minucciano e di Montignoso sono staccati dal territorio unito, siccome lo era quello di Castiglion di Garfagnana, ceduto all' amministrazione politica del Duca di Modena. In tutte dodici Comuni dei quali s’ indicherà qui sotto la popolazione respettiva ed il numero dei popoli all’ anno 1844. Tutto il Ducato lucchese nel 1744, compreso il territorio staccato di Castiglione di Garfagnana, contava 114,693 Abitanti repartiti allora in 15 Comunità ed in 14 Vicarie. Nel 1832 senza la Comunità di Castiglione sud detto noverava 149897 Abitanti e nel 1844 era salilo a 175,169 Abitanti
    La Citta' di LUcca dentro le mura nel 1744 costituiva una Comunità con 20770 Abitanti separatamente dai luoghi suburbani che ascendevano in detto anno a 7708 anime, ed alla vicaria di Nozzano che formava un’ altra Comunità con 5552 anime. – Totale della popolazione delle due Comunità nel 1744 28030 mentre nel 1844 il solo Comune di Lucca contava 64656 abitanti.
    La Comunità e la vicaria del Bagno di Lucca nel 1744 noverava 7567 anime e nel 1844 ne aveva 8854.
    La Comunità e vicaria del Borgo nel 1744 contava 6178 anime e nel 1844 benché diminuita di 6 popoli dati alla nuova Comunità di Pescaglia ne aveva 8989.
    La Comunità e vicaria di Camajore nell'anno 1744 contava 8616 abitanti, e nel 1844, comecché avesse ceduto nel 1838 due popoli alla nuova Comunità di Pe scaglia, noverava 15019 Abitanti.
    La Comunità e vicaria di Capannoni nell' anno 1744 era composta di due vicarie, quella di Capannori di 32595 Abitanti e della vicaria di Compito di 4908
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    Abitanti – Totale Abitanti 37503. Essa frattanto nel 1844 contava 36652 Abitanti.
    Comunità e vicaria di Coreglia nel 1774 contava 3186 anime, e nel 1844 ne aveva 4517.
    Comunità e vicaria di Gallicano nel 1744 noverava Abitanti 2464, e nei 1844 ne aveva 3619.
    Comunità e vicaria di Minucciano nel 1744 aveva 2016 anime, e nel 1844 ne contava 2243.
    Comunità e vicaria di Montignoso nel 1744 noverava 921 anime, e nel 1844 essa contava 1465 Abitanti
    Comunità e vicaria di Pescaglia nel 1744 aveva 5052 anime e nel 1844 ne contava 6950.
    Comunità e vicaria di Viareggio nel 1744 contava anime 2279, e nei 1844 era salita a 14145!!!
    Comunità e vicaria di Villabasilica nel 1744 noverava 7275 anime, e nel 1844 ne aveva 8060.
    NB. La Com.unitàe vicaria di Castiglione di Garfagnana nel 1744 contava 2010 anime, che in tutte sommavano, come dissi, in detto anno a 114,693 Abitanti mentre nel 1844 senza la Comunità di Castiglione, il Ducato di Lucca noverava 175,169 anime.
    All'Articolo ComunitA' di Lucca pag. 888 del Volume II dove si dice, che il ramo maggiore del Serchio lambisce il Monti cello di S. Quirico, si aggiunga: innanzi di passare sotto il Ponte di S. Pietro, altre volte appellato del Marchese ecc – Vedere OzzERi e SERCHIO. –Nel 1744 il Comune di Lucca contava, come si disse, 28030 Abitanti. Nel 1832 aveva 58,768 Abitanti; nel 1837 ne contava 65359, dal qual Comune nel 1838 furono staccate N.° 12 sezioni per darle alla nuova vicaria di Pescaglia, in guisa che nel 1844 noverava Abitanti 64,656, come appresso:

    POPOLAZIONE del Ducato di Lucca. divisa ne’ suoi 12 Comuni all’ anno 1844.

    COMUNE DI LUCCA
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    /> LUCCA (Città), Abitanti N.° 24894
    Alessio (S.), Abitanti N.° 776
    Anna (S.), Abitanti N.° 2200
    Angelo ( S. ) in Campo , Abitanti N.° 353
    Antraccoli, Abitanti N.° 753
    Aquilea, Abitanti N.° 539
    Arancio, Abitanti N.°  332
    Arliano, Abitanti N.°  148
    Arsina, Abitanti N.° 298
    Balbano, Abitanti N.°  630
    Cappella e Montecatini, Abitanti N.°  624
    Carignano e Busdagno, Abitanti N.° 510
    Cassiano (S.) a Vico, Abitanti N.° 1222
    Cassiano (S.) di Moriano, Abitanti N.° 144
    Castagnori, Abitanti N.°  139
    Castiglioncello, Abitanti N.°  189
    Cerasomma, Abitanti N.° 419
    Chiatri, Abitanti N.°  275
    Ciciana, Abitanti N.° 211
    Concordio (S.) a S. Colombano, Abitanti N.° 1825
    Concordio (S.) di Moriano, Abitanti N.°  158
    Deccio di Brancoli, Abitanti N.° 195
    Donato (S.) nel suburbio , Abitanti N.° 768
    Fagnano, Abitanti N.° 416
    Filippo (S.) nel suburbio , Abitanti N.° 512
    Farneta, Abitanti N.°  301
    Formentale, Abitanti N.°  97
    Gattajola, Abitanti N.° 358
    Gemignano (S.) di Moriano, Abitanti N.°  292
    Giusto (S.) di Brancoli, Abitanti N.°  482
    Gugliano, Abitanti N.° 159
    Ilario (S.) di Brancoli, Abitanti N.°
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     82
    Lorenzo (S.) a Vaccoli, Abitanti N.° 1326
    Macario (S.), Abitanti N.°  675
    Maggiano, Abitanti N.° 242
    Maria (S.) a Colle, Abitanti N.° 1071
    Maria (S.) del Giudice, Abitanti N.°  2139
    Marco e Jacopo (SS.) nel subur bio , Abitanti N.°  1229
    Martino (S.) in Vignale, Abitanti N.° 170
    Massa Pisana, Abitanti N.° 308
    Michele (S.) in Escheto, Abitanti N.° 183
    Mastiano e Mammoli, Abitanti N.° 381
    Meati, Abitanti N.° 222
    Michele (S.) di Moriano, Abitanti N.° 486
    Monte S. Quirico, Abitanti N.° 1673
    Montuolo, Abitanti N.°  766
    Magnano, Abitanti N.° 217
    Mutigliano, Abitanti N.°  258
    Nave, Abitanti N.° 728
    Nozzano, Abitanti N.° 1321
    Ombreglio di Brancoli, Abitanti N.° 164
    Palmata, Abitanti N.°  173
    Pancrazio (S.), Abitanti N.° 419
    Picciorana, Abitanti N.° 557
    Piazza di Brancoli, Abitanti N.°  368
    Piazzano, Abitanti N.°  259
    S. Pietro a Vico, Abitanti N.° 1388
    Pieve S. Stefano, Abitanti N.° 517
    Pieve di Brancoli, Abitanti N.°  408
    Ponte S. Pietro, Abitanti N.° 320
    Pontetetto, Abitanti N.° 320
    Pozzuolo, Abitanti N.° 143
    Quirico (S.) di Moriano, Abitanti N.°  294
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    /> Saltocchio, Abitanti N.° 577
    Sesto a Moriano, Abitanti N.° 322
    Sorbano del Giudice, Abitanti N.° 281
    Sorbano del Vescovo, Abitanti N.°  414
    Stabbiano, Abitanti N.° 193
    Stefano (S.) di Moriano, Abitanti N.°  565
    Tempagnano di Lunata, Abitanti N.° 477
    Torri ( Pieve e Cerreto ), Abitanti N.° 577
    Tramonle di Brancoli, Abitanti N.°  102
    Vecoli, Abitanti N.° 192
    Vicopelago, Abitanti N.°  201
    S. Vito a Lunata, Abitanti N.° 665
    TOTALE, Abitanti N.° 64656

    II. COMUNE DI CAMAJORE

    Camajore (Città), Abitanti N.° 2220
    Vicinanza, Abitanti N.°  3610
    VadoeGello, Abitanti N.° 863
    Montebello e Greppolungo, Abitanti N.° 440
    Antigiana, Albiano e Fibbialla, Abitanti N.° 518
    Casali, Abitanti N.°  940
    Fibbialla, Abitanti N.° 280
    Gombitelli e Puosi, Abitanti N.°  427
    Lombrici e Metato, Abitanti N.° 428
    Lucia (S.), Abitanti N.° 398
    Migliano, Abitanti N.°  120
    Monteggiori, Abitanti N.° 389
    Montemagnole, Ricetro, Abitanti N.° 490
    Nocchi, Abitanti N.° 540
    Orbicciano, Abitanti N.° 372
    Pedona, Abitanti N.°  842
    Pieve di Camajore , Abitanti N.° 1446
    Pontemazzori, Abitanti N.° 298
    Torcigliano di Camajore , Abitanti
  •    pag. 221 di 230
    N.°
    180
    Valpromaro , Abitanti N.° 218
    TOTALE, Abitanti N.° 15019

    III. COMUNE DI CAPANNORI

    Capannori, Abitanti N.° 2100
    Badia di Pozzeveri, Abitanti N.° 997
    Badia di Cantignano, Abitanti N.° 314
    Castelvcccbio, Abitanti N.° 572
    Carraja, Abitanti N.°  623
    Compito (S. Andrea a), Abitanti N.°  781
    Compito(Pieve a), Abitanti N.° 790
    Colle di Compito, Abitanti N.° 1406
    Colle di Compito (S. Ginese a), Abitanti N.° 986
    Colle di Compito (S. Giusto a), Abitanti N.° 184
    Caselli, Abitanti N.°  292
    Gennaro (S.), Abitanti N.° 1356
    Guamo (SS. Pietro, Quirico e Cassiano in S. Michele a), Abitanti N.° 872
    Colognora di Compito, Abitanti N.° 227
    Pietro (S.) a Marcigliano, Abitanti N.° 210
    Leonardo (S.) in Triponzio, Abitanti N.° 224
    Margherita (S.), Abitanti N.°  762
    Massa Macinaja, Abitanti N.°  1064
    Paganico, Abitanti N.° 299
    Parezzana, Abitanti N.°   275
    Pieve S. Paolo, Abitanti N.°  1229
    Tassignano, Abitanti N.°  903
    Ruola, Abitanti N.° 487
    Porcari, Abitanti N.° 3182
    Toringo, Abitanti N.° 339
    Verciano (SS. Vincenzo e Stefano a), Abitanti N.° 717
    Caprile (S. Andrea in), Abitanti N.°  215
    Vorno, Abitanti N.°  1306
    Carnigliano, Abitanti N.°
  •    pag. 222 di 230
     1243
    Gragnano, Abitanti N.°  1430
    Laminari, Abitanti N.°  2800
    Lunata, Abitanti N.° 800
    Marlia, Abitanti N.°  2304
    Matraja, Abitanti N.° 933
    Colle (S. Martino in), Abitanti N.°  359
    Colombano (S.), Abitanti N.° 475
    Segromigno, Abitanti N.° 2517
    Volgiano, Abitanti N.° 286
    Petrognano, Abitanti N.° 232
    Tofari, Abitanti N.°  346
    TOTALE Abitanti N.°  36632

    IV. COMUNE DEL BAGNO

    Bagno, Abitanti N.° 917
    Benabbio, Abitanti N.° 1034
    Brandeglio, Abitanti N.° 413
    Casabasciana, Abitanti N.°  599
    Palleggio, Abitanti N.° 150
    Casoli di Val di Lima, Abitanti N.° 217
    Coccilia, Abitanti N.° 98
    Controne (S. Cassiano a), Abitanti N.° 771
    Limano, Abitanti N.°  605
    Controne (S. Gemignano di), Abitanti N.°  279
    Controne (Pieve di), Abitanti N.° 822
    Crasciana, Abitanti N.° 558
    Lugliano, Abitanti N.° 439
    Lucchio, Abitanti N.° 402
    Montefegatesi, Abitanti N.° 623
    Ponte a Serraglio, Abitanti N.° 347
    Vico Pancellorum, Abitanti N.°  580
    Totale Abitanti N.° 8854

    V. COMUNE DEL BORGO

    Borgo, Abitanti N.° 866
    Anchiano, Abitanti N.° 515
    Cerreto di sopra, Abitanti N.° 258
    Cerreto
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    di sotto, Abitanti N.° 442
    Chifenti, Abitanti N.° 247
    Coriagna, Abitanti N.° 930
    Cuna, Abitanti N.°  313
    Dezza, Abitanti N.° 196
    Diecimo, Abitanti N.° 873
    Domazzano, Abitanti N.°  141
    Fonioli, Abitanti N.° 408
    Gloriano, Abitanti N.° 357
    Granajola, Abitanti N.° 284
    Lagnano, Abitanti N.°  278
    Pieve di Monti di Villa, Abitanti N.° 661
    Parfigliano, Abitanti N.° 335
    Oneta, Abitanti N.°  280
    Rocca di Mozzano, Abitanti N.°  267
    Tempagnano, Abitanti N.° 319
    Valdottavo, Abitanti N.°  989
    TOTALE Abitanti N.°  8989

    VI. COMUNE DI VILLABASILICA

    VILLA BASILICA, Abitanti N.°   1658
    Aramo, Abitanti N.° 233
    Boveglio, Abitanti N.°  561
    Colognora, Abitanti N.°  562
    Collodi, Abitanti N.° 1390
    Fibbialla, Abitanti N.°  204
    Medicina, Abitanti N.° 290
    Pariana, Abitanti N.° 790
    Pontito, Abitanti N.° 421
    Qmrico (S.), Abitanti N.° 585
    Stiappa, Abitanti N.°  347
    Veneri, Abitanti N.° 1019
    TOTALE Abitanti N.° 8060

    VII. Comune di Gallicano

    GalLIcano, Abitanti N.° 1317
    Verni, Abitanti N.° 235
    Bolognana, Abitanti N.° 220
    Cardoso di Gallicano , Abitanti N.° 409
  •    pag. 224 di 230
    /> Romano (S.), Abitanti N.° 267
    Fittone, Abitanti N.° 323
    Perpoli, Abitanti N.° 226
    Treppignana, Abitanti N.° 166
    Riana, Abitanti N.° 226
    Lupinaja, Abitanti N.°  230

    VIII. COMUNE DI COREGLIA

    Coreglia, Abitanti N.° 1615
    Gromignana, Abitanti N.° 370
    Piano di Coreglia, Abitanti N.° 494
    Tereglio, Abitanti N.° 766
    Ghivizzano, Abitanti N.° 597
    Vitiana, Abitanti N.° 326
    Lucignana, Abitanti N.°  319
    TOTALE Abitanti N.° 4517

    IX. COMUNE DI MONTIGNOSO

    MONTIGNOSO TOTALE Abitanti N.° 1465

    X. COMUNE DI MINUCCIANO

    Minucciano, Abitanti N.° 361
    Agliano, Abitanti N.° 131
    Pieve S. Lorenzo, Abitanti N.°  347
    Albiano, Abitanti N.° 105
    Gramolazzo, Abitanti N.° 145
    Gorfigtiano, Abitanti N.°  557
    Castagnola, Abitanti N.° 85
    Pugliano, Abitanti N.° 229
    Metra, Abitanti N.° 118
    Sermezzana, Abitanti N.°  165
    TOTALE Abitanti N.° 2243

    XI. COMUNE DI PESCAGLIA

    Pescaglia (1), Abitanti N.° 1010
    Ansana (1), Abitanti N.° 47
    Batoni (1), Abitanti N.° 59
    Castello di Val di Roggio (2), Abitanti N.°  279
    Colognora (2), Abitanti N.° 478
    Vetriano e Fabbriche (2), Abitanti N.° 362
    Convalle (1),
  •    pag. 225 di 230
    Abitanti N.°  27
    Fiano (1), Abitanti N.° 488
    Focchia e Barbamento (1), Abitanti N.° 283
    Fondagno (2), Abitanti N.°  134
    Monsagrati (1), Abitanti N.° 463
    Frenello (1), Abitanti N.° 25
    Gclto (2), Abitanti N.° 582
    Loppeglia (l), Abitanti N.° 186
    Motrone (2) Abitanti N.° 264
    Martino (S) in Freddana (1), Abitanti N.°  295
    Pascoso (3), Abitanti N.° 883
    Piegaja (1), Abitanti N.°  447
    Rocco (S.) in Torrite (3), Abitanti N.° 326
    Torcigliano (1), Abitanti N.° 162
    Villa a Roggio (2), Abitanti N.°  150
    TOTALE Abitanti N.° 6950

    NB. Le sezioni del Comune di Pescaglia contrassegnate col N.° (1) innanzi il 1838 svettavano al Comune di Lucca; quelle di N.° (2) al Comune di Borgo; e l’ altre di N° (3) al Comune di Camajore.

    XII. COMUNE DI VIAREGGIO

    Viareggio (città), Abitanti N.° 6546
    Bargecchia, Abitanti N.° 591
    Bozzano, Abitanti N.° 1113
    Campignano o Corapignano, Abitanti N.°  127
    Corsanico, Abitanti N.° 719
    Gualdo, Abitanti N.° 209
    Massaciuccoli, Abitanti N.° 218
    Massarosa, Abitanti N.°  1033
    Mommio, Abitanti N.°  245
    Montigiano, Abitanti N.°  330
    Pieve a Ilice, Abitanti N.° 489
    Quiesa,
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    Abitanti N.°  857
    Stiava, Abitanti N.° 968
    Torre al Lago, Abitanti N.° 700
    TOTALE Abitanti N.° 14145

    RECAPITOLAZIONE
    della popolazione del DUCATO DI LUCCA all’anno 1844

    I. COMUNE DI LUCCA Abitanti N° 64656
    II. COMUNE DI CAMAJORE, 15019
    III. COMUNE DI CAPANNORI, 36652
    IV. COMUNE DEL BAGNO, 8854
    V. COMUNE DEL BORGO, 8989
    VI. COMUNE DI VILLABASILICA, 8060
    VII. COMUNE DI GALLICANO, 3619
    VIII. COMUNE DI COREGLIA, 4517
    IX. COMUNE DI MONTIGNOSO, 1465
    X. COMUNE DI MINUCCIANO, 2243
    XI. COMUNE DI PESCAGLIA, 6950
    XII. COMUNE DI VIAREGGIO, 14145
    TOTALE Abitanti N°  175169

    ACQUEDOTTI DI LUCCA. Era già gran tempo che la città di Lucca abbisognava di buon'acqua potabile, poichè ivi le cisterne e le acque dei pozzi non sono purissime.
    La Repubblica di Lucca pensò di provvedervi, e a tal effetto vari progetti furono proposti e soventi volte ventilati senza che alcuno ricevesse la sanzione del Consiglio deliberante.
    Appena assunse le redini di questo Stato la principessa Elisa sorella di Napoleone intenta com'era ad accrescere decoro alla sua capitale, rivolse l'animo anche all'importante oggetto delle pubbliche fonti, giovandosi delle acque limpide che sgorgano dal fianco settentrionale del Monte Pisano presso il villaggio di Vorno, due buone miglia a ostro della città. Dopo una tale deliberazione fu posto mano all'allacciatura delle acque che scaturiscono da varie copiose polle nel poggio di Massa Macinaja, e successivamente fu data in accollo la grande impresa dell'Acquedotto ad archi, i quali furono eseguiti in parte durante il Regime che l'ordinò, sebbene gli acquedotti più bassi riuscissero degli attuali. La qual'opera restò interrotta al cambiamento politico delle cose d'Italia, finché non salì sul trono del Ducato lucchese la regina Maria Luisa di Borbone. Essa, sulla proposizione e al seguito di un piano esebitole
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    dal Gonfaloniere Nicolao Giorgini, ordinò che fosse proseguita l'opera a forma del progetto che le fu presentato dal R. architetto Lorenzo Nottolini in modo che 20000 barili al giorno fossero portati dagli Acquedotti in Lucca a tale livello da poter giungere sino ai primi piani delle case. Lo che si ottenne col portare ad una maggiore elevazione gli archi, e aumentare in proporzione la mole dei pilastri, la cui altezza ragguagliata sale a braccia ventidue. Si pensò ancora di accrescere la copia delle acque con quelle del vicino rivo perenne, destinando le ultime alla decorazione delle fontane e agli usi economici meno delicati. Le quali racchiuse in separato doccione, conducendole di conserva in conserva camminano unitamente all'acqua potabile in sotterranei condotti per il tragitto di mezzo miglio lungo le pendici del poggio. Giunte entrambe al grandioso e vago Castello rotondo costruito tutto di pietre quadrate delle vicine cave di Vorno, esse attraversano il piano meridionale di Lucca da ostro a settentrione in linea retta sopra una serie di circa 400 arcate da solidi altissimi pilastri sorrette sino a che l'Acquedotto presso al pomerio della città s'introduce in una magnifica Cisterna di pietrame lavorato. Questa, a guisa di rotonda contornata da un cornicione, e da colonne che lo sorreggono, fa bella mostra di se in mezzo a quelle ridenti campagne. Di la per canale sotterraneo le acque, introdotte in tubi di ferro fuso, passano sotto ai fossi delle mura urbane, attraversando il bastione di S. Colombano, da dove debbono diramarsi in varie piazze ed in altri luoghi della città. Già sino dal giugno 1832 la piazza della cattedrale gode di questo benefizio.

    VIA, o STRADA FERRATA DA LUCCA A PISA. – E’ la seconda Via a rotaja di ferro che per ragione di anzianità stà attualmente costruendosi da Lucca a Pisa, dove attesterà con la Strada Ferrata Leopolda già in attività per Livorno.

    VIA, o STRADA
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    FERRATA DA LUCCA AL CONFINE DEL DUCATO CON PESCIA. – Questa strada concessa nel 18 dicembre dell’anno 1844 sarà un nuovo tronco della precedente con gli stessi oneri e privilegj imposti e conceduti dal Duca di Lucca alla sua Società Anonima , onde agevolare i transiti della provincia di Val di Nievole e togliere ogni ostacolo all’effettuazione del grandioso progetto di porre in comunicazione, mediante un cammino ferrato, i dominj toscani e lucchesi colla Lombardia e la Romagna, il mare Tosco con l’Adriatico.

    STRADA FERRATA DA LUCCA A PISA. Questa Strada,la seconda per anzianità, sarà ancora, si spera, la prima dopo la LEOPOLDA ad essere attivata, mentre le maggiori difficoltà dei lavori che presentavansi al taglio del monte per cui i Pisan veder Lucca non ponno , sono stati facilmente, sebbene con gran dispendio, eseguiti, talchè non restando altro che un terzo della stessa strada per arrivare a Pisa, è presumibile che essa sarà compita innanzi che termini l’ anno attuale 1846.


    ARCIVESCOVATI DELLA TOSCANA. Sono quattro: Firenze, Pisa, Siena e Lucca. – Il primo per ordine di anzianità è quello di Pisa; creato nel 1092 dal pontefice Urbano II, che ne investì Daiberto, il celebre conduttore della Crociata toscana alla conquista di Gerusalemme; decorandolo del titolo di Patriarca, di Metropolitano della Corsica, e di Primate della Sardegna.
    I vescovi suoi suffraganei furono quelli di Ajaccio, di Aleria e di Sagona nella Corsica. Nel continente toscano aveva quello di Populonia, dato in seguito (1459) all’Arcivescovo di Siena, aggiuntivi più tardi i vescovi di Livorno e di Pontremoli.
    Secondo, rapporto all’epoca, primo come Mtropolitano è l’Arcivescovato di Firenze che conta quest’onoreficenza dall’anno 1420, quando Martino V ne rivestì il Vescovo Amerigo Corsini. Sono suffragenei della chiesa fiorentina i Vescovi di Fiesole, di Pistoja e di Prato, di Sansepolcro, di Colle e di Sanminiato.
    La cattedrale di Siena fu eretta in chiesa Arcivescovile dal pontefice Pio II con bolla dell’anno
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    1459, con la quale le furono date per cattedrali suffragenee quelle di Chiusi, di Sovana, di Grosseto e di Massa marittima.
    All’antico Vescovato di Lucca fu dal pontefice Benedetto XIII accordato nel 1726 il titolo Archiepiscopale molto dopo le onorificenze del pallio e della croce che godeva sino dal secolo XII per bolla di Callisto II del 1120.
    Ebbe un Vescovo suffraganeo nel 1822, quando fu eretto il nuovo Vescovato di Massa di Carrara con una porzione della Diocesi di Sarzana e quella di Lucca.


    ZECCHE DIVERSE della Toscana. – Le Zecche più antiche della Toscana sono quelle di Lucca, di Pisa e di Firenze. Le prime due incominciarono a coniare lire, soldi e denari di argento e di oro fino dai tempi Longobardi, quella però di Firenze fu posteriore allo stabilimento della sua repubblica. Ignazio Orsini, per lasciare di tanti altri scrittori, ha occupato un intiero libro per riportare i vari conj col nome de' zecchieri sotto la repubblica fiorentina, a partire dal 1252, epoca in cui Firenze cominciò a battere la buona moneta del fiorino d’ oro. Infatti debbesi ai Fiorentini la gloria di essere stati i primi a ristabilire in Italia il conio delle monete pure di oro abbandonato per lungo tempo dalle altre città. Di epoca quasi contemporanea, ma sul declinare del secolo XII sono le Zecche delle città di Siena, di Volterra e di Arezzo, cui succederono le lire Cortones.i Tratto con criterio delle prime il Sig. Giuseppe Porri in un bel Saggio sulla Zecca sanese pubblicato nel 1844; disertò sulle seconde il ch. Pagnini nella sua Opera della Decima, e discorsero della terza il Cav. Guazzesi e di recente il Dott. Antonio Fabroni, mentre versò sulle monete di Cortona
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    il cortonese Alticozzi in un capitolo della sua Lettera apologetica al libro dell’ antico Dominio del Vescovo di Areno in Cortona.
    Di breve durata fu la Zecca di Massa Marittima, e dubbie mi sembrano le monete attribuite alle città di Pistoja e di Chiusi.
    Le Zecche più recenti della Toscana sono quelle de' marchesi Malaspina di Fosdinovo e de' marchesi Cybo Malaspina di Massa di Carrara, la prima instituita o piuttosto ripristinata nel 1666, ed ora soppressa; la seconda aperta in Massa nel 1550, e tuttora esistente al pari di quelle di Lucca, di Firenze e di Pisa, l'ultima delle quali trovasi riunita alla Zecca di Firenze. Tutte le altre sono state da lunga mano inibite, oppure soppresse.
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Localizzazione
ID: 2479
N. scheda: 28520
Volume: 1; 2; 5; 6S
Pagina: 42 - 43, 109 - 110; 819 - 908; 738 - 739, 838 - 839; 126 - 131, 275
Riferimenti:
Toponimo IGM: Lucca
Comune: LUCCA
Provincia: LU
Quadrante IGM: 105-4
Coordinate (long., lat.)
Gauss Boaga: 1621036, 4855659
WGS 1984: 10.50656, 43.84566
UTM (32N): 621100, 4855833
Denominazione: Lucca - Acquedotti di Lucca - Arcivescovati della Toscana (Arcivescovato di Lucca) - Zecche Diverse (Lucca) - Via, Strada ferrata da Lucca a Pisa - Via, Strada ferrata da Lucca al confine del Ducato con Pescia
Popolo: S. Martino a Lucca
Piviere: S. Martino a Lucca
Comunità: Lucca
Giurisdizione: Lucca
Diocesi: Lucca
Compartimento: x
Stato: Ducato di Lucca
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