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Dizionario Geografico Fisico
e Storico della Toscana

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Luni - Lunigiana

 

(Luni)

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    LUNI ( LUNA ) nella Val di Magra. Piccola città distrutta di origine etrusca, per quanto sia stata per molto tempo dominata dai Liguri, cui sottentrarono i Romani, dai quali la, città col suo distretto fu riunita al governo di Pisa, e conseguentemente alla provincia toscana. Quindi Luni sotto il triumvirato di Ottaviano, M. Antonio e Lepido dové acocogliere una colonia militare. Dal dominio imperiale passò in potere dei Visigoti. quindl tornò ligia degl’Imperatori d'Oriente, cui fu tolta al prinicipio del secolo VII dai Longobardi che la riunirono pacificamente al loro regno. Vinti cotesti, ed espulsi dai Franchi, Luni decadde ogni giorno più sotto il regno de’Carolingi. Finalmente saccheggiata varie volte da genti di mare e disertata di abitatori dai ristagni palustri, che resero ogni giorno più malsano quel suolo, nel secolo XV fu totalmente abbandonata anche dal clero, quando si trasportarono a Sarzana con le reliquie di Luni le onorificenze di città.
    Rare, e meschine macerie, di cui l'edifizio maggiore attualmente si riduce alla semidiruta ossatura di un mediocre anfiteatro, trovansi quà e là sepolte nell’arenosa campagna fra la strada postale di Genova e il littorale della così detta Marinella , un miglio toscano a ponente della fiumana Parmignola , e due a levante del fiume Magra; dalla cui foce i campi di Luni sono un buon miglio toscano distanti; tre miglia toscane a grecale del promontorio del Corvo, 9 da quello di Portovenere, 5 miglia toscane a libeccio di Carrara; 7 in 8 dalle cave dei suoi marmi, e miglia toscane 2 e 1/2 a ponenete di Avenza, nella parrocchia di Casano, Comunità e circa 2 miglia toscane a libeccio di Ortonovo, Mandamento, Diocesi e miglia toscane 3 e 1/2 a scirocco di Sarzana, Provincia di Levante, Regno Sardo.
    La situazione geografica della distrutta Luni corrisponde al grado 27° 40’ 3’’ di longitudine e 44° 4’ 2’’ di latitudine, appena un miglio toscano lontana dal lembo del mare.
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    – In conseguenza dalle arene di Luni, guardando a ostro la vista si spazia sopra un vasto pelago; mentre da settentrione le fanno spalliera i poggi di Fosdinovo, Castelnuovo e Ortonovo; dal lato di grecale e di levante la sublime e nuda rupe marmorea dell’Alpe Apuana; e voltando l'occhio verso libeccio la visuale confina coi promoniorii di Porto Venere, e del Corvo, i quali chiudono il magnifico golfo di Luni, ora detto della Spezia.
    I castelli di Amelia, di Sarzanello, di Fosdinovo, Castelnuovo, Ortonovo, Nicola, ec. situati sui poggi testé accennati, fanno ridente corona al piano di Luni, e sono un opposto contrasto a quella spopolala e insalubre spiaggia.
    Se di non poche città dirute scarseggiano monumenti al punto che si disputa ognora dagli archeologi sulla loro più probabile ubicazione, Luni è certamente di questo numero una. Conciossiachè, trovandosi essa collocata sul confine di due nazioni nemiche, iu un suolo controverso, battagliato e spesse volte macchiato di sangue umano, non deve recar maraviglia se in varii tempi fu disputato non solamente dell'origine e vicende, ma ancora della vera posizione di questa città.
    Chi frattanto ricercasse le varie opinioni sulla ubicazione di Luni, troverebbe, che Frate Annio da Viterbo la confuse con Carrara, che l'archeologo perugino Giacinto Vincioli la scambiò con l’Avenza; che Cluverio, Lami, e Chabrol la posero alla destra del fiume Magra, che Luigi Bossi la traslocò nel sito di Sarzana e che fuvvi perfino chi la mandò nel fondo del golfo, là dove è sorta la moderna città di Spezia, come è stato di corto congetturato da un dotto storico e da un letterato genovese. – Finalmente per una strana combinazione Scipione Maffei disse, che dopo essersi arggiriato più volte nei luoghi che furono sede alla stessa città, non solo non gli riescì di trovare ilsuo anfiteatro, ma nè tampoco alcuna di quelle ch’egli chiama pretese rovine di Luni .
    Tanto si favoleggiò sopra questa povera città, che Fazio
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    degli Uberti, Giovanni Villani, Francesco Petrarca e Leandro Alberti fecero delle avventure di Luni un’altra romanzesca Troja, sicchè per cagione di un amoroso intrigo contavano di essa, che

    Fu alla fine disfatta e confusa.

    A mostrare tutte le stranezze che dagli scrittori di diverse età si dissero di Luni, non tacerò di Giulio Cesare Scaligero, che la suppose subissata nell'onde, mentre galleggiante sopra l’onde, per conto del matematico Domenico Vandelli, doveva restare, tostochè in una sua memoria Della vera posizione di Luni e della vasta e reale posizione del suo porto, delineò il cratere di questo golfo, a partire dal promontorio del Corvo sino alla rupe di Montignoso, lambendo la base dei poggi che gli fanno corona. ( Vedere la stessa Memoria MS. nella Bibl. Marucelliana di Firenze A . CCXXIX. 2).
    Giunge opportuno fra tanti dispareri il giudizio accompagnato dall'ispezione locale di un erudito R. antiquario piemontese, qual è il signor Carlo Promis. Avvgnachè egli dopo avere visitato i campi di Luni, i monumenti e le lapide state scoperte nei recenti scavi, ebbe ordine di proseguire nuove escavazioni per conto di S. M. Sarda nel terreno donato dal Marchese Remedi. Reduce nella capitale il signor Promis dopo reso conto al suo Re dell’onorevole missione, ha fatto di pubblico diritto un’opera che ha per titolo Memorie della città di Luni , destinata a far parte del T. I, Serie II degli Atti della R. Accademia delle scienze di Torino.
    Avendo potuto per gentilezza di quei scienziati ottenere una copia di esse Memorie per mia istruzione, mi è grato raccomandarle a coloro i quali bramassero in poche pagine aver sott’occhio quanto fu scritto di vero e di falso sopra quella distrutta città e sue attinenze.
    È un diligente lavoro diviso in quattro capitoli, nel primo dei quali si discorre della topografia della città e del porto di Luni; nel secondo vien trattata in
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    succinto la sua storia; il terzo è dstinato a far conoscere l’antico suo commercio; finalmente nel quarto si riportano i monumenti superstiti, cui fa appendice il corpo epigrafico delle iscrizioni genuine sceverate da quelle spurie, che pur esse vengono riportate in calce del libro.
    In quanto alla topografia della città di Luni sembrò al Sig. Promis oscuro per lo meno, se non anche corrotto, quell passo di Strabone ( Geogr. Lib. V .) dove dice, che tra Luni e Pisa è un luogo ( cwrion ) detto Macra, che molti scrittori pongono fra l'Etruria e la Liguria. Ma con la positiva asserzione di Plinio, soggiunse il sig. Promis, e di altri antichi autori che presero per Macra quel fiume

    .... Che per cammin corto
    Lo Genovese parte dal Toscano,


    è forza concludere esservi in quel passo di Strabone un’errore, prodotto probabilmente dalla mancanza di locale ispezione, benchè avesse egli viaggiato in Etruria.
    Per verità mi trovo costretto a dichiarare che io mi era altre volte occupato a studiare quel testo di Strabone, all'occasione in cui fu pubblicato nell'Antologia del settembre 1829, Vol. XXXV, un mio urticolo relativo a una memoria sul Golfo della Spezia, pubblicata dal conte Chabrol de Volvic ; nella quale questo dotto economista, volendo stare alla nuda lettera di Strabone, pose a Lerici la città di Luni, per situare fra questa e Pisa il cwrion , ossia la contrada della Val di Magra.
    Io non dirò se la greca voce di cwrion (piccola regione) debba spiegarsi per luogo, o per il fiume stesso Magra; dirò bensì che a me sembrò più coerente alla parola  cwrion la contrada piuttosto che il fiume posto fra la Liguria e l'Etruria, da cui prende nome la Val di Magra ; quella stessa vallata che sta fra Pisa e il porto di Luni.
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    – Arroge anche altra espressione, per cui Strabone volle servire d’interprete a sè medesimo; tostochè poco innanzi egli avvisava i suoi leltori, che soleva cbiamarsi Luna , tanto il porto, quanto la città. È bene mi sembra che nello stesso collettivo senso lo usasse T. Livio, sia allorchè, al libro XII cap. 19, e nuovamente al libro XIV cap. 9, parlava della sola città di Luna ; come ancora quando diceva del solo porto, allorchè scrisse al libro XXXIV cap. 8, e al libeccio XXXIX cap. 21 a Luna proficiscens ;… Lunam venit .
    Né io penso che sia da imputarsi a Strabone ignoranza sulla vera ubicazione della città di Luna , tostochè, discorrendo egli di quel gruppo di monti, che separano la valle superiore del Serchio dalla Lunigiana marittima, scriveva, che la città di Lucca trovasi poco distante dai monti che vanno a poggiare sopra Luna , volendo dire di quella giogana dell'Alpe Apuana, il di cui fianco occidentale anche dal divino poeta delle tre visioni fu attribuito a Luni, dove ronca Lo Carrarese che di sotto alberga siccome a Luni appartennero le carraresi lapidicine, mercè delle quali la memoria della distrutta città sarà durevole quanto quella della nuova sua figlia, Carrara.
    Una delle principali avvertenze da farsi, se mal non mi appongo, fia quella di dover noi conutemplare l'estensione dell’Etruria marittima secondo la misura stabilita dal greco geografo. Essendoché egli comprese nella Toscana, non solo la città di Luni posta fra l'Alpe Apuana, il mare e il fiurne Magra, ma ancora il magnifico porto lunense, sebbene si trovi alla destra del fiume e più che cento stadii discosto dalla città. Infatti Strabone segnò fra Luna e Pisa una distanza di più di 400 stadii; la qual misura riuscirebbe onninamente erronea per coloro che non volessero comprendere nella parola Luna anche il porto lunense; mentre dal luogo dove fu Luni
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    fino a Pisa si contano appena 296 stadii, pari a 37 miglia romane. – Di più lo stesso geografo tosto soggiunse, che in cotesta suddetta distanza evvi Luna città e Luna porto. La qual dichiarazione, a parer mio, è sufficiente per sè sola a dimostrare, non tanto che l'ubicazione della cttà era diversa dal porto, quanto che alla caduta della Repubblica romana, ed anco ai primi tempi di Augusto il porto lunense doveva trovarsi incluso nei confini dell'Etruria, piuttostochè in quelli della limitrofa Liguria.
    Domanderò poi, se chi non lo vide avrebbe saputo descrivere il porto lunense, ora il golfo della Spezia, con tali indicazioni topiche, siccome fu da Strabone rappresentato? e se alcuno prima di lui, o meglio di lui lo dipinse a un dipresso con queste frasi ? “ E la città di Luna a dir vero non grande, ma il vicino porto è grandissimo e bellissuno, che racchiude varii altri porti, tutti profondi sino alla spiaggia, e quale appunto si conveniva ad uomini, che per tanto tempo (cioè gli Etruschi) furono padroni di quel mare. – È desso porto attorniato da alti monti, dai quali vedesi il mare, la Sardegna e grart parte dell'uno e dell’altro lido , (cioè del mare Tosco, e Ligustico) ec.
    Rettificato alla meglio che da me si sapeva un passo di geografia antica toscana, stato assai volte messo in controversia a danno di Strabone, io ritorno alla parte istorica per dare un accenno di cotesta distrutta città. – Non volendo abusare dei miei lettori, io lascerò alle immagini dei poeti le glorie di Luna etrusca per cominciare dove principiano i documenti di Luni romana , e terminare cou Luni del Medio Evo .

    LUNI SOTTO I ROMANI SINO ALL’INVASIONE
    DEI BARBARI

    Non dirò della origine, nè del nome di Luna , che taluni alla figura falcata del
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    suo porto, altri alla pagana divinità, che presiede all'astro notturno, vollero attribuire, in guisa che dagli abitanti di Lunigiana è fama che s’imprimesse 1'emblema della Luna sulle grandi forme dei loro casci, se dobbian creder a Marziale che canto:

    Caseus Hetruscae signatus imagine Lunae.

    Checchè ne sia, nè il porlo lunense può dirsi di figura semilunare, tostochè è più lungo e profondo che largo; nè la città di Luni fu unica fra quelle dell’antica Italia a portare 1'emblema di Diana.
    Dovendo pertanto limitarci ai pochi fatti comprovati da scrittori meritevoli di fede, o a monumenti meno che equivoci, citerò fra i primi il notissimo verso di Ennio, ripetuto da A. Persio, poichè con quelle parole l'epico latino ne richiama alla seconda guerra punica, quando nell'anno 537 di Roma il console T. Manlio Torquato recossi con le romane legioni al porto di Luni per imbarcare e salpare di là in Sardegna; e nelle quali legioni Ennio era uno dei centurioni, sicchè il poeta, quasi sorpreso dalle naturali bellezze del grnadioso porto di Luni, dove la natura ha fatto tutto da se sola, iuvitava i suoi concittadini a visitarlo:

    Lunai portum est operae cognoscere cives.

    Non dirò di una seconda spedizione marittima effettuata vent’anni dopo sotto il comando del console M. Porcio Catone, allorchè un’altra armata navale dal porto di Luna prese alla vela per quello del Pireneo ( Roses ) in Spagna.
    Il quale ultimo fatto precedè di soli due anni la repentina sollevazione di varie tribù dei Liguri, che in numero di 20,000 penetrarono fino a Luni devastando, non solo questo territorio, ma di là lungo la spiaggia avanzandosi sino a Pisa.
    Con la scorta delle stesse parole di T. Livio, all’articolo LUCCA mi parve di rilevare da quelle frasi, che il territorio lunense dal lato della marina doveva essere immediatamente a contatto col distretto pisano, senza che allora vi s’interponesse quello
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    di Lucca, siccome avvenne nei tempi posteriori.
    Dopo discorse le guerre che i Romani ebbero a sostenere contro i Liguri finitimi della Lunigiana, finchè non ne estirparono la razza col traslocarli tutti nel Sannio il prelodato aulore delle Memorie di Luni si sofferma alquanto all'anno di Roma 577 (177 avanti l'Era Volgare) per cercare di provare che a Luni e non a Lucca fosse stata dedotta la colonia di 2000 romani, di cui a quell’anno stesso parlano T. Livio e Vellejo Patercolo.
    Lascerò ad altri il giudicare, se dopo tutto ciò che su tale dubbiezza sul nome della città e sulla contrada cui la colonia predetta venne assegnata, fu scritto, discusso e stampato; lascerò, io dicea, giudicare, se merita la pena di esser rimessa in campo una controversia che a molti sembrò decisa in favore di Lucca.
    Dell’opinione di questi ultimi io mi ero dichiarato agli articoli ALPE APUANA e LUCCA, indottovi prima di tutto dalle concordi sentenze de’due classici storici, testè rammentati; poscia dalla Tavola alimentaria scoperta nel secolo passato presso la distrutta Veleja; e finalmente da una compagnia d’illustri interpreti, che sostennero la lezione di Lucca e non di Luni, della cui schiera fanno parte Sigonio, Panvinio, Gronovio, Borghini, Cluverio, Cellario, Muratori, Lami, Targioni, il Pad. di Poggio, Oderico, il Pad. Cianelli e molti altri; senza tampoco voler far conto di avere il lunense territorio ascritto a quella stessa tribù Galeria, cui fu assegnato il distretto di Pisa.
    Non già che alcuno neghi alla città di Luni il titolo e le condizioni di colonia; essa lo fu, non però di diritto romano come era quella di Lucca, ma colonia di veterani venuti costà sotto il triumvirato di Ottaviano, di M. Antonio e di Lepido, vale a dire, quasi un secolo e 1/2 dopo quella di cittadini dedotti da Roma a Lucca.
    Nella speranza di assicurare a Luni l'onore di essere stata colonia
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    di cittadini romani, il prelodato sig. Promis apoggia la sua difesa ad una esperessione dello stesso T. Livio, là dove scrisse, che il territorio dato alla colonia lucchese era stato tolto ai Liguri, sebbene in origine appartenesse agli Etruschi. Quindi, il sig. Promis soggiunge: il territorio lucchese non poteva essere stato tolto ai Liguri, non avendolo essi mai occupato, cosicchè i monti Apuani ad altri non potevano essere aggiudicati che alla colonia lunense, essendo il territorio di Lucca ben da questo diviso per giusti e naturali confini. – (MEMOR. CIT.)
    Non starò ad aggiungere parole a quelle dette su tal proposito all' Articolo LUCCA, dove mi sembra di avere a sufficienza dimostrato, come non solo il municipio, o sia territorio comunitativo di Lucca, ma ancora quello della sua colonia faceva parte della Liguria, alla cui provincia dal senato di Roma la città e contado lucchese furono date nel tempo, in cui la città di Luni, il suo porto e distretto vennero assegnati al pretore romano di Pisa e conseguentemente alla regione Toscana, comecchè la contrada lunense fosse alla destra dell'Arno e in parte anche oltre la Magra.
    All'anno 702 di Roma, nel tempo della guerra civile fra Cesare e Pompeo, avvennero in Italia varii prodigi, sicchè per placare gli Dei, a detta del poeta Lucano, si ricorse all'oracolo di un aruspice etrusco, affinchè spiegasse quei portenti. La scelta cadde nel più anziano di tutti, che fu Aronte, abitante di Luni, alla quale dal poeta fu dato l'epiteto di deserta ,

    Quorum qui maximus aevo
    …Quorum qui maximus aevo
    Aruns, incoluit desertae moenia Lunae.


    Sarìa vano di voler indovinare la cagione della scarsezza di abitanti in Luni a quella età, ma qualunque essa fosse, fatto è che poco dopo (anno 713 di Roma) vi fu condotta a rinfrescare la vecchia città una colonia di veterani reduci dalla vittoria di Azio. Tale fu quella
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    di Luni, di cui fecero special menzione Sesto Giulio Frontino e Balbo nelle loro opere De Coloniis . Uno di questi autori avvisò, che l’agro lunense fu repartito con la stessa legge Giulia e nel modo medesimo, con cui si stabilì la colonia militare a Firenze; cioè, per centurie di 200 jugeri ciascuna, apponendovi i limiti con termini di legno a una distanza di piedi 40 dal lato Decomano, e di piedi 20 dal lato Cardine: Termini aliqui ad distinctionem numeri positi sunt, alii ad recturas linearum monstrandas. Aggiunge Balbo, che l’agro lunense, al pari dell’agro de’Sentinati nel Piceno, fu assegnato dalla legge triumvirale per limiti marittimi e montani, e quei luoghi furono consegnati ai coloni con jus ereditario .
    Sul qual proposito mi sembra di non dover passare in silenzio un’altra notizia resultante da quei libri relativamente ai limiti delle colonie mililari dedotte in quell'occasione nella Campania e nelle toscane maremme. Imperocchè nella stessa opera si notifica qualmente: “in origine dal divo Augusto fu ripartita ai veterani dei suoi eserciti una parte dei campi e delle selve nella regione di Campania, e lungo tutta la via Aurelia” ( cioè vecchia e nuova, ossia Emilia di Scauro ). “Nelle quali contrade non si posero termini di pietra, ma di legno sacrificali, distribuiti costà sino dallo stabilimento delle colonie. Però dopo qualche tempo, cioè, per ordine dell’Imperatore ( ERRATA : Adriano) Trajano, invece di limiti di legno, furonvi collocati dei termini lapidei, sui quali regolarmente vennero scolpiti i numeri per ordine progressivo fino al confine dell’agro alla respettiva colonia assegnato.” ( Oper. Cit .)
    Che cotesti termini lapidei, sostituiti a quelli di legno impeciato, avessero la forma parallelepippeda, lo disse Frontino medesimo a proposito dei limiti a tempo suo stati rimessi nel territorio di Veii per comando dato dall'imperatore Trajano; per ordine del quale Augusto fu anche scolpita in tavole di brunzo la forma e repartizione del
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    contado assegnato alla colonia militare di Veii: Postea variis in locis deficientibus veteranis, jussu imperatoris Caesaris Trajani, agri terminis lapidei sunt assignati: qui termini recipiunt mensuram parallelogrammam .
    Io avrei liberato i miei lettori dalla noia di queste incidenze letterarie, se non fosse accaduta poch’anni sono (1825) 1a scoperta di uno di quei termini marmorei del1a figura di sopra designata, da me annunziata all'articolo LAGO Dl PORTA; il qual termine situato lungo la via Aurelia nuova, ossia Emilia di Scauro, era sempre dentro gli antichi confini territoriali di Luni. In uno dei suoi lati leggevasi il numero CXIIX con due lettere doppie a somiglianza di quelle che, al dire d' Igino , ( De conditionibus agrorum ) sui termini specialmente delle colonie di Toscana solevano incidersi. La qual cosa mi fornisce argomento da credere, che il termine pescato nel Lago di Porta , fosse uno di quelli appartenuti alla colonia militare di Luni. Avvalora cotesta mia congettura 1'essere iu un lato di quella pietra scolpito sotto le lettere AE AR una specie di lituo e di suscepita , quasi per confermarci essere stato uno dei termini sacrificali , che adopraronsi per confinare le centurie delle colonie.
    Anco i marmi scritti vengono in appoggio della colonia militare stata condotta a Luni sotto il triumvirato di Ottaviano. Fra le iscrizioni ivi scoperte giova specialmente una trovata a Luni l'anno 1706, attualmente esistente a Sarzana in casa Picedi Era una base che doveva sorreggere una qualche statua dal magistrato di Luni eretta al sovrano e patrono Cesare Augusto nel 6° suo consolato, vale a dire nell'anno 726 di Roma, e 28 avanti G. C. – Ecco le sue parole:

    IMP. CAESARI . D. F.
    IMP . c .    COS. VI.
    III . VIR . R. P. C.
    PATRONO.

    Comecchè cotesta iscrizione, a giudizio dell'erudito sig. Promis, non vada affatto esente da censura, pure gli
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    antichi inquilini, non meno che i nuovi ospiti arrivati in Luni, aver dovevano delle buone ragioni per accarezzare e venerare in Augusto il loro patrono. Avvegnachè, lui vivente, la città di Luni dove non solo aumentare di popolazione, ma mercè di Augusto l'escavazione, il traffico ed il trasporto dei marmi lunensi tanto bianchi-ordinarii, come qnelli bianco-cerulei ( bardigli ) ebbero ad essere copiosissimi, tostochè, se Ottaviano con una mano chiudeva il tempio di Giano, con l'altra mano apriva il tempio delle Arti belle, nell'ambizione in cui si mantenne fino alla morte, di poter dire: Trovai Roma fabbricata di mattoni, ed io l'ho fatta di marmo .
    Dello straordinario uso dei marmi lunensi a Roma e in altri luoghi del romano dominio ai tempi di Augusto diede una solenne testimonianza Strabone, allorchè, sul proposito delle grandi moli di marmi bianchi e di quelli tendenti al ceruleo che in grosse colonne e lastroni scavavansi dai monti di Luni, diceva: che cotesti massi trasportavansi in gran copia non solo a Roma, ma che all'età sua dalle cave di Luni ne provvedevano molte altre città.
    Un tale smercio andò visibilmente aumentando, allorchè al tempo dei Neroni fu scoperto nelle stesse cave lunensi quel finissimo marmo statuario da Plinio giustamente qualificato per più candido e più bello del Pario, soggiungendo che del Pario marmo fino allora gli scultori avevano quasi unicamente adoprato; mentre del marmo lunense, e specialmente del bianco ceruleo e venato fu impiegato la prima volta in Roma, nelle sue case poste nel Monte Celio, da Mamurra Formiano Prefetto dei Fabbri sotto G. Cesare.
    Però fino dal regno di Augusto dovevano presedere, per conto del Fisco imperiale, alle compagnie di lavoranti e cavatori dei marmi lunensi de’Maestri, o Capo-cave , siccome io lo deduceva da una lapida dei tempi di Tiberio, che pubblicai nel 1820 nei miei Cenni sopra l’Alpe Apuana , che trovasi nelle Memorie del sig. Promis riportata
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    e spiegata. Allora fu che si assegnarono dai romani imperatori i ragionieri alle cave lunensi e al luogo dello scarico dei marmi al Porto Claudio e in Roma, affinchè si tenesse registro delle spese e del prodotto. Sono note specialmente due iscrizioni sepolcrali scoperte presso Roma, una delle quali fatta erigere agli Dei Mani di un perduto liberto, da T. Flavio Successo , ch’era pur liberto di Augusto (della casa de’Flavii), il quale è qualificato Tabularius Marmorum Lunensium . L'altra iscrizione fu posta da Arctia Capillata al di lei padre C. Artio liberto di C. Zetho , che fu Tabulario a Rationibus marmorum Lunensium .
    Realmente all'età del poeta Giovenale, e precipuamente durante l’impero di Trajano, si recavano dalle cave di Luni a Roma marmi in sì grande quantità e di tal mole per innalzare la colossale Colonna Trajana , ed il grandioso contiguo Foro , sicchè il poeta ebbe ragione di esclamare nella sua terza Satira:

    Nam si procubuit qui saxa Ligustica portat
    Axis, et eversum fudit super agmina
    montem
    Quid superest de corporibus?


    Dondechè il vecchio Plinio asseriva esser tale a suo tempo il traffico dei marmi con Roma, che per il trasporto dei medesimi si fabbricarono barche di una forma semplicissima e affatto nuova. ( Hist. Natur. Lib. XXXVI. C. I.)
    Le quali barche a tal uopo costrutte, e destinate col vocabolo di marmorarie , caricavano al porto di Luni, come disse Strabone, e non come suppone il Sig. Promis, alla fossa di Carrara , quae dicitur antiqua , cui appella una carta della Primaziale di Pisa dell'anno 1116; giacchè questa tratta di una donazione fatta da Pietro vescovo di Pisa alla chiesa de’SS. Stefano e Cristofano de Carraria
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    , presso il lido del mare. – Aggiungasi che la fossa antica con quella chiesa di S. Stefano de Carraja esisteva al Porto Pisano, come avvisai all' Articolo CARRAJA Dl PORTO PISANO (Volume I, pagina 481) e in questo volume II a pagina 769, sotto l’ Articolo LIVORNO.
    Caricati i marmi sopra coteste navi, conducevansi alla foce occidentale del Tevere, come ora pure succede, chiamata allora Porto Claudio, adesso semplicemente Porto , ossia Fiumicino . Costà erano i Ragionieri destinati a ricevere i marini per riscontrare le doppie marche numeriche, che ogni masso portava impresse; una del peso respettivo, l'altra del numero progressivo. Finalmente al Porlo Claudio i marmi si ricaricavano sopra una specie di zattere per rimontare il Tevere fino presso la porta Ostiense, dove si depositavano alla sinistra ripa in luogo denominato tuttora la Marmorata .
    Coetanei o posteriori a quella splendida età sono da dirsi i monumenti superstiti stati finora dissepolti dal suolo di Luni. – Consistono essi nella massima parte in iscrizioui votive, sepolcrali e di famiglie, la maggior parte delle quali vengono pubblicate più corrette e parte di esse la prima volta dal prenominato archeologo torinese. – Fra le lapide votive citerò quella in onore di Nerone e di Poppea, dedicata da L. Titino L. F. della tribù Galeria, scritta nell'anno 66 dell’E. V., comecchè trovata nel villaggio di Cecina in Lunigiana al settentrione del poggio di Fosdinovo. Citerò un’iscrizione dedicata a Trajano, in cui sono commemorate Plotina moglie, e Marciana sorella dello stesso Trajano, mentre era console la quinta volta, cioè, nell'anno 105 dell’E.V. – Una iscrizione a onore dell’Imperatore Adriano, altra a Settimio Severo, a Giulia Augusta e ai loro figli, dell'anno 200 di G. C. Un frammento di altra lapida spettante a Fulvia Plautilla, sposa dell’Imperatore Caracalla; e finalmente una tavola di bronzo relaliva ad un collegio di artisti, stata scolpita nell'anno
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    255. Quest’ultima insieme con un candelabro di bronzo fu trovata nel 1828 negli scavi fatti alquanto a levante di Luni e poco lungi dalle mura fatte ne’bassi tempi nella già desolata città. Costà pure sino dal 1824 presso una piscina fu dissepolto un pavimento a mosaico lungo da 18 metri, e largo circa 10 metri.
    Arroge alle scoperte di ruderi quelle posteriormente fatte nel marzo del 1837 dal Marchese Remedi di Sarzana in un suo fondo situato a ponente dell’anfiteatro di Luni. Costà casualmente da primo fu scassato un piede di bronzo ancora impiombato nella sua pianta; dipoi essendosi approfondato e dilatato l’escavamento del suolo, si scuoprì un pavimento antico, con parte di un edifizio lungo metri 39, il quale riducevasi a un peristilio largo 5 metri arditi, il di cui lato orientale era costituito da una linea di 13 colonne del diametro di 0,610 di metro, che avevano tra gl’intercolonii altrettanti piedistalli; edifizio che il Promis crede essere stato un Teatro. Di quei piedistalli non vi era in posto che uno solo, dove leggevasi il nome di chi lo pose, nelle Memorie del Promis pubblicato, cioè:

    L. TITIUS L. L. PHILARGURUS
    BASIM DAT.

    Il lato occidentale del dissepolto edifizio era formato da sette pilastri laterizj larghi metri 0,214 e tre quarti, i quali dovevano sostenere sei arcate. La faccia dei pilastri che guarda il portico era dacorata di mezze colonne, ed ognuna aveva addossato un basamento di statua, che due di essi conservavano le seguenti iscrizioni:

    L. HELVIUS L. F. GAL.
    POTINIA.

    Più importante però è la seconda iscrizione che dice:           

    M. TURTELLIO C. F. RUFO
    DUO. VIRO. III. TR. MIL. II.
    COLONI. ET INCOLAE.

    Voltato lo scavo a settentrione, si scoprì una linea di colonne grosse metri 0,910; quali sebbene attualmente siano ridotte a sole quattro, prima dovettero essere più numerose. Poggiano esse sopra una base attica senza plinto, e
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    sono costrutte a zone di mattoni e pietre ( Collyria ) al pari delle altre colonne del portico, e come quelle che vedonsi a Pompei. Fra una colonna e l’altra vi è una distanza di metri 5,900: sicchè fassi manifesto che esse non potevano sorreggere architravi, nè arcuazioni. Quindi il sig. Promis a buon diritto opinava, che tali colonne non potevano servire se non che ad una decorazione onoraria, sopportanti vasi o statue. Ogni intercolonio aveva tre zoccoli quadrati, de’quali mancavano i dadi, destinati anch’essi a sorregere de’busti o delle figure. Cotesta serie di colonne alla distanza l’una dall’altra di quasi sei metri erano fiancheggiate da un muro che si prolungava non si sa quanto, ed il cui lambrì era stato ornato da lastre di marmo.
    Finalmente fra gli oggetti d’arte ivi trovati furonvi due piedi con qualche altro pregevole frammento di bronzo.
    Nè qui tutto consiste il frutto di quelle escavazioni, avvegnachè il proprietario del fondo, sig. March. Cav. Remedi, con la lodevole mira di vedere meglio dirette tali escavazioni, offrì in dono quel suolo insieme coi ritrovati oggetti a S. M. Sarda. Infatti quella Maestà, appena accettata l'offerta, volle assegnare una congrua somma affinchè si eseguissero ulteriori ricerche, sotto l’ispezione della R. commissione di antichità e belle arti. Organo di lei essendo nominato il sign. Promis, questi recossi sul luogo; e nell’agosto del 1837 le escavazioni progredivano con tale successo che il dotto ispettore fu in grado di presentare al suo Re, ed alla Commissione di antichità doviziosi resultamenti; dei quali è merito dell’opera fare conoscere ai miei lettori le cose principali, come quelle che sono sufficienti esse sole per avere della Luni romana una qualche idea.
    Avendo l'archeologo torinese diretto gli seavi nei campi del Marchese Remedi, mediante una fossa larga metri 4 e 1/2, fu rintracciata una vastissima area lastricata di marmo bianco, fino allora intatta, della largehezza di metri 19 e 1/2, in una
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    lunghezza indefinita.
    I lastroni marmorei erano sostenuti a quattro riprese da piccoli muricciuoli contenenti nelle intercapedini della terra battuta. Il limite meridionale terminava in un muro con nicchia nel mezzo; di fronte alla quale il piano di opera Signina si abbassava alla profondità di metri 3,855 nella larghezza di metri 0,780. Sotto il lastrico scorrevano le acque in chiavichetta costrutta di pietra calcarea vermiglia del promontorio del Corvo.
    In cotesta cavità furono rinvenute due statue acefale con una base, e non pochi tronchi di colonne striate del diametro metri 0,585. A tali colonne apparteneva uno stupendo capitello jonico romano, una bellissima antefissa , ed un lavoro in terra cotta servito a decorazione di una corona. Il gusto di coteste decorazini prestarono ragione al sig. Promis da giudicare tali lavori dell’epoca de’Vespasiani. Infatti allora fu (soggiunge il dotto antiquario) quest’edifizio ornato e restituito, come può arguirsi da un frammento di lapida ivi trovata, di cui restano le seguenti parole in gran parte mutilate:

    O. PUBLI
    ING . FLA
    ORD. PRAEFE
    XI. RAPACIS . I
    PASIANI . AUG
    T. REST
    Un altro pezzo di lapida aveva la parola PUBLICE; ed un terzo marmo tutto infranto appena lasciò al prelodato archeologo comporre questo poco:

    L. (VOLUM ni US . FAVONIUS

    A tramontana del muro suddescritto si scoprirono alcune camere, in una delle quali erano ammonticchiati pressochè tutti i bronzi, che furono trasportati alla R. Accademia delle scienze a Torino. I, ruderi, dai quali si trovarono coperti, consistevano in sole tegole; ed i muri delle camere strapiombando, diedero cagione al Promis di pensare che ne fosse caduto il tetto. Inoltre dall’avervi trovato alcuni frammenti di crogioli e due vasi di terra cotta, spettanti a un catino e ad un colatojo, fu dall’archeologo stesso supposto, che costà vi fosse una fucina fusoria.
    Nè tampoco in piccola quantità furono i pezzi di scultura scavati dal suolo
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    di Luni; ma oggetti di gran pregio non sa il Promis se furono visti mai in Luni prima degli scavi fatti nel 1837. – Oltre i due piedi di bronzo sopra rammentati, di ottima scultura, e di getto nitidissimo si rinvennero molte statuette parimente di bronzo, diverse membra di statue, de’capitelli in marmo, e moltissimi altri frammenti architettonici. Delle quali cose, come di tante altre che io tralascio di accennare, potranno i miei lettori avere contezza nelle originali memorie del sig. Promis, del più abile e più erudito di quanti altri prima di lui possa aver diretto le escavazioni nei campi di Luni. Dondechè tanta ubertosa messe, ed in brevissimo spazio raccolta, è divenuta a un tempo stesso documento solenne dello spirito patrio e della generosità del March. Cav. Remedi, ma ancora della munificenza di S. M. Carlo Alberto, per servire di arra alla continuazione di tali ricerche, destinate a illustrare, se non la storia di Luni etrusca , al certo quella di Luni romana .
    Nov’anni innanzi tali escavazioni fu discoperta, come dissi, fra le rovine di Luni una bella iscrizione in bronzo in undici frammenti, ora nel museo dell’Università di Bologna. Essa consiste in un decreto di patronato deliberato nell’anno 255 dell’E. V. da un collegio di artisti, e scolpito in bronzo a onore di L. Cot. Proculo , come colui che ivi è appellato: Vir Splendidus Civitatis Lunensis, Homo simpl. vitae. Unde credimus … si cum nobis Patron. – cooptemus … placere cunctis universisque tam salubri relatione Magistror. nostr. consentiri, praesertim cum sit et dignitate accumulat. et honore fascium repletus. Unde satis abundeque gratulari possit N. N. si eum nob. Patr. adsumamus . . . Et nos gloriosi gaudentesque offerimus, tabulamque aeneam hujus Decreti N. scriptura adfigi praecipiat utinam jusserit, testem futurum in aevo hujus consensus nostri relationem censuerunt. Feliciter.
    Questo magniloquo decreto di patronato ci richiama a far menzione di
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    altra iscrizione marmorea spettante a un collegio di Fabbri , sebbene di qualche tempo posteriore al decreto suddetto. Fu essa pure sino dal secolo XVII trovata in due pezzi nei campi di Luni e di là trasportata in casa Magni a Sarzana. – La copiò e pubblicò il Muratori, quindi la ridiede il Targioni sulle schede dell’istoriografo sarzanese Rossi, il quale ultimo lesse nella prima linea, come più tardi (anno 1819) leggeva, e copiava io stesso le seguenti parole: NOMlNA COLLEGI FABRUM IIC, e non FABRUN TLIC come fu data dal Muratori.
    A correggere l'uno e gli altri giunge opportuno il sig. Promis, il quale esaminate con diligenza quelle tavole si accorse, che le tre lettere IIC, invece di essre i due II avanti a un C, dovevano riguardarsi, la prima per un T o per un L, e l’ultima sicuramente per un G. Quindi è, che egli lesse quella parola mozza in due modi, o come abbreviatura di FABRUM LIG niferorum , o sivero di FABRUM TIG narorum .
    Adottando io quest’ultima lezione dell’archeologo piemontese, ne avviso qui i miei lettori, perchè troveranno all'Articolo LERICI rammentata cotesta tavola di Fabbri lunensi, quando calcolai quell’IIC per numero romano, in vece di una parola un poco troppo monca. Mi gode l’animo però di aver comune l'opinione dell’erudito sig. Promis in quanto all’età della tavola predetta, la quale sebbene senza indicazione cronica, non dovrebbe essere anteriore al secolo IV, sul riflesso che si trova in essa riunito ai Fabri Tignarii anche il collegio dei Dendrofori, riunione che fu comandta da una legge dell’Imperatore Costantino, stata inserita nel Cod. Teodos . (lib. 14 tit. 8.)
    Finalmente al declinare del IV secolo ci richiama altra iscrizione lunense dei tempi dell’impero di Graziano, Valente e Valentiniano, la quale consiste in un creduto cippo migliario. Essa può dirsi l’ultima dei tempi romani, e forse la sola in cui si faccia menzione
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    dell’intera università di Luni, cioè del suo civico magistrato.
    Questo colonnino assai malconcio fu traslocato a Nocchi, villaggio sopra Camajore, in una casa signorile, ma attualmente conservasi in quella chiesa parrocchiale.
    L’epigrafe copiata dal P. Sebastiano Paoli della Madre di Dio fu inviata al Muratori, che la pubblicò nel suo Tesoro (a pagina MLV. 3.) e dopo lui fu ripetuta dal Targioni e da me allorchè ne feci ricerca. Però all’Appendice dei monumenti epigrafici lunensi il sig. Promis nel riprodurla sotto il N° 14, non crede affatto esente da difetti quell’iscrizione, e poco esatta la sua lezione, sia perehè in essa è dato il titolo di Divo a Graziano imperatore cristiano e ancor vivente, come ancora per trovarvisi IMP. CAES. D. N. VALENTI; mentre questi fu imperatore d’Oriente. Quindi nasce motivo di dubitare che il colonnino possa essere (com’è di fatto) in quei punti corroso, e che si debbano aggiungere per ultime lettere D. N. VALENTINIANO I; il quale imperatore regnò dall’anno 364 al 375. L’epigrafe relativa a Graziano e a Valentiniano II in tal caso sarebbe stata ivi scolpita sotto il nome e dopo la morte di Valentiniano I loro padre. Per la stessa ragione l’ultima epigrafe fu fatta incidere nello stesso cippo a Valentiniano II dopo la morte di Graziano, essendo in uso di unire nelle lapidi i nomi ed i titoli degli Augusti insieme regnanti.
    Come estremo documento della storia spettante a Luni romana si presterebbero gli ultimi versi dell’Itinerario di Rutilio Numaziano, se non fosse troppo poetica la descrizione da esso fatta nel mentre approdava alla marina di Luni, di cui cantò:

    Advehimur celeri candentia moenia lapsu
        Nominis est auctor sole corrusca soror.
    Indigenis superat ridentia lilia saxis,
       
    Et levi radiat picta nitore silex.
    Dives marmoribus tellus, quae luce coloris
       
    Provocat intactas luxuriosa nives.

    Imperocchè qncl
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    candentia moenia a giudizio del sig. Promis non deve essere preso in senso di mura di città, ma sì degli edifizj massimamente pubblici in essa compresi. – Frattanto che le mura di Luni fossero costruite, come disse Ciriaco, di grandi pietre di marmo bianco, l’antiquario torinese ha delle ragioni per non convenire su di ciò, sia perchè un recinto di città non potrebbe sì facilmente sparire, sia perchè nelle escavazioni e lavori stati fin qui eseguiti, non furono mai discoperti costà simili muraglioni marmorei.

    LUNI DOPO L’ARRIVO DEI BARBARI IN TOSCANA SINO AL SUO ANNICHILIMENTO

    Mancano affatto notizie di questa città dopo il passaggio di Rutilio Numaziano (anni 416, o 420 dell’E. V.) sino alla fine del secolo VI; sicchè nulla sappiamo delle sue vicende sotto la dominazione Gotica, come tampoco nelle tre prime decadi del regno de’Longobardi in Italia. – L’unico scrittore coetaneo che abbia lasciato una qualche rimembranza di Luni è S. Grerorio Magno. Un testimone cotanto illustre, un’autorità così solenne e che tanta parte ebbe negli affari politici dell’Italia, merita senza fallo preferenza sopra quei pochi, i quali lungi dalla nostra penisola fecero da cronisti delle cose accadute sotto i Longobardi, senza dire come essi scrissero la storia di tal periodo non già, come da quel pontefice fu narrata, nella caldezza delle guerre e invasioni di que’barbari, ma circa due secoli dopo.
    L’investigazione per tanto dei fatti storici proprj a fissare, se non con precisione, almeno approssimativamente l’epoca dell’irruzione de’Longobardi nelle nostre maremme, e nel territorio di Luni, sembra che non possa rintracciarsi meglio che nelle epistole e nei dialoghi di S. Gregorio il Grande, cui dalla corte di Costantinopoli per le virtù di lui, e per la meritala estimazione che ne ebbe, gran parte degli affari politici d’Italia venne affidata.
    Fra le molte epistole del santo pontefice sceglierò specialmente quelle dirette al venerabile vescovo Venanzio che sedè nella cattedra di Luni durante il pontificato
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    del Gran Gregorio.
    È quel medesimo Venanzio citato nei dialoghi da quel Papa, sia allorchè racconta il miracolo dell’ Auxer fatto da S. Frediano vescovo di Lucca, sia de’prodigi e predizioni attribuite a S. Cerbone vescovo di Populonia. L’ultimo de’quali all’arrivo de’Longobardi in Italia insieme co’suoi preti abbandonò la residenza di Terraferma per mettersi in salvo nella Isola dell'Elba dipendente dalla sua diocesi. Comecchè s’ignori l’anno preciso della morte di quest’ultimo vescovo, per quanto da alcuni sia supposta verso l’anno 575, egli è certo però che S. Gregorio nell’opera citata ne parla come di un fatto accaduto innanzi il suo pontificato. Alla qual epoca per conseguenza converrebbe riportare l’irruzione delle populoniensi maremme fatta dal crudelissimo duca Gummaritt.
    In quale stato deplorabile la ferocia de’Longobardi avesse ridotto quella diocesi, si può facilmente congetturare dall’ordine che S. Gregorio nel primo anno del suo pontificato inviò a Balbino vescovo della diocesi di Roselle per raccomandargli la vicina chiesa di Populonia, ch’era rimasta senza pastore e senza parrochi onde amministrare a chi nasceva e a chi moriva i SS. Sacramenti. ( Epist. lib. I. N° I5.)
    Ma in mezzo a tanta crudeltà, mentre i Longobardi, come disse lo stesso san Gregorio ( Dialog . lib. III cap. 38), incrudelivano sopra i popoli italiani da disertare di abitanti le campagne, le terre e le città, distruggere chiese e monasteri, io non saprei spiegare come in mezzo a questi flagelli potesse un vescovo recarsi tranquillamente alla visita apostolica e all’ordinazione di varii preti e diaconi in un’altra diocesi nel caso che questa fosse stata in preda di soldatesca eretica e crudelissima: dico, di non sapere spiegare ciò senza ammettere che le genti Longobarde all’anno 590 dell’E. V., cui appunto corrispondeva l’invio del vesovo di Roselle a Populonia, si fossero ritirate da quelle maremme, o che quei barbari dall’incendiario primitivo contegno avessero declinato. Altronde come spiegare l'adesione dei Pisini, dei cittadini di Sovana e di Luni al partito dei
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    Greci imperatori, siccome può comprendersi dalle 1ettere dello stesso Pontefice agli anni 592 e 603, e ammettere nel tempo stesso un esercito longobardo stabilito nelle toscane meremme?
    Comunque sia di tutto ciò, non debbo io escire dall’investigazione propostami, quella, cioè, di rintracciare dalle lettere di S. Gregorio Magno qual fosse negli ultimi anni del secolo VI lo stato civile e politico di Luni e della sua contrada.
    Non meno di otto lettere contansi fra quelle sicuramente da S. Gregorio dirette a Venanzio vescovo di Luni, il di cui soggetto accennerò con ordine cronologico.
    Con la prima dell’anno 594, interdisce ai cristiani di stare a servire gli ebrei abitanti nella città di Luni, e nel tempo medesimo egli accorda a questi ultimi la facoltà di continuare a tenere i primi nella qualità di agricoltori delle terre di proprietà degli ebrei, purchè i lavoratori vi stieno come veri coloni e senza aggravio di altri oneri da dirsi servili.
    Cotesto documento, escito dalla penna di un santo pontefice, e importantissimo per la storia legislativa; conciossiachè, se la prima parte di essa epistola sia a confermare il codice Giustinianeo ( lib . I. Christ. mancip. ) che vieta agli ebrei di prendere servi cristiani; per l'altra parte ne dimostra, come i giudei a quel tempo legittimamente possedevano beni immobili, a fronte anche di un’altra legge, che dove essere di corta durata, la quale ordinava la confisca de’beni di coloro che non fossero battezzati. ( Cod. lib. X De Pagan .)
    Il dritto pertanto della proprietà immobile pare che venisse conservato in Toscana a favore della nazione israelitica anche nei secoli posteriori al regno longobardico. Su di che è da esaminare quanto fu acccnnato in questo Volume a pag. 883 (paragrafo Diocesi di Lucca ) per conoscere; non solo del diritto mantenuto in Lucca negli ebrei, cioè, di possedere beni immobili, ma anche della facoltà di poterne liberamente testare per tramandarli ai loro eredi.
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    /> Non meno meritevoli di attenzione sono due altre lettere scritte nell’anno 595 da quell sommo Pontefice al vescovo Venanzio. In una delle quali si ragiona della penitenza da infliggersi all’abate di Porto Venere, e a un ex-sacerdote, inviandoli in castigo ai monasteri dell’lsole di Capraja, e della Gorgona; entrambe le quali isole dovevano perciò essere allora sotto la giurisdizione spirituale del vescavo di Luni, cui il S. Pontefice con l’altra lettera ingiunge di recarsi colà per sorvegliare i due penitenziati.
    Inoltre in una di quelle lettere San Gregorio Magno dà avviso a Venanzio di avergli inviato una copia della sua Regola Pastorale , e più una veste, la quale era destinata a servire al battesimo di una ebrea venuta in Luni al cristianesimo.
    Entrambi cotesti documenti frattanto ci fanno strada a conoscere il libero ecercizio dei vescovi di Luni nelle cose attinenti alla religione cattolica, tanto nella terra ferma della Toscana come nelle isole di Capraja e della Gorgona, mentre nel politico queste dipendevano dalla corte imperiale di Costantinopoli. – Inoltre dalle stesse lettere si può arguire della libertà di accettare nel grembo della chiesa gli ebrei che venivano alla fede di G. C. Tutte le quali cose io dubito che si potessero eseguire sotto un governo di setta Ariana, e contrario ai cattolici al segno che il re Autari, contemporaneo di San Gregorio, proibì ai suoi Longobardi di battezzarsi nella fede cattolica.
    Al mese di novembre dell'anno 598 corrisponde la quarta lettera, con la quale il Santo Poniefice approva il divisamento del vescovo Venanzio di fondare un monastero di vergini nella sua propria casa dentro la città di Luni e di dedicarlo con la cappella annessa a S. Pietro Apostolo, ai SS. Giovanni e Paolo Martiri, a S. Ermo e a S. Sebastiano, previa però una legittima donazione di due fondi rustici, che il vescovo possedeva in proprio, posti nei vocaboli Fabroniano e Lumbricata , oltre un assegno
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    di arredi sacri ivi specificati. Al qual oggetto S. Gregorio due anni dopo, richiesto da Venanzio, inviogli una monaca per costituirla in badessa a dirigere quel sacro ritiro di monache. ( Epist. Lib. X n° 43).
    Havvi un’altra lettera dell'anno 599 relativa a una nuova convertita monaca (forse la neofita del 595), la quale essendosi diretta al Papa con una petizione di doglianze contro sua madre, fu rinviata essa medesima con la petizione a Venanzio, acciocchè, verificata la cosa, egli chiamasse a se la madre della monaca, e precurasse di persuaderla pacificamente. Che se poi ella non volesse aderire alle ammonizioni officiose di Venanzio, allora dispone che il vescovo assister debba e ajutare de’suoi conforti la detta figlia davanti al giudice, o a chiunque altra persona secondo l’uso legale, affinchè la madre della supplicante venisse costretta di effettuare per forza ciò che ricusava spontaneamente.
    Finalmente l’ultima lettera fu scritta da quel glorioso Pontefice nell’anno 600, e la diresse al vescovo lunense mediante un prete e un diacono di Fiesole, latori di una petizione per avere un sussidio, onde riparare le chiese della diocesi fiesolana.
    Per la qual cosa S. Gregorio invitava il vescovo Venanzio a dare ai petizionarii una ventina di soldi di quelli che teneva della sua chiesa. Inoltre aggiungeva, che procurasse di aver cura del tesoro spettante al patrimonio ecclesiastico lunense, affinchè (diceva S. Gregorio) quando Dio darà la pace, le cose medesime senza alcuna dilazione o controversia venghino ripristinate e riconsegnate alle chiese, cui di ragione appartengono.
    Tali espressioni del virtuoso Pontefice unite a quelle da lui scritte tre anni dopo, relative ai Pisani amici dei Longobardi piuttosto che dei Greci, dimostrano a parer mio chiaramente il timore di una imminente invasione de’Longobardi nella Toscana occidentale; sicchè intorno a questo tempo, o poco dopo la morte di San Gregorio Magno io tengo che sia da riportarsi l’occupazione longobardica della Lunigiana.
    Forse altri prima di me avrà fatte consimili osservazioni desunte da
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    uno scrittore cotanto rispettabile da anteporsi di gran lunga a Paolo Warnefrido, che circa 200 anni dopo scriveva; come la Liguria marittima, a partire dalla città di Luni nella Toscana, sino ai confini della Francia, cadde in potere dei Longobardi sotto il regno di Rotari (fra il 636 e il 652): civtates ab urbe Tusciae Lunensi universas, quae in littore maris sunt, usque ad Francorum fines cepit , (De Gest. Langob. lib. IV. c. 47). E qui merita esser posta a confronto una consimile frase usque ad Tusciam dallo stesso Paolo adoprata, allorchè (al lib. II c. 26) scrivendo egli del re Alboino nel tempo che assediava Pavia (anno 569-571) attribuiva a questi l’invasione di gran parte dell’Italia, invasit omnia usque ad Tusciam praeter Romam et Ravennam . Comecchè fino da quel tempo alcuni scrittori riguardino la provincia dell’Umbria quasi parte della Toscana, è certo per altro che ciò non accadde sotto il regime de’Longobardi.
    Quando preciasmente Luni fosse occupata dalle armi longobardiche, e qual sorta di regime governativo v’introducessero, tutto ciò resta ignoto. Quello che sembra certo è, che a Venanzio succedere piuttosto che precedere dovette nella sede di Luni il santo vescovo e martire Sicardo, o Ceccardo; sia perchè il nome di quest’ultimo è decisamente longobardo, sia perchè nell’anno 600, a cui l’Ughelli, sulla fede di u’iscrizione posta in tempi più recenti alla cassa sepolcrale di S. Ceccardo nella chiesa di Carrara, che segna all’anno 600 il suo martirio, il vescovo Venanzio in quell’anno medesimo continuava a carteggiare con S. Gregorio Magno.
    Una notizia che sarebbe di alta importanza per decidere della prima disgrazia e desolazione di Luni, fu data per avventura da un autore contemporaneo sì, ma che dalle lontane provincie della Francia scriveva delle cose d’Italia. Intendo di appellare a un passo della Cronica di Fredegario riportata dal Duchesne ( Francor. Script. Vol. I cap. 71), là dove discorrendo della conquista della Liguria marittima
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    fatta dal re Clotario, o Rotari , 1’autore si espresse in un modo più speciale di Paolo Diacono, dicendo: che quel re invase e tolse all’Impero le città maritime di Genova , di Albegna , di Varigotti , di Savona , di Ubitergio e di Luna , mettendole tutte a ferro e fuoco, spogliando quei popoli, condannandoli alla schiavitù, e finalmente distruggendo fino ai fondamenti le mura delle prenominate città: muros civitatibus subscriptis usque ad fundamentum destruens, vicos has civitates nominare praecepit.
    Quantunque alcuni dotti, fra i quali il sig. Carlo Promis, faccino buon conto, e diano una grande importanza alle citate parole segnatamente per indicare l’epoca della prima distruzione di Luni, pure qualcuno trovò ragione da dubitare che nella descrizione di tutte quelle brutte cose fatte dal re Rotari a danno di Luni e della Liguria, vi sia una gran dose di esagerazione, e forse anche molta parte di romanzo, specialmente per ciò che spetta alla schiavitù de’popoli a rovine di città ligustiche, tra le quali quella di Ubitergio escita di getto dal cervello di quel francese scrittore.
    Ad opporsi al racconto di Fredegario rapporto allo smantellamento delle mura di Luni, alla schiavitù del suo popolo, all’essre stata tolta dal novero delle città ec, ec. stanno i fatti posteriori all’età di Rotari, re bellicoso sì, ma nemico delle oppressioni dei Longobardi prepotenti a danno dei sudditi sicchè per frenare quelli e tutelar questi, egli fu il primo re di sua nazione in Italia, che riunisse in un corpo di leggi il codice longobardico.
    Luni frattanto continuò non solamente ad essere sede de’suoi vescovi, ed a chiamarsi costantemente città, ma nello stesso suo distretto ebbero case e possessioni i duchi longobardi di Lucca, al cui governo politico Luni con tutta la Lunigiana sembra che restasse incorporata.
    Arroge a ciò, che l’antico castello di Montignoso, detto allora
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    di Agilulfo , sebbene nel distretto di Luni, a’tempi del re Astolfo doveva dipendere dalla Corte regia di Lucca.
    Dondechè fra le sosltanze del re Astolfo, con diploma del 753 donate a S. Anselmo per la badia da questo suo cognato eretta a Nonantola, si trova nominato un oliveto posto presso il castello di Agilulfo , con due poderi e rispettivi coloni, il tutto spettante alla sua Corte Regia di Lucca. (TIRABOSCHI, Histor. Nonant. T. II pag. 15.)
    Che i duchi Longobardi di Lucca presedessero anche al governo di Luni e di tutto il suo contado è un tal vero che non ammette discussione; e che i duchi medesimi possedessero case e terreni in Lunigiana lo annunziò prima di tutti il Fiorentini nelle Memorie della gran contessa Matilda, il quale trovò il glorioso duca Walperto nel ventesimo anno del regno di Luitprando, e primo del re Ilprando, cioè nel marzo del 736, nella città di Luni, mediante però un suo rappresentante, per acquistare in compra una casa con terreni, servi, ancille, campi, vigne, selve, mobili e immobili. La carta che è stata recentemente pubblicata nelle Memorie Lucchesi (T. V P. II pag. 13), fu rogata in Lunensi civitate in mense suprascripto alla presenza di varii testimoni, fra i quali due cittadini di Luni .
    Conoscendo ora il testamento del vescovo Walprando figlio del duca lucchese Walperto, col quale atto lasciò tutto il suo patrimonio alla chiesa di S. Martino, e a quelle di S. Frediano e di S. Reparata di Lucca, si viene a scuoprire una delle cause per le quali la mensa vescovile lucchese e la chiesa di S. Frediano permutavano o affittavano beni di loro pertinenza in Lunigiana.
    Tale per esempio è un contratto del settembre 816, rogato in Luni da Giovanni prete e notaro della stessa chiesa alla presenza di due
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    vescovi, Pietro di Luni e Jacopo di Lucca, mercè cui quest’ultimo diede a livello al vescovo lunense tutti i beni che le chiese di S. Martino e di S. Frediano di Lucca possedevano dell’eredità del vescovo Walprando in loco et finibus Lunense . – Con tutto ciò i vescovi di Lucca anche nei tempi posteriori continuarono ad affittare beni posti in Lunigiana. Essendochè nel 19 maggio dell’843 Berengario vescovo lucchese fece un cambio con Rodiperto de Luna civitate , dal quale ricevè due poderi posti in Vallecchia e a Litribiano , cedendo invece una casa massarizia con terre incolte, selve ec. Posta ubi dicitur Culiunulo finibus Lunense civitatis, pertinente ipsius episcopatu vestri S. Martini, ecc.
    Che il luogo di Coliunulo qui sopra rammentato corrisponder potesse al vico di Colognola , o Colugnola in Val di Magra, ne induce a cerderlo un’altra carta lucchese del 7 settembre 879; la quale si aggira intorno alla permuta che Gherardo vescovo di Lucca fece di alcuni beni della sua chiesa, situati in loco ubi dicitur Pulicha prope Colugnula, finibus Lunensis …… talchè designandone i confini, viene ivi rammentata la selva del vescovato di S. Maria di Luni, la Pesciola (torrente) Lugnatica e Ciceriano (Ceserano). – Vedere COLUGNOLA di Val di Magra.
    Ad esaminare la convenienza di coteste permute de’beni di chiese il Marchese Adalberto e il vescovo Gherardo inviarono sul posto i respettivi messi con alcuni buonomini, i quali riferirono della migliorata permuta a favore della cattedrale di S. Martino. (MEMOR. LUCCH. T. IV P. II.)
    Nè tampoco mancano documenti posteriori confacenti a dimostrare, che i vescovi lucchesi possedevano in più luoghi della Lunigiana. Infatti nel 20 gennajo dell’882, Gherardo del fu Gottifredo vescovo di Lucca allivellò una casa con terre annesse, situata in loco
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    ubi dicitur Massa prope Frigido
    , ingiungendo l’obbligo al fittuario di recare l’annuo censo di dodici buoni danari di argento alla corte dominicale dello stesso vescovo, posta in loco ubi dicitur Quarantula prope Frigido . ( Oper. cit. )
    Finalmente con altro istrumento del 16 gennajo 986 Teudegrimo vescovo di Lucca allivellò per conto della sua cattedrale tre pezzi di terra posti alla destra del fiume Frigido presso la pieve di S. Vitale, oggi detta del Mirteto, in loco et finibus Materno prope Ecclesiam S. Vitali et S. Johannis Batiste, que est infra Comitato Lunense . (MEMOR. LUCCH. T. IV P. I e II.)
    Ma per proseguire l’andamento storico sulle vicende di Luni dopo l’arrivo de’Longobardi in Toscana, il cammino si rende talmente malagevole e oscuro che fa duopo andare tastoni col rischio continuo di cadere o di perderne la traccia.
    Che Luni sotto il regime longobardo dipendesse da un castaldo, sottoposto egli medesimo al duca di Lucca e di Pisa, in quanto alla parte politica e militare, è ragionevole congettura, cui presta per avventura qualche appoggio una lettera di Adriano I a Carlo Magno; dalla quale apparisce, che il duca Allone aveva l’ingerenza e il comando di tutto il littorale toscano. – Vedere l’Articolo LUCCA.
    Se si cerca di Luni sotto il regno de’Carolingi, mi sembra di vederla continuamente non solo sede tranquilla de’suoi prelati, come lo dà a conoscere il documento del settembre 816 di sopra accennato, ma eziandio dipendente dal governo superiore di Lucca. Per ciò che spetta quest’ultimo quesito stà in suo favore il fatto dell’apparizione del portentoso naviglio che senza piloto e senza alcuna guida dai mari del Levante, verso l’anno 782 portò alla spiaggia di Luni fra le altre insigni reliquie quella del VOLTO SANTO che si venera in Lucca.
    Frattanto noi ci avanziamo verso l’anno 840, epoca nella quale Luni provò dai Mori e Saraceni tali disavventure,
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    che questa città ne restò desolata al segno da non poter più d’allora in poi risorgere dalle sue rovine. Però il grande Annalista italiano ebbe ragione di non fare alcun conto dei tanti anacronismi e incredibili avventure da certi cronisti forestieri raccontate circa lo sbarco proditorio di Astingo capo de’Normanni a Luni, della permanenza, poscia dell’uccisione del vescovo e della prigionia degli abitanti di Luni, accompagnata dalla distruzione fatale della città. Tanta barbarie facevasi dalle genti del Nord che veleggiarono dall’Oceano fino alla Magra, credendo di aver preso e devastato invece della piccola città di Luni l’eterna metropoli di Roma, e altre favolose bizzarrie di simile fatta, ripetute a sazietà da scrittori di troppa buona fede e di epoca posteriore alla supposta avventura. Quindi il sig. Promis, dopo avere passato in rivista e confrontati i principali autori che discorsero di quegli accidenti, e dopo aver detto, che un’astuzia simile a quella di Astingo fu attribuita a Roberto Guiscardo ad oggetto d’impossessarsi di un castello in Calabria, siccome vien narrato da Guglielmo Pugliese, egli pensa a buon diritto, che simili avventure troppo ripetute svelino un’origineine romanzesca .
    Un nuovo imbroglio è messo in campo dall’annalista Bertiniano, giacchè all’anno 860 ivi si legge, che i Danesi, ossia Normanni, dopo avere passato il verno alla foce del Rodano, imbarcatisi alla buona stagione vennero al littorale di Luni, quindi penetrati per l’Arno devastarono Pisa con altre città. Ma se ciò fia vero, dirò col Muratori, ben poca cura doveano avere gl’Italiani di tener fortificate e guarnite di buone muraglie le loro città, massimamente in tempi, nei quali ogni difesa bastava a fermar l’impeto di eserciti i più pederosi.
    Comecchè dopo tanti racconti di barbari pirati, Mori, Saraceni e Normanni, scesi tra l’840 e l’860 a mettere il littorale toscano a ferro e fuoco, Luni dovesse contare sempre nuove rovine e desolazioni; pure essa ritrovavasi tuttora esitente intorno al mille – Infatti al 963 in Luni si tenevano
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    fiere o mercati, avvegnachè in quell’anno dall’Imperatore Ottone I furono donati al vescovo i diritti regii sul mercato medesimo insieme con la corte, o dir si voglia il distretto della città di Luni, ec.
    E in qualche modo il nuovo sbarco eseguito fra l’Arno e la Magra, nel 1016 dai Mori condotti da Musetto principe della Sardegna e delle isole Baleari con danno di Luni, serve a confermare che questa città era sempre abitata e abitabile.
    Nè tampoco al primo secolo dopo il mille si potrebbe dire che il commercio e lo scavo dei marmi Lunensi fosse affatto nullo, tostochè, se l’abate Bono nel 1040 per costruire la prim chiesa e monastero di S. Michele in Borgo a Pisa si recò a Roma a comprare colonne di antichi edifizii, egli soggiunse eziandio che, per fabbricare le celle ed abitazioni dei monaci, fece venire per mare da Luni il legname di castagno: e che poch’anni appresso ridusse la fabbrica del suo monastero sì ben fornita di colonne che aveva provveduto da Luni e dall’Isola d’Elba, in guisa che lo stesso abate dichiarò; essere il Monastero di S. Michele di Pisa il più perfetto e migliore esistente allora in Toscana. (ANNAL. CAMALD. T. II.)
    Anche nel 1055 Guido vescovo di Luni portò i suoi reclami a Roncaglia davanti Arrigo III, per dirgli che un tal signorotto lucchese, Gandolfo del fu Enrico, avevagli rapito una terza parte del monte, della corte e castello di Agilulfo , situato prope porta quae dicitur Beltrami , che era di proprietà della cattedrale di Luni; talchè l’avvocato era pronto a cimentare le sue ragioni mediante il giudizio della Pugna . Nuove rappresaglie soffrirono nel secolo XII i vescovi di Luni per parte de’più potenti dinasti della Lunigiana. Dico dei marchesi Malaspina, che arbitrariamente nel 1124 avevano fabbricato un fortilizio nel monte Caprione, posto sopra il paese di Amelia, nei possessi e giurisdizione della chiesa di Luni.
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    Per la quale aggressione fu portata la causa davanti ai consoli Treguani di Lucca nella chiesa di S. Alessandro; la quale vertenza fornisce un altro indizio confacente atto a confermare la supremazia del governo lucchese sopra la Lunigiana.
    Però a contrariare la sorte di Luni più di ogn’altra cosa vi contribuì la malvagità dei tempi dopo che il feudalismo prese il sopravvento sopra il governo regio delle provincie affidate ai vesovi privi di mezzi da farsi rispettare. Quindi accadeva che alla venuta degl’imperatori in Italia fioccavano da tutte le parti reclami al trono per ogni sorta di rappresaglie.
    Nel progredire del secolo Federigo I, con due diplomi del 30 giugno 1183, e 29 luglio 1185, conferì a Pietro vescovo di Luni, oltre l’arena o anfiteatro, la piazza, o area interposta fra Luni e il lembo del mare, il luogo che fu sede della desolata città con i fossi ed i suburbj, il diritto del ripatico e del telonèo con varii castelli del contado lunense, fra i quali Carrara le sue Alpi e le lapidicine de’marmi, ec.
    Già a quella età il vescovo e il clero lunense vagavano dall’antica sede a Sarzana, talvolta all’Amelia, e spesso a Castelnuovo di Magra per fuggire un nemico invisibile, ma più formidabile dei Mori, dei Saraceni e dei Normanni, come era la crescente corruttela dell’aere cagionata dai paduli, dai ristagni delle acque marine, e da quelli dell’acqua dolce che spingeva nei campi di Luni la vagante fiumana della Magra e che i crescenti rinterri e le progressive dune senza scolo ivi arrestavano.
    In vista per tanto della malaria fu dal Pontefice Innocenzo III, nel 1204 concesso, che la cattedrale di Luni si trasportasse in S. Andrea di Sarzana ob acris intemperiem . Con tutto ciò il capitolo di Luni non sembra che si stabilisse in Sarzana, mentre lo troviamo anche dopo il secolo XIII ad ufiziare in Castelnuovo di Magra,
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    paese situato in poggio, e assai vicino a Luni. Difatti in Castelnovo furono redatti gli statuti più antichi del capitolo di Luni, e in Castelnovo nel 6 ottobre del 1306 capitò Dante Alighieri, incaricato dei marchesi Malaspina per trattare la pace con Antonio da Canulla vescovo di Luni, malato in quell’episcopio.
    L’abbandono totale di Luni per parte del suo clero, e il di lui stabilimento finale in Sarzana, data veramente dal 1465, anno in cui il Pontefice Paolo II, ai 21 luglio, segnò la bolla di traslazione formale della sede vescovile di Luni in Sarzana; sul riflesso, dice il privilegio che la residenza di quel clero era vagante. Che però, conservato il nome di città alla stessa deserta Luni , ordina che sia traslalata la cattedra in S. Maria di Sarzana, erigendo questa in cattedrale con tutti i privilegi delle altre chiese vescovili e dando a Sarzana il titolo di città: nec non dictum oppidum Sarzanae in civitatem cum jure civilitatis, et cunctis aliis privilegiis.... erigimus .
    Cassata Luni dal mondo politico e dalla storia ecclesiastica, dopo avere trasfuse le sue onorificenze in Sarzana, invieremo il lettore all’ Articolo di questa città dove saranno accennate le vicende della sua diocesi, non che le politiche del suo territorio.
    I piu attribuiscono a Luni l’onore di essere stata patria del Pontefice S. Eutichiano, siccome con maggior sicurezza si può dire essere stato suo cittadino il vescovo S. Venanzio, tostochè egli la propria casa di Luni convertì in un monastero.

    LUNIGIANA ( Lunisiana ). – Piccola regione posta fra la Liguria e la Toscana, percorsa per la maggior parte dal fiume Magra e dai suoi influenti; ad essa diede il nome che tuttora conserva di Lunigiana, la città di Luni antico capo luogo del contado e diocesi omonima.
    Se noi potessimo esser in grado di conoscere il perimetro di quest’antico contado, avremmo nel tempo stesso donde
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    assicurarci dei limiti precisi della Lunigiana, i quali peraltro oltrepassare dovevano quelli del corion Macra di Strabone , ossia della Val di Magra.
    Ai secoli XI, XII e XIII il contado della Lunigiana formava Marca con la Riviera di Genova, siccome ne avvisò fra gli altri ser Brunetto Latini nel suo Tesoro (Lib. III c. 3) dicendo; che il primo vescovo di Toscana è quello di Luna, ch’è Marca con li Genovesi . Contuttochè corra per invalsa opinione di essere i vescovi di Luni stati investiti del titolo e prerogative di conti della Lunigiana sino dal tempo dei Carolingi; e niuno fra i documenti finora pubblicati, specialmente di quelli estratti dal dovizioso archivio arcivescovile di Lucca, nè tampoco dall’archivio della cattedrale di Sarzana, presentò una testimonianza che possa dirsi coeva al regno dei Carolingi per dare a tale opinione il grado di verità.
    Certo è che al secolo XI portavano il titolo di Conti della Lunigiana I pronepoti del marchese Oberto, che fu Conte del Palazzo sotto Ottone il Grande. Della qual cosa ne abbiamo la conferma in un documento dell’anno 1050 edito dal Muratori nelle sue Antichità Estensi (Parte 1 cap. 2) dove si legge, che il Marchese Azzo II, autore della casa d’Este, stando nel suo castello d’Arcola in Lunigiana, s’intitola Comes istius lunensis Comitatus . –
    Altronde non risultando dai diplomi imperiali, e nè tampoco da quelli elargiti dall’Imperatore Federigo I al suo ben affetto Pietro vescovo di Luni, nè dal lodo del 1202 sulla questione dei castelli venduti dai marchesi Estensi ai Malaspina, e neppure dal trattato di pace del 1306 fra Antonio Vescovo di Luni e i marchesi Malaspina rappresentati dal loro procuratore Dante Alighieri, nè avendo io incontrato alcun atto solenne di epoca anteriore al secolo XIV, non saprei fissare un privilegio regio, mediante il quale i vescovi di Luni godettero prima del
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    secolo XIV delle prerogative di Conte.
    Venne bensì nell’anno 1355 accordato loro il titolo di Principi , dall’Imperatore Carlo IV con uno di quei tanti diplomi, coi quali si concedevano spesse volte li stessi paesi ed onorificenze a due ed anche a più persone, o comunità nel tempo medesimo.
    Uno dei vescovi più attivi per rivendicare ai prelati della diocesi lunense i diritti stati trascurati o perduti, fu il vescovo Enrico dei nobili di Fucecchio, il quale sedè nella cattedra di Luni dall’anno 1276 al 1296. A lui si deve la raccolta, o copia dei diplomi, convenzioni, lodi, donazioni ed enfiteusi più antiche spettanti alla chiesa e mensa vescovile, raccolta che fu e si conserva tuttora riunita in un libro di proprietà della cattedrale di Sarzana, noto agli eruditi sotto nome di Codice Pallavicino .
    Fra i molti documenti che il Muratori estrasse da quella collezione fuvvi anche l’arbitrio lodato nel 1202 dai giudici compromissarii in una causa vertente fra Gualterio vescovo lunense da una parte e i marchesi Malaspina dall’altra parte; nel quale lodo per avveutura si descrivono in succinto i confini della Lunigiana , ossia del contado e diocesi di Luni che meritano di essere qui appresso riportati con la stessa ortografia e parole:
    Hi sunt confines. A Ponte de Strada (il ponticino detto tuttora di Strada , pochi passi a ponente di Pietrasanta) ( ERRATA : conprehendo ) comprehendendo totam curiam Corvarie et Vallecle usque ad montem, qui dicitur Juva et ab eo monte usque ad summitatem Alpium (dell’Appennino di Garfagnana fra Mommio e Sillano) eundo per summitatem Alpium usque ad Cisam, et inde comprehendendo totum districtum Ponticli ( Ponticli per Pontremuli ) et Mulazzi, et Zovagli, et Calese (Calice), et eundo usque ad Padulvarinum, et in eundo usque ad Carpenam comprehendendo totam curiam et districtum Carpene,
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    Vezani, Foli, Vallerani, Bevelini, Vesigne
    , (Tivegna?) et Pulverarie, et inde eundo per maris litora usque subter Brancalianum (borgo di Brancaliano esistito sul fiume Versilia) et inde usque ad pontem de Strada qui est in capite Brancaliani . – Dentro i prescritti confini (soggiunge quel lodo) tanto i marchesi Alberto, Guglielmo e Corrado dei Malaspina, quanto il Vescovo di Luni e i loro respettivi nobili e vassalli si obbligavano di prestarsi reciproco ajuto ec.
    Dalle sopraespresse parole pertanto, non che dalle bolle pontificie spedite da Eugenio III (anno 1149) e da Innocenzo III (anno 1202) ai vescovi di Luni, sembra resultare, che la chiesa lunense al secolo duodecimo, non avesse più giurisdizione alcuna sulle isole di Capraja e della Gorgona, come la ebbe al tempo di S. Gregorio Magno; e che, se dal lato di ponente la diocesi di Luni al secolo XII aveva già perduto una porzione di territorio, sembra che non venisse egualmente scorciata dalla parte di levante, dove per lungo tempo abbracciò il distretto di Corvaja e di Vallecchia in Versilia. Infatti questa fiumana sino al declinare del secolo XVIII formò l’estremo limite meridionale della diocesi di Luni-Sarzana, siccome dal lato di grecale i suoi confini, valicando il monte del Giogo, verso la Pania di Terrinca, percorrevano nella valle superiore del Serchio, ossiadella Garfagnana alta, dove abbracciava tutto il territorio comunitativo di Minucciano col piviere di Piazza, e la maggior parte dell’attuale giurisdizione di Camporgiano. Costà oltrepassando il Serchio saliva sull’Appennino dell’ Ospitaletto , ed ivi prendendo la direzione di maestro percorreva la stessa giogana fino al di là della Cisa e trapassato appena l’Appennino di Zeri, scendeva per Calice in Val di Vara, quindi per i monti del Golfo della Spezia, e di là per mare tornava sul lido della Versilia al Ponte di Strada .
    Che poi la contrada della Lunigiana fosse molto più estesa di quella che
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    porta il nome di Val di Magra, si rileva ancora dalla notizia pubblicata dal Lambecio delle città e castella della Toscana descritte all’anno 1376 per valli, e per contrade.
    Essendo che fra i castelli, i quali aderivano allora all’Impero, si trova nella provincia di Lunigiana segnato per il primo quello della Verrucola de’Buosi col suo distretto (cioè di Fivizzano) e per 1’ultimo il comune di Montignoso ; mentre per parte della Garfagnana lo stesso registro comprende fra i castelli di quest’ultima provincia, a partire dalla valle del Serchio sotto la Lima dal castello di Pescaglia risalendo nella valle superiore sino al confine della comunità e plebanato di Pieve Fosciana, il cui distretto confinava e confina col crine dell’Appennino di S. Pellegrino.
    Perciò che spetta alle posteriori vicende della diocesi di Luni-Sarzana vedasi l’ Articolo SARZANA.
    Così per la parte fisica dellaValle di Magra, e territorio di Luni invierò i miei lettori agli Articoli ALPE APUANA, CARRARA, LITTORALE TOSCANO, MAGRA, MARINELLA DI LUNI, PIETRASANTA, ec.
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Localizzazione
ID: 2515
N. scheda: 28910
Volume: 2
Pagina: 935 - 950, 950 - 952
Riferimenti: 56220
Toponimo IGM: Luni
Comune: ORTONOVO
Provincia: SP
Quadrante IGM: 096-3
Coordinate (long., lat.)
Gauss Boaga: 1581360, 4879577
WGS 1984: 10.01672, 44.06642
UTM (32N): 581423, 4879752
Denominazione: Luni - Lunigiana
Popolo: Casano
Piviere:
Comunità: Ortonovo
Giurisdizione: Sarzana
Diocesi: Luni - Sarzana
Compartimento: x
Stato: Regno Sardo
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