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Pisa - Acquedotti di Pisa - Arcivescovati della Toscana (Arcivescovato di Pisa) - Via Regia intorno alle Mura Meridionali di Pisa - Via Provinciale Emilia - Zecche Diverse (Pisa)

 

(Pisa)

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    PISA ( PISAE, un dì ALPHAEA ) Nobile, antichissima, e bella città di origine greca, poi romana prefettura e colonia, più tardi sede di conti e di marchesi, quindi cospicua repubblica del medio evo con celebre università scientifica e la più antica metropolitana della Toscana, residenza costante di un arcivescovo Primate; attualmente anco di un governatore civile e militare, della cancelleria dell’ordine cavalleresco di S. Stefano, di un tribunale di Prima istanza, di una deputazione idraulica sotto il titolo di Ufizio de’Fossi, di una comunità, di un dipartimento doganale e di uno de’ cinque compartimenti del Granducato.
    Risiede Pisa sul fiume Arno che sotto tre ponti di pietra le passa in mezzo mediante un alveo spazioso, fiancheggiato da comodi scali e da larghe strade lastricate e adorne in tutta la loro lunghezza di palazzi e di decenti abitazioni, talché il Lungarno di Pisa latamente arcuato presenta una delle più belle prospettive che possa mai vedersi in grandiosa città.
    Trovasi Pisa nel grado 28° 4’ di longitudine e 43° 43’ di latitudine in mezzo ad una ubertosissima pianura della larghezza di 10 a 55 miglia toscane da grecale a ponente, fra il Monte Pisano e il littorale, della lunghezza di 13 alle 20 miglia toscane da settentrione a ostro, a partire dal Serchio sino alle Colline inferiori pisane, non più che 10 miglia ostro libeccio di Lucca passando per la strada antica di S. Maria del Giudice, e 13 per la strada postale di Ripafratta; 4 miglia toscane nella stessa direzione dai Bagni Pisani di S. Giuliano; 12 miglia toscane a settentrione grecale di Livorno; altrettante a scirocco di Viareggio; 18 miglia toscane nella stessa linea da Pietrasanta passando però dall’antica via di marina; circa 6 miglia toscane a grecale dalla bocca dell’Arno, e 7 ½ da quella del Serchio.
    Ma se la situazione geografica di Pisa è appena variata da quella dei tempi antichi, essa peraltro è assai diversa oggidì rispetto alla
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    corografia del suolo sul quale riposa. Sicché dovendo percorrere brevemente le storiche e poscia le sue fisiche vicende, dividerò, rispetto alla parte storica, il presente articolo in cinque periodi per dare un cenno succinto; 1. di Pisa antica sino alla caduta dell’Impero Romano; 2. di Pisa sotto il dominio dei Goti e dei Longobardi; 3. di Pisa sotto i marchesi di Toscana; 4. di Pisa durante la sua Repubblica; 5. di Pira sullo il governo di Firenze fino ai giorni nostri.

    1. PISA ANTICA FINO ALLA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO

    La prima epoca di Pisa precede i tempi istorici; che se essa fioriva 30 e più secoli indietro, pure a confessione di Catone il censore, il quale nacque centovent’anni prima dell’Era volgare, fino d’allora l’origine di Pisa si nascondeva nelle tenebre. – (SERVII in Aeneid . Lib. X). – I più vecchi scrittori peraltro, siano essi italiani, oppure orientali, concordano nel dirci che Pisa esisteva alla presa di Troja, se non fu molto innanzi quando vi capitò una mano di gente dalla Tracia. Non so poi quanto lusingar possa l’amor proprio nazionale, diceva su tal proposito il Pignotti, il credersi da tempo immemorabile cittadini di un paese oltramarino piuttosto che di una nazione per arti e per lettere distinta fino dalla più remota età, come fu quella degli Etruschi.
    Tuttavia né si può fermamente asserire, né decisamente negare che una colonia greca un dì si fermasse costà presso l’angolo estremo di terra dove si univano insieme il Serchio e l’Arno innanzi che il progressivo interramento della sua spiaggia avesse allontanato Pisa dal mare.
    E volendo supporre che la venuta dei Greci a Pisa sia accaduta avanti la distruzione di Troja, che verrebbe ad essere 1200 anni e più innanzi la nascita di Gesù Cristo, in tal caso bisognerebbe dire che Pisa fosse una delle più vetuste e la più costantemente celebre città dell’Italia.
    Io non starò qui a
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    rammentare le oscure parole del greco Licofrone che viveva due secoli e mezzo innanzi l’Era volgare, allorché qualificò Pisa tra le più insigni città nel tempo in cui Enea capitò in Italia. Non dirò con Plinio che Pisa abbia avuto origine da Pelope e dai Pisci, greca gente capitata nelle coste d’Italia tredici secoli avanti la nascita di Gesù Cristo. – Neppure mi atterrò a Dionisio d’Alicarnasso col supporre Pisa fiorente sino da quando Deucalione condusse in Ausonia i suoi Pelasgi. Né voglio affidarmi più degli altri a Strabone che fece nascere Pisa da Nestore re di Pilo, allorché questi dopo la presa di Troja, sbagliando cammini, navigò in Italia approdando coi suoi nel seno pisano. Dirò piuttosto essere più in voga di tutte la tradizione che Pisa, ossia l’Alfea dei Greci, fosse conquistata dagli Etruschi, i quali l’incorporarono al loro territorio, siccome ne avvisa ( ERRATA : il sommo liric) il sommo epicoo latino dicendo, che Pisa fornì ad Enea un battaglione di mille guerrieri.

    Hos parere jubent Alpheae ab origine Pisae,
    Urbs Etrusca solo. –
    (AENEID . Lib. X)

    Checché ne sia, sembra credibile bensì che Pisa fosse da tempi assai remoti ragguardevole, qualora si contempli la sua posizione molto opportuna alle operazioni marittime, ben difesa dalla natura mediante due fiumi i quali, fiancheggiandone i lembi, si accomunavano costà quasi nel centro di una fertile ed irrigatissima pianura, a poca distanza da monti formati di marmi, vestiti di pini e di altri alberi di alto fusto proprii alla costruzione navale, in una parola per dolcezza di clima, per serenità di cielo, per prodotti di suolo salubre, ricca e deliziosa.
    Contuttociò mancano documenti da poter asserire che Pisa, avanti il dominio dei Romani, per potenza, popolazione, grandezza e commercio fosse una delle città più considerevoli dell’ Italia. Imperocchè, sebbene il geografo Strabone abbia detto che i Pisani primeggiarono fra gli Etruschi per valore guerriero, trovandosi spesso alle
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    prese contro i Liguri loro importuni vicini, ciò nondimeno resta sempre incerto tutto quello che spetta a Pisa innanzi la storia di Roma; e solamente dopo che questa figlia di Romolo divenne potenza, cominciò per la nostra Toscana ad albeggiare un poco di luce, la quale si rese alquanto più chiara fra il V ed il VI secolo di Roma, circa 300 anni avanti Gesù Cristo
    Per modo d’esempio, è tuttora una questione storica irresoluta quella di sapere se Pisa, posta nel suolo etrusco, facesse parte dell’antica Etruria; e se la porzione del suo territorio situata alla destra dell’Arno e del Serchio era compresa nell’ Etruria Media anziché nella Liguria, o sivvero nell’ Etruria Circumpadana ?
    Ho già detto che Pisa antica era fabbricata sull’angolo formato, a destra dall’Arno, a sinistra dal Serchio, ( Auser, Esar ) la dove i due fiumi univansi in un solo. Di tal verità fecero testimonianza per tutti Strabone, Plinio e Rutilio Numaziano, l’ultimo de’quali allorché visitò la stessa città nell’anno 415 o nel 416 dell’Era volgare, descriveva nel suo Itinerario la congiunzione de’due fiumi così:

    Alpheae veterem contemplor originis Urbem,
        Quam cingunt geminis Auser et Arnus aquis.
    Conum pyramidis coeuntia fulmina ducunt,
        Intratur modico frons patefacta solo:
    Sed proprium retinet communi in gurgite nomen,
        Et pontum solus scilicet Arnus adit.

    Anche Strabone aveva detto che, dove l’Arno e il Serchio, (seppure è quel desso appellato Esar ) confluivano nel sito di Pisa, ivi l’impeto delle onde faceva alzare il livello nella corrente di mezzo per tal modo che impediva alle persone situate nelle due opposte ripe di vedersi fra loro.
    Io già dissi all’Articolo LUCCA (Volume III pag. 877), che se Polibio nella sua istoria, se Silace nel suo Periplo fecero dell’Arno il confine occidentale dell’Etruria, niuno di essi due, né alcun altro
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    antico scrittore che a me sia noto si occupò di tramandare ai posteri la notizia: se il territorio antico pisano alla loro età oltrepassasse o no il fiume maggiore dalle Toscana.
    Che più: citando un passo di Tito Livio (Lib, XXXIV cap. 56) poco dopo io soggiungeva: «che da quello e da altri riscontri dello storico patavino mi sembrava poter concludere, che la città di Luni, prima etrusca, quindi Ligure, poi socia, finalmente suddita di Roma, dipendeva dai consoli e dai proconsoli residenti in Pisa. Inoltre, io ivi diceva, che dopo cotest’unione di Luni e di Pisa alla Repubblica romana il territorio lunense lungo il littorale toscano confinava immediatamente con quello pisano. – Vedere PIETRASANTA.
    Alla pagina susseguente dello stesso volume (878) io aggiungeva: che qualcuno forse potrebbe domandare da qual parte il territorio assegnato nell’anno 577 ab U. C. alla colonia romana di Lucca confinasse con quello ch’era stato concesso tre anni innanzi alla colonia latina dedotta a Pisa? Di più; come si potrebbe conciliare la storia di Tito Livio con Livio istesso rapporto ai 303,000 jugeri di terreno assegnato alla colonia di Lucca, terreno che egli disse tolto dai Romani ai Liguri, ma che innanzi tutto apparteneva agli Etruschi? Come spiegare tuttociò dopo che la Tavola Velejate ci ha dimostrato che il territorio della colonia, ossia della repubblica lucchese, anche all’epoca dell’Imperatore Trajano si estendeva fino nel territorio di Parma e di Piacenza, vale a dire, sul rovescio dell’Appennino?
    Questioni importantissime sembravano queste per me, comecchè poco confacenti all’opera che tengo indefessamente fra mano. Dirò solo (in quanto all’ultimo quesito) che le parole di Tito Livio e la Tavola Velejate concordar potrebbero con le vicende istoriche quante volte l’erudito, distinti bene i tempi e le cose, richiamar procura alla sua memoria de’fatti di natura consimile. Avvegnachè se Tito Livio, discorrendo delle colonie romane dedotte a Bologna, a Modena e a Parma ( Hist . Lib.
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    XXXVII e XXXIX), diceva che il territorio stato assegnato a quei coloni, sebbene tolto ai Galli Boj , innanzi spettava agli Etruschi; per la stessa ragione è lecito supporre che il terreno della colonia di Lucca conquistato dai Romani ai Liguri potesse innanzi essere appartenuto agli abitanti dell’ Etruria .... Ma di qual Etruria? non già io credo della Media , com’era la Toscana fino all’Arno, ma piuttosto dell’ Etruria Circompadana , la di cui estensione oltrappennina , e forse cisappennina , non fu, che io sappia, definitivamente dimostrata. Imperocchè nulla si oppone al mio dubbio che il territorio dell’ Etruria Circompadana attraversasse una volta l’Appennino in guisa che le popolazioni più meridionali di quegli Etruschi comunicassero con i popoli più occidentali dell’ Etruria Media, o Centrale innanzi che nella contrada fra l’Arno e la Magra penetrassero le tribù dei Liguri Apuani. Arroge che il municipio di Lucca sino ai tempi del romano impero continuò a far parte della Gallia Togata o Cisalpina , dipendendo dal governo di quei proconsoli, come io avvisava all’Articolo LUCCA. ( ERRATA : Vol. III) Vol. II pag. 821-22.
    Comunque sia, torno a ripetere, che la storia di Pisa, innanzi che essa cadesse in potere dei Romani, resta per anco all’oscuro.
    La perdita della seconda decade di Tito Livio ed il silenzio di tutti gli altri storici sulle conquiste fatte dai Romani nell’Etruria occidentale, non ci permette di scoprire in qual epoca precisa Pisa fosse occupata dalle armi del Lazio. Altronde i marmi capitolini fissando all’anno 516 U. C. il primo trionfo riportato dai consoli sopra i Liguri confinanti con l’Etruria, e la notizia aggiunta da Polibio sulla conquista locale degli Etruschi fatta dai Romani, coincidendo con la venuta di Pirro in Italia, dopo domati i Sanniti e molte tribù de’Galli, ciò basta a scuoprire che
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    fu allora per la prima volta, quando le romane legioni si avanzarono al di là dell’Etruria per conquistare il restante d’Italia. Che se codeste congetture sembrassero troppo vaghe, altronde Livio aggiunge qualche avviso per decidere, che poco dopo la prima guerra Punica i Pisani erano alleati dei Romani, tosto che da Pisa nell’anno 520, o 21 di Roma, (232 avanti Gesù Cristo) il console Q. Fabio Massimo Verrucoso , dopo aver vinto in terraferma alcune tribù di Liguri veleggiò con le sue legioni nell’isola di Sardegna, dove riportò vittoria. Finalmente in Pisa due anni dopo si riunirono le romane legioni sotto il Console M. Papirio Masone, per recarsi di costà nell’isola predetta e in quella di Corsica.
    Ma il fatto più decisivo dell’amicizia de’Romani con i Pisani lo fece conoscere il prenominato Polibio all’anno 528 o 29 di Roma (avanti Gesù Cristo 225) quando il console Cajo Attilio Regolo sopra numerosi navigli imbarcò le sue legioni per tornare dalla Sardegna a Pisa e di là per le etrusche maremme recarsi ai comizj di Roma, nel tempo che senza sua saputa la Toscana era invasa da numerosissime orde di Galli che restarono dai due consoli romani nei contorni di Cosa disfatte.
     – (POLYB. Histor . Lib. II.)
    Nel qual conflitto essendo stato ucciso il console C. Attilio, il di lui collega superstite L. Emilio Papo fu solo a godere in Roma gli onori del trionfo, accaduto nel giorno 5 di marzo, siccome nei fasti capitolini con le espressioni seguenti fu registrato:
     
    L. AEMILIUS Q. F. CN. N. PAPUS
    CON. AN DXXIIX.
    DE GALLEIS III. NON. MA.RT.

    Dobbiamo pure allo storico medesimo l’altra notizia, cioè, che il console P. Cornelio Scipione nell’anno di Roma 535 o 36 (218 avanti Gesù Cristo) appena seppe che Annibale col suo esercito aveva superato le Alpi per discendere in Italia, egli con scelto numero
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    di milizie da Roma navigò a Pisa, e appena ebbe raccolto un esercito, s’incamminò nella Lombardia per accamparsi intorno al Pò, dove poi il console stesso restò vinto da Annibale e con gran perdita di gente messo in fuga. – ( Oper . cit. Lib. III).
    Nel tempo però che i fatti principali della seconda guerra punica nelle parti meridionali dell’Italia accadevano, il senato romano inviava nell’Etruria occidentale delle legioni comandate dai pretori e dai proconsoli per difendere la costa marittima, e mantenere in fede del nome romano quelle popolazioni, molte delle quali dopo la disfatta di Canne (anno 537 U.C . 216 avanti Gesù Cristo) ai Cartaginesi avevano aderito. – (LIVII, Hist. Lib. XXVI.) Appena terminata cotesta guerra il governo di Roma deliberò d’inviare un esercito nella provincia di Etruria e uno nella Flaminia con l’istruzione ai consoli di soggiogare specialmente quei Liguri, Insubri e Galli Cisalpini, i quali nell’invasione di Annibale si erano uniti a quel acerrimo nemico de’Romani.
    Correva l’anno 558-59 ab U. C . (avanti Gesù Cristo 195) quando al Console L. Valerio Flacco fu ordinato di portare la guerra fra i Galli Boj, e quasi nel tempo medesimo P. Porcio Leca pretore d’Etruria riceveva dall’esercito gallico 2000 pedoni e 500 soldati a cavallo per marciare verso Pisa ad oggetto di prendere alle spalle con le sue genti le più orientali tribù ligustiche. – ( Vedere APPENNIO TOSCANO Volume I. pagina 101).
    In quell’anno però, e nel susseguente, nel tempo che i Romani si battagliavano coi Galli Boj e con gli Insubri, non accaddero fatti di rilievo in quanto ai Liguri. Ma giunto l’anno 560-61 ab U. C. (193 avanti Gesù Cristo) arrivarono al senato di Roma lettere di Marco Cincio prefetto residente in Pisa, che avvisava il governo qualmente 20,000 Liguri di varie tribù limitrofe congiurando insieme erano scesi repentinamente a devastare il territorio
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    lunense, e di là inoltrate nel confine pisano scorrevano per tutta quella spiaggia marittima. – (LIVII, Histor. Lib. XXXIV).
    Dondechè pochi giorni dopo il Console Q. Minucio Termo, cui era stata assegnata la provincia dei Liguri, mandò un editto perché in Arezzo si riunissero i soldati di due legioni urbane con 15000 soldati a piedi e 500 a cavallo dei socj e dei popoli latini coscritti. Al che si aggiunse un Senatus consulto diretto ai consoli dell’anno antecedente T. Sempronio Longo, e P. Cornelio Scipione Affricano, che ordinava di staccare dal loro esercito i soldati de’socj dirigendoli in Etruria nel luogo e nel giorno che da Q. Minucio sarebbe stato indicato. Frattanto i Liguri affluendo sempre più intorno alla città di Pisa erano cresciuti sino a 40,000, quando il console mosse col nuovo esercito da Arezzo conducendolo con riserva, e come in ordine di battaglia ( quadrato agmine ) verso Pisa. Arrivato costà il console poté con la sua armata introdursi in città, stante che l’oste si era accampata un miglio lungi di là dal fiume; quindi nel giorno seguente Q. Minucio piantò i suoi accampamenti circa mezzo miglio a occidente di Pisa donde mediante piccole scaramuccie difendeva la città dai nemici, i quali altronde per essere più forti di numero e ansiosi di preda scorrevano a saccheggiare quelle etrusche campagne. – ( Oper. cit ., Lib. XXXV.)
    A cotesta età pertanto i Pisani erano del popolo romano solamente alleati, di che fornisce più d’una prova lo stesso Tito Livio, il quale scrivendo appunto della guerra ligustica che si faceva in quel tempo dal Console Q. Mincio soggiunge: come quel duce con leggieri combattimenti difendeva l’agro de’socj, mentre non ardiva con tante minori forze collettizie allontanarsi da Pisa a campeggiare. E ciò anche sul riflesso che per avere in quell’anno stesso azzardato egli di condurre l’esercito in un passaggio angusto e montuoso, si trovò chiuso dai nemici in guisa
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    che senza il coraggio di 800 cavalieri Numidi, i Romani correvano rischio di ritrovare colà il secondo caso delle forche caudine. – Vedere MINUCCIANO.
    Avvicinatosi frattanto il tempo de’comizj (marzo dell’anno 190 avanti G. G.) il console Minucio dové scrivere da Pisa al senato, qualmente egli non potrebbe recarsi a Roma senza danno de’socj e della repubblica ( loc. cit .). Infatti dopo tale avviso fu prorogato per un altr’anno a Q. Minucio il comando dell’armata contro i Liguri accampati nell’agro pisano, sopra i quali poco dopo egli ottenne una vittoria segnalata e tale che il suo esercito s’internò nel paese nemico per mettere a ferro e fuoco i casali e vici de’Liguri, ritogliendo loro gran parte della preda etrusca fatta dall’oste nell’anno innanzi, dopo di che i Romani se ne ritornarono negli accampamenti di Pisa.
    Così terminò felicemente la campagna dell’anno di Roma 561 o 562. Ma nel susseguente, che fu il secondo anno del proconsolato di Q. Minucio, i Liguri avendo radunato gran numero di soldati, piombarono di notte improvvisi ad assalire gli accampamenti del proconsole che pure sostenne con bravura tanto impeto sino al fare del giorno. Ma al primo albore Q. Minucio fece escire dagli steccati le sue genti, le quali dopo aver ucciso sul campo di battaglia da 4000 Liguri, misero il restante in piena fuga.
    Che sebbene Q. Minucio nel terz’anno del suo proconsolato scrivesse al senato essersi i Liguri limitrofi dati per vinti, pure dopo quattr’anni di quiete quella razza indomita rinnovò le ostilità con più serio apparato, sicché nei comizj dell’anno 565 al 566 di Roma fu decretato che a M. Valerio Messala, uno dei due consoli nuovi, venisse assegnata Pisa con la provincia della Liguria. Apparisce per altro dallo storico medesimo, che M. Valerio durante il suo consolato non fece alcuna cosa degna di memoria circa l’abbattere l’orgoglio di quei fieri montanari confinanti col territorio di Luni e
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    di Pisa.
    Per la qual cosa, nell’anno di Roma 566 e 567, appena creati i consoli M. Emilio Lepido e T. Flaminio Nepote, il senato di Roma deliberò che ad entrambi fosse confidata l’impresa della guerra ligustica. In conseguenza il Console T. Flaminio condusse le sue legioni contro i Liguri Friniati ( nel Frignano ), costringendoli dopo varie battaglie a fare il suo volere; quindi portò la guerra a quei Liguri Apuani che nell’anno innanzi avevano fatta incursione non solo nell’agro pisano ma anche nel bolognese, e anch’essi furon costretti ben presto a darsi per vinti. Ma che costoro si mantenessero poco tempo soggetti al voler de’Romani è dimostrato dalla spedizione ordinata nell’anno seguente, quando il Console Q. Marcio Filippo marciò contro essi con nuove legioni, le quali furono assalite dai Liguri Apuani in luogo angusto e di difficile accesso, per modo che vi restarono morti 4000 soldati, perdute tre insegne della seconda legione, oltre 11 stendardi dei socj latini.
    Allora il senato ai nuovi comizj (anno di Roma 568 al 569) ordinò al Console M. Sempronio Tuditano di condurre le sue legioni a Pisa per vendicare tanta ignominia ricevuta dai Liguri. Infatti poco dopo M. Sempronio valorosamente eseguì le intenzioni del popolo romano, e superando l’asprezza de’luoghi montuosi, risalì da Pisa contro le sorgenti del Serchio fino al fiume Magra donde le legioni vittoriose passarono al porto di Luni. Sennonché quelle feroci popolazioni alla fine dell’anno 571 al 72 di Roma non stettero più ferme, giacché il Console Q. Fabio Labeone, cui era toccata quella provincia, dové scrivere al senato: esservi gran pericolo che gli Apuani, sempre pronti a rivoluzione, non irrompessero al loro solito nell’agro pisano. Per la qual cosa appena eletti i consoli, L. Emilio Paolo e Gn. Bebio Tanfilo, furono inviati entrambi contro i Liguri, per l’oggetto che eglino conducessero prosperamente la guerra ed espugnassero sopra tutto i Liguri Apuani fino nei loro inaccessibili tuguri. Quindi al tempo nuovo prima dell’adunanza
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    de’comizj fu ordinato ad un solo dei consoli di ritornare a Roma affinché l’altro restasse nella provincia. – Era già avanzato l’autunno del 572 quando uno de’Consoli, L. Emilio, fece prendere alle sue legioni i quartieri d’inverno in Pisa, dove appena terminati i comizj tornò l’altro collega Gn. Bebio in qualità di proconsole.
    Ma la tribù degli Apuani continuava sempre ad essere infesta ai Romani ed ai Pisani in modo che dal senato fu ordinato che ai consoli creati nell’anno di Roma 573-74 si fornissero due legioni con più 5000 soldati a piedi e a cavallo degli alleati, donde con tale esercito si portasse una guerra decisiva nella contrada de’Liguri Apuani.
    Per tal guisa l’oste trovandosi da tante forze ne’suoi stessi recessi assalita, dové darsi a discrezione de’Romani, che imposero ai vinti la dura condizione di consegnare ai vincitori armi, uomini, donne, vecchi, fanciulli e tutto ciò che aveano di più caro, costringendo nel tempo stesso quei montanari ad abbandonare le sedi avite ed i sepolcri de’loro maggiori. Cotesta operazione, per la quale si trasportarono nel Sannio 40,000 Liguri, essendo stata eseguita nell’anno predetto sotto il proconsolato di P. Cornelio Cetego e di Gn. Bebio Tanfilo, fece dare a quelle colonie ligustiche il soprannome di Corneliane e Bebiane . Quindi avvenne, che nell’’anno stesso 574 di Roma i Pisani, vedendosi liberati da un’oste cotanto infesta, inviarono i loro legati al senato romano affinché volesse mandare a Pisa una colonia di cittadini, siccome fu loro concessa di diritto latino, assegnando per triunviri della medesima Q. Fabio Buteone, Marco, e Publio Lenate.
    Dalla deduzione per tanto della colonia latina in poi sembra che la città di Pisa cessasse di essere federata del popolo romano, ma invece che quel capoluogo di prefettura militare insieme col suo contado restasse unito all’Italia romana.
    Peraltro, se Pisa poté acquistare mediante la sua colonia il diritto latino, la stessa città non perdé quello del municipio, voglio dire leggi, sacerdoti, divinità,
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    e magistrature proprie, nella guisa stessa che simili onori conservaronsi alla città di Lucca, al pari che a tanti altri popoli italiani rammentati da Festo alla voce Municipium. – Vedere LUCCA., Volume II. pagina 821.
    E siccome il popolo romano rispetto ai suffragj fu ripartito in 35 tribù, così la città di Pisa venne aggregata alla Tribù Galeria, di che fanno testimonianza varii marmi sparsi per l’Italia, non pochi dei quali si conservano ancora in Pisa.
    Mancano bensì dati da assicurare che dalla colonia latina pisana prendesse il nome una porta dell’antico cerchio dell’città, cui fu conservato il vocabolo di Porta Latina anche nei secoli intorno al mille. – Vedere più avanti nell’Articolo medesimo Cerchi diversi delle mura di Pisa.
    Né tampoco si conosce quali fossero e da qual parte i confini del territorio assegnato alla colonia latina di Pisa con quelli della colonia romana di Lucca, comecchè quest’ ultima nell’anno 585 di Roma venisse ad occupare una parte dell’agro pisano. – Vedere LUCCA. Volume II, pagina 820.
    Io dissi poco sopra, che dopo dedotta a Pisa la colonia di diritto latino, e dopo accordato a quella popolazione il privilegio de’suffragj ascrivendola alla Tribù Galeria, la stessa città col suo distretto divenne parte dell’Italia romana. Imperocchè l’Italia propriamente detta sotto il governo della romana repubblica aveva per confine l’ Arno dal lato del mare Mediterraneo ed il Rubicone dalla parte dell’Adriatico.
    Ma se T. Livio fece di Pisa il capoluogo di una provincia diversa da quella de’Liguri ( Hist. Lib. XXXIII e XLI) nel tempo stesso che Lucca con l’esteso suo territorio dipendeva dai governanti della Gallia Togata, bisogna ben credere che la città di Pisa dopo la deduzione della sua colonia restasse con tutto il contado annessole incorporata alla Toscana. Vi sarà forse alcuno che potrebbe porre innanzi qualche difficoltà, come sarebbe quella della Via Emilia
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    munita da M. Emilio Scauro, dopo che questo console ebbe soggiogati i Liguri Gatisci. La qual via tracciata per Pisa e Luni sino ai Sabazi si crede sia stata aperta durante il proconsolato di Emilio Scauro (anno di Roma 639-40), vale a dire 66 anni dopo unita a Roma la città di Pisa.
    Vero è che Strabone ( Geograph. lib. V) ne assicura essere l’autore di detta strada quel M. Emilio Scauro che mediante l’escavazione di grandi fosse navigabili condusse dall’agro di Parma nel Po’ le acque che stagnavano in quelle vaste paludi transitate dall’esercito di Annibale con gran difficoltà innanzi di scendere in Toscana. Ma se Scauro, sento dirmi, quando era proconsole aprì la grande strada da Pisa ai Sabazi, come avrebbe potuto eseguire ciò fuori della sua provincia? Tostochè vigeva una legge che proibiva ai proconsoli di oltrepassare i limiti delle provincie loro assegnate? Come far ciò dentro l’Italia quando la costruzione delle vie militari e di altre opere pubbliche era riservata ai censori? Tali difficoltà per altro, comecchè siano di gran peso, dovranno perdere assai della loro forza allorché si vorrà riflettere avere M. Emilio Scauro occupato nov’anni dopo il suo consolato (cioè l’anno di Roma 647-48) anche questa seconda magistratura censoria. Per modo che potrebbe essere che il personaggio medesimo fosse stato autore non solo del tronco della Via Emilia compresa nella Gallia Togata, ma ancora della continuazione dell’Aurelia che in qualità di censore potea condurre dalle Maremme a Pisa e a Luni, e di là come proconsole, nella Gallia Togata. Così a senso mio, si riconcilia Strabone con Aurelio Vittore, o con chi fu l’autore delle vite degli uomini illustri, il quale nell’elogio di Emilio Scauro scriveva di lui: Censor viam Aemiliam stravit, Pontem Milvium fecit . – Vedere L’Articolo VIA AURELLIA NUOVA, o VIA EMILIA DI SCAURO.
    Frattanto, se per cagione delle guerre civili da un lato scemavasi quasi per tutta Italia la popolazione,
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    dall’altro lato a Pisa si aumentava l’agro pubblico a proporzione che le colmate dalle torbe trascinate dal Serchio e dall’Arno spingevano il delta pisano verso il litorale, stato in tempi più antichi fondo di mare. Quindi riescì facile all’Imperatore Cesare Augusto, piuttostochè al dittatore Giulio Cesare, di assegnare alle legioni reduci in Italia dalle vittorie riportate sopra i difensori della Repubblica i fondi pubblici de’municipj col ripartire a una di quelle tante colonie dei suoi veterani i terreni del litorale pisano, sicché i nuovi ospiti di Pisa in ossequio del loro benefattore chiamarono la pisana Colonia Giulia Ossequiosa . Io dissi la colonia militare pisana creata da Augusto anziché da Giulio Cesare non tanto sul riflesso che il cognome della famiglia Giulia era passato in quella di Augusto, quanto per la ragione che quest’imperatore in 28 anni (dal 724 al 752 U.C.) popolò di soldati 28 colonie in Italia, corredandole di opere pubbliche, arricchendole di entrate, di diritti e dignità, sicché esse tanto in riguardo ai suffragi, quanto rispetto alle leggi ed ai magistrati decurionali potevano quasi paragonarsi ad altrettante piccole Rome. – (SVETONIO, in August. Cap. 49. – CHIMENTELLII, de Honore Bisellii – NORISII, Cenotaphia pisana ).
    Aggiungasi a tutto ciò un frammento che appoggia abbastanza il mio asserto. Imperocché, e perirono le opere di quella età o le lapide dove un tal dubbio poteva decifrarsi, sussiste per avventura una prova plausibile e tale da far credere che la colonia Giulia Ossequiosa di Pisa spettasse ad Augusto e non a Giulio Cesare.
    Io l’accennai all’Articolo Luni (Volume II pagine 939 e 940) allorché citando gli autori della rettificazione dei confini delle colonie, non volli passare sotto silenzio una notizia registrata in quei libri relativamente ai limiti delle colonie militari dedotte nella Campania e nelle Maremme toscane. Imperocché ivi si legge che, in origine da Augusto fu ripartita ai veterani de’suoi eserciti una parte
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    de’campi e delle selve nella regione della Campania e lungo tutta la via Aurelia
    (cioè Aurelia vecchia nella Maremma più vicina a Roma, e Aurelia nuova, ossia di Emilio Scauro nella Maremma pisana). Nelle quali campagne si posero allora semplicemente de’ termini di legno sacrificali. Sennonché qualche tempo dopo l’Imperatore ( ERRATA : Adriano ) Trajano fece sostituire ai termini di legno di quelle colonie altri dl pietra, sui quali fu scolpito il numero progressivo fino al confine dell’agro di ciascheduna di esse.
    Sebbene le espressioni in quel libro indicate non specifichino alcuna colonia marittima lungo la via Aurelia, tale come fu quella di Pisa, vi ha però buona ragione per credere che anco la pisana Colonia Ossequente fosse una delle 28 colonie militari distribuite da Augusto per tutta Italia, dodici delle quali furono indicate da Frontino, due dal Sigonio, cinque altre dai marmi Gruteriani e una da quelli pubblicati dal Noris. – Quindi rispetto alla qualità del terreno ripartito ed alla quantità de’veterani dall’Imperatore Augusto regalati, ne diede un indizio Dione Cassio nella sua Storia (Lib. 51), e l’iscrizione Anciriana pubblicata da Grutero. Quest’ultimo marmo infatti ne avvisa, che nell’anno 723, o 24 a Roma, sotto il quarto consolato di Ottaviano Augusto, e nell’anno 789, o 740 sotto i consoli M. Licinio Grasso e Gneo Lentulo Augure a poco più di 200,000 soldati furono assegnati dei predj parte pubblici, parte comprati e parte estorti ai municipj.
    In ogni modo a Pisa faceva duopo di avere gente laboriosa e forte, onde coltivare le sue vaste campagne e fornire sufficienti operaj alla marina, nel cui porto molte volte il governo di Roma faceva imbarcare le sue legioni per la Liguria marittima, per la Gallia Narbonese, per le Spagne e più spesso ancora per le isole di Corsica e di Sardegna.
    Quindi è che molti coloni militari di Pisa
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    dovettero far parte dei collegi dei fabbri navali e de’fabbri tignarj attinenti entrambi a quell’arsenale, della cui stazione fa fede sopra tutte un’iscrizione Gruteriana relativa a M. Nevio Restituto della Tribù Galeria che fu soldato della X coorte pretoriana, e che con suo testamento assegnò 4000 sesterzj al collegio dei fabbri navali della STAZIONE ANTICHISSIMA PISANA, affinché ogn’anno fossero celebrati al suo sepolcro i parentali, e in caso d’inosservanza nominò esecutori di ciò i fabbri tignarj di Pisa con facoltà di ritirare dai fabbri navali la moneta a tal uopo dal testatore assegnata.
    Donde si scuopre che nella colonia pisana esistevano due collegj, co’suoi decemviri, i decurioni ed i fabbri destinati alla costruzione navale. Oltre di ciò altri marmi della colonia indicano i questori, i flamini augustali ed i pontefici minori, mentre spettavano al municipio di Pisa gli edili pisani aventi l’onore del bisellio ed i curatori de’calendarj, uno dei quali fu anche augustale, siccome lo fu quel L. Papirio Augustale in Pisa ed in Lucca , del quale feci passeggera menzione agli Articoli FOSSE PAPIRIANE e MASSACIUCCOLI.
    Cotesti sacerdoti Augustali furono decretati nelle città dell’impero quando tutto l’orbe romano innalzava per adulazione al divo Augusto ancora vivente are, fani e tempj, fino a che nel primo anno dell’impero di Tiberio i sacerdoti Augustali furono in modo di collegio perennemente costituiti e confermati.
    Era riservato peraltro alla capitale dell’orbe romano il collegio dei pontefici, cui fu ascritto il giovinetto Cajo Cesare Augusto figlio di M. Agrippa e di Giulia Augusta, adottato dall’avo Ottaviano imperatore insieme coll’altro fratello Lucio Cesare Augusto che fu ascritto al collegio degli Augustali di Pisa , della cui colonia militare fu anco patrono. – E qui cade il destro di rammentare i famosi decreti funerarj che i decurioni della colonia di Pisa fecero registrare in due
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    grandi tavole di marmo, illustrate dal Noris nell’opera che ha per titolo Cenotaphia Pisana , e poco innanzi dall’erudito professore pisano Giovanni Pagni, il cui lavoro in gran parte conservasi inedito nella biblioteca Magliabechiana di Firenze.
    Cotesti decreti funerarj furono ordinati dai Pisani in due tempi diversi, il primo per la morte di Lucio Cesare e il secondo un anno dopo quando morì Cajo Cesare, nati da Giulia Augusta a M. Agrippa, adottati ancor fanciulli dall’Imperatore Ottaviano, per cui eglino furono di buon ora insigniti di onorificenze e di magistrature sacre e profane. Ma uno di essi Cajo Cesare, dopo aver dato prove di valore e di belle speranze, morì in oriente sotto il consolato di Sesto Elio Catone, e di C. Senzio Saturnino, cioè nel quarto anno dell’Era Volgare e 756 di Roma, quando l’altro fratello, Lucio Cesare, stato Patrono della Colonia Giulia Pisana Ossequiosa , un anno innanzi era mancato ai vivi in Marsilia nel tempo che andava agli eserciti in Spagna: Ambo fato breves (scriveva di essi L. Floro), sed alter inglorius, Massiliae quippe Lucius morbo solvitur . Che la morte di Lucio Cesare precedesse quella del fratello, lo disse Dione nelle sue sinopsi edite dal Zonara, ma niuno disse quando accadesse; solo lo attesta il decreto pisano de’suoi parentali, dove è indicato l’anno e il mese della sua morte avvenuta verso la fine di agosto dell’anno 755 di Roma. Essendochè Lucio Cesare da qualche settimana non era più tra i vivi, quando nel di 19 settembre dell’anno 755 di Roma i decurioni della colonia pisana, volendo imitare il senato di Roma, decretarono annuali esequie da farsi ai Mani di L. Cesare figlio di Cesare Augusto Padre della Patria, Pontefice Massimo, nella sua XV Potestà Tribunizia , la quale potestà cadde appunto nell’anno 755 ab Urbe Condita .
    Lo che concorda assai bene con la testimonianza di Svetonio,
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    il quale nella vita di Augusto, al Capitolo 65 scrisse: che questo Imperatore perdé Cajo e Lucio nello spazio di 18 mesi; giacché tanti appunto ne corsero dal mese di agosto 755, epoca della morte di Lucio Cesare , al 21 febbrajo 757 Urbe Condita giorno della morte di Cajo Cesare , precisamente indicato nell’altro decreto pisano. – (NORISII, Cenotaphia pisana . Dissert. II. capitolo. 15).
    Strabone che scriveva la sua opera storico-geografica poco dopo la morte dei due fratelli adottati da Augusto, cioè fra l’anno di Roma 770 e 772, corrispondenti ai 18 e 20 dell’Era Volgare, dopo visitata cotesta contrada, indicò meglio di ogni altro la situazione topografica della città di Pisa nel modo in cui era a quella età, voglio dire sulla confluenza dei fiumi Arno e Serchio; aggiungendo, che il restante dell’alveo da percorrere da Pisa al mare era allora di soli 20 stadj. E siccome il greco geografo nelle sue misure fece uso comunemente dello stadio olimpico, otto dei quali formavano un miglio romano, ne conseguita, che 18 secoli indietro lo sbocco d’Arno nel mare doveva essere distante da Pisa intorno a due miglia e mezzo romane, pari a due miglia geografiche di 60 al grado.
    Quindi lo stesso autore soggiungeva, essere stata una volta cotesta città assai felice tostochè essa primeggiò fra gli Etruschi per gloria d’armi; e poiché anche al tempo del greco scrittore Pisa mantenevasi nobile ed opulenta città, dove per copia di vettovaglie, per opere in marmi, come ancora per materiali ad uso navale si abbondava, dei quali materiali non solo nei tempi della Repubblica romana erasi fatto gran uso, ma si adoperavano negli edifizi di Roma e nelle grandiose ville che nei contorni di quella capitale con magnificenza asiatica s’innalzavano. Tali espressioni di Strabone appellano senza dubbio alla ricchezza dei marmi che fino dal tempo suo somministrare dovevano non tanto il Monte Pisano, quanto ancora i monti di Campiglia e
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    le cave lunensi di Carrara, paesi sotto posti al prefetto dell’Etruria romana; sicché di quei marmi si ornarono molti edifizj della città di Pisa, siccome lo manifestano i frammenti di lapide, le colonne, i capitelli ed i sarcofagi, che ad onta delle barbariche incursioni, dell’ignoranza dei tempi e del lasso di tanti secoli mostransi tuttora in cotesta città muti ma espressivi testimoni di tal verità.
    Degli edifizj però di Pisa romana, ad eccezione delle arche, di molte iscrizioni lapidarie e dedicatorie, di non pochi torsi, di teste e altri frammenti di statue, attualmente non restano ivi sopra terra altro che meschini residui di terme, descritti da varj autori, e due colonne di marmo con i loro respettivi capitelli rimaste in posto, e che appartennero probabilmente al vestibolo di un tempio pagano eretto sotto gli imperatori Antonini, le quali veggonsi appoggiate al muro della distrutta chiesa di S. Felice in Pisa. Da coteste sole vestigia di romani edifizi è dimostrato che il piano di essa città 16 o 17 secoli indietro era più basso almeno 4 braccia fiorentine, pari a otto piedi romani rispetto al piano attuale. – Vedere qui appresso, CERCHJ DIVERSI DELLA CITTA’, e PISA, COMUNITA.’.
    Per quanto poi i due decreti della colonia pisana relativi ai parentali di Lucio e di Cajo Cesari rammentino i bagni pubblici, i giuochi circensi, gli scenici ed altre cose da far credere che in Pisa fino d’allora esistessero terme e circhi, pure non è da assicurare che gli avanzi delle Terme tuttora esistenti spettino all’epoca di Ottaviano Augusto, e molto meno che risalghino a quella della repubblica romana.
    Ma le iscrizioni più copiose superstiti dei tempi antichi riferiscono all’epoca dell’Imperatore Adriano, o del suo successore Antonino Pio, che fu anche preside o correttore di quel monarca in Toscana. – Io non starò a rammentare qualmente spetta alla presidenza di Antonino Pio la sostituzione de’termini di pietra e di marmo a quelli di legno nelle
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    colonie militari marittime di Pisa, di Luni, Cosa, eccetera; né starò a cercare se Adriano o piuttosto il suo successore fu quello che fece innalzare in Pisa terme, teatri, anfiteatri o quali altri pubblici edifizj, dirò bensì che fu opera ordinata da Antonino Pio imperatore quella dell’ingrandimento e ricostruzione della Via Aurelia nuova , ossia di Emilio Scauro , la quale strada non solo egli fece ornare di colonne milliarie, ma volle ancora che per memoria del suo autore fosse chiamata, anziché Aurelia nuova , Via Emilia , siccome adesso in tutto il Compartimento pisano costantemente si appella. Al che aggiungerò essere conosciuta abbastanza dagli eruditi fra le colonne milliarie quella esistente tuttora in Val di Fine presso Rosignano in un luogo che dal marmo milliario prese il nomignolo che porta attualmente di Marmigliajo , siccome vi se ne trova un’altra da quella non molto distante in luogo appellato il Crocino.Vedere ( ERRATA : MARMIGLIAJO) RAMAZZANO.
    Ma più completa di tutte alla distanza di un miglio dalla prima esisteva una terza colonna trasportata di là nel camposanto di Pisa, nella quale, oltre i titoli e il nome dell’autore di quel restauro, leggesi incisa la distanza delle miglia da Roma a detta colonna, al pari che nell’altra, ma nella prima vi è l’epoca in cui fu la via ripristinata. Lo che avvenne nel second’anno dell’impero di Elio Antonino Pio, quando egli era console la terza volta, vale a dire ( ERRATA : nell’anno 992-93) nell’anno 892 o 893 di Roma, ossia nel 140 di Gesù Cristo. Eccone la copia:

    ( ERRATA : CAES. L. AEL.) CAES. T. AEL.
    ADRIANUS ANTONINUS AUG.
    PIUS. P. M. TR. P. VI. COS. III. IMP.
    II. PP. VIAM AEMILIAM VETU
    STATE DILAPSAM RESTITUEN
    DAM. CUR. A. ROMA M. P.
    CLXXXVIII.

    Nell’altra colonna milliaria, stata collocata della precedente un
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    miglio più vicina a Roma, si legge semplicemente:

    VIA AEMILIA
    A ROMA M. P. CLXXXVII.

    Io non credo che a queste frequenti colonne milliarie della grande strada di Emilio Scauro riferire volesse Rutilio Numaziano, allora quando egli nel recarsi a piedi dal Porto Pisano di Triturrita a Pisa vide lungo quella via vicinale frequenti pietre milliarie; sicché il nobil poeta, dopo aver detto:

    Ipse vehor Pisas qua solet ire pedes,

    aggiungeva:

    Intervalla viae fessis praestare videtur
        Qui notat inscriptus millia crebra lapis.
                                     (Itiner. Lib. II.)

    È chiaro che doveva esso riferire ad una via diversa dalla grande strada aperta anticamente da Roma al foro Aurelio, poscia continuata per Pisa, la quale passava per Val di Fine e Val di Tora, e per ciò disgiunta affatto dal Porto Pisano, da dove ai tempi di Rutilio staccavasi per Pisa una via municipale fiancheggiata da colonne milliarie. – Forse ad una di coteste colonne spettava il marmo dottamente illustrato dal Chimentelli nella sua opera de Honore Bisellii , e che egli trovò giacente ed inosservato nel portico della chiesa di S. Pietro in Grado fra Livorno e Pisa. Dico che non doveva esso appartenere alla Via Emilia restaurata dall’Imperatore Antonino Pio, anche perché quel cippo indicava la distanza di quattro miglia dalla città di Pisa e non da Roma. Essendochè nella Via Emilia di Scauro al pari che nelle grandi strade militari scolpivasi il numero delle miglia a partire da quello aureo della capitale del mondo romano. Aggiungasi che nel cippo di S. Pietro in Grado si leggeva l’epoca in cui esso fu ordinato vale a dire, sotto i tre imperatori Valente, Graziano e Valentiniano II, corrispondente presso a poco all’anno 376 dell’E. V., non più che quarant’anni innanzi che passasse per quella via Rutilio Numaziano. Ma lo scopo principale della gita pedestre di Rutilio da Triturrita a Pisa fu
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    ad oggetto di visitare la statua innalzata dal popolo pisano nel foro della stessa città a Claudio Numaziano suo padre in benemerenza di aver egli con soddisfazione governato quei sudditi mentre era consolare della Toscana sotto gli ultimi Imperatori d’occidente. Il qual magistrato equivalente al preside delle 17 provincie di Italia fu instituito dall’Imperatore Adriano sino da quando la Toscana formava con l’Umbria una sola provincia; di che abbiamo una prova nella Notitia dignitatum imperii occidentalis , della qual opera si crede autore Sesto Rufo , dicendosi ivi, che il preside della Toscana e dell’Umbria era sottoposto al vicario di Roma, dal quale dipendevano altri otto presidi, o correttori di altrettante provincie dell’Italia. Cotesta ultima divisione politica si mantenne sino all’invasione dei Goti, sotto il cui dominio i titoli di presidi o correttori si mutarono in quelli di prefetti , e poi di duchi .

    2. PISA SOTTO IL DOMINIO DE’GOTI E DE’LONGOBARDI

    L’ultimo addio a Pisa romana ed ai suoi reggitori lo dava il patrizio Rutilio Numaziano quando, nell’anno 415 al 416 dell’Era volgare, fuggiva da Roma minacciata di restare preda di varie orde di barbari che irrompevano a vicenda dalle Alpi nell’Italia; per modo che il nobile francese volendo far ritorno alla sua patria, per sicurezza maggiore preferì all’impeditissimo viaggio terrestre quello marittimo partendo da Roma per la foce del Tevere, e di là costeggiando sopra una feluca il littorale toscano. – (RUTIL. NUMAT. Itinerar. Maritt .)
    Dalle poche parole che quel poeta lasciò scritte di Pisa si comprende che questa città nel principio del secolo quinto era sempre fiancheggiata e racchiusa fra i due fiumi Arno e Serchio ( Auser ) che ivi confluivano. – Che se Pisa non si mantenne in seguito costante sede dei capi della toscana provincia, essa però conservava molto dell’antico lustro, siccome lo diede a conoscere Numaziano stesso nel costume ad imitazione di Roma dai Pisani conservato,
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    come quello di erigere statue agli uomini più benemeriti dello Stato.
    Quale poi la città di Pisa si rimanesse dopo la discesa de’barbari in Italia, allorché l’impero d’occidente ricevette l’ultima scossa da quella stessa possanza di guerra che sulle rovine delle vinte nazioni lo aveva innalzato, quale fosse precisamente lo stato suo, non si saprebbe in tanta scarsità di memorie e di meno guaste tradizioni plausibilmente ravvisare.
    Il feroce Attila con i suoi Unni aveva portato la desolazione nell’Italia, quando alla testa di un’altra razza di barbari (gli Eruli) nell’anno 478 di Gesù Cristo per distruggere l’impero di occidente vi capitò il re Odoacre, sconfitto esso stesso a vicenda dodici anni dopo da Teodorico re de’Goti, il quale costrinse quel re degli Eruli a rinchiudersi in Ravenna, e dopo tre anni di assedio (anno 493) a cedere il regno ad un più valente conquistatore che fece della città di Ravenna la sua capitale ed una novella Roma.
    Dalle lettere del re Teodorico raccolte dal dotto suo segretario Cassiodoro si può dedurre, che sotto quel saggio monarca la marina d’Italia, sia mercantile come da guerra, trovavasi in decadenza. Volendo però Teodorico rimetterla in piedi per far fronte alle forze navali de’Greci, decretò che nei porti del regno si fabbricassero mille bastimenti a guisa di galere ( dromoni ) capaci non solo di trasportare le merci, ma ancora di opporsi con successo ai navigli de’nemici; e ordinava nel tempo stesso al prefetto navale di riunire sollecitamente un numero competente di marinari per formarne l’equipaggio, esclusi i pescatori. – A favorire l’industria di questi ultimi appella un’altra lettera di Teodorico diretta al prefetto stesso navale, cui comandava di far toglier di mezzo in alcuni fiumi dell’Italia le siepi, o le serre poste specialmente nel Mincio , nell’ Oglio , nel Serchio e nel Tevere , sicché niuno ardisse mai più di chiudere con tali ostacoli il passo
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    alle barche pescherecce, sul riflesso che rusticani lavori non dovevano impedire la libertà dei fiumi mentre l’utile de’ privati non poteva mettersi a fronte di quello di una libera navigazione o della pesca, né al pubblico interesse. – (CASSIOD. , Epist. Varior . Lib. V. Epist. 17 e 20.)
    Da quest’ultima lettera molti dotti hanno arguito che a quell’età, cioè sulla fine del secolo quinto, il Serchio ( Auxer ) non solo fosse navigabile, ma che avesse un corso suo proprio fino al mare. Peraltro le espressioni dell’epistola predetta non basterebbono a decidere il quesito, che sotto il regno di Teodorico il fiume Auxer (tradotto in Serchio), cessasse di essere tributario dell’Arno, e che esso sboccasse direttamente nel mare Mediterraneo, siccome non sboccarono mai direttamente nell’Adriatico i due fiumi del Mincio ed Oglio che influiscono entrambi nel maggior fiume d’Italia. Sembrami appunto per questo, se non m’inganno, che il Po’ ed altri grossi fiumi dell’Italia superiore non furono in quelle lettere nominati per l’impossibilità di opporre al loro corso impetuoso serre od altri ostacoli di simil fatta.
    Mancato però il genio di Teodorico, la risorta marina al pari di molte altre opere di quel benemerito principe disparvero dall’Italia e dalla Toscana in guisa che le navi mercantili non azzardarono far più lunghi tragitti. Cotesta trascuratezza nei successori di Teodorico per la difesa delle coste del regno facilitò ai Greci la discesa nella penisola che ricuperarono l’impero.
    Pisa con il restante della Toscana era in mano de’Goti quando Narsete generale dell’Imperatore Giustiniano, dopo la vittoria nell’Umbria sopra il re Totila riportata, mosse porzione del suo esercito verso l’Etruria. Tutte le città, meno Lucca, accolsero senza ostacolo i vincitori, i quali non pare che alterassero gran fatto il sistema organico delle gotiche magistrature, mentre conservarono le cariche e ufizj di provincia e di municipio che la vinta nazione aveva introdotto, o mantenuto, com’erano egl’imperatori d’occidente, con la differenza però che i
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    Greci invece de’prefetti di provincia sostituirono comunemente i duchi. Infatti uno di questi ultimi magistrati restò, o fu dato a Lucca dopo la sua onorevole capitolazione.
    Se Pisa anch’essa fino d’allora avesse un duca proprio,o se quello di Lucca presedesse all’una e all’altra città, niuna memoria lo manifesta, né anche dopo l’arrivo de’Longobardi dai quali furono espulsi i Greci dall’alta Italia, dalle provincie dell’Umbria e della Toscana, senza dire della conquista più lontana da essi lungamente mantenuta del ducato di Benevento.
    I soli esarchi, che a nome degl’imperatori d’oriente dopo Narsete risedettero in Ravenna, ed il pontefice in Roma, poterono a forza di armi, e talvolta per via di tregue o di paci a breve durata mantenersi in stato. – Era sul principio del secolo VII quando le città di Pisa e di Sovana in maremma governavansi quasi a repubblica, tostochè il Pontefice S. Gregorio Magno a quel tempo inviava colà gente incaricata d’indurre entrambi quei Comuni a favorire la causa dell’imperatore Maurizio di Costantinopoli. Ma nulla di buono il sommo gerarca per allora ottenne dai Pisani; chè anzi lo stesso Papa dové informare l’esarca di Ravenna esservi nel porto di Pisa preparati i dromoni , o galere, per escire in corso contro le navi de’Greci e contro i sudditi dell’Imperatore. – (S. GREGORII MAGN. Lib. XIII Epist. 38. Smeragdo Patricio et Exarco ).
    Dalle quali cose risulta, che Pisa dopo l’ingresso de’Longobardi in Italia continuò per molto tempo a mantenersi libera piuttosto che suddita dei Longobardi, benché questi gia da 45 anni avessero fermato il piè in Italia. – Quando un loro duca stabilisse la residenza in Toscana, per guardare specialmente i confini lungo il littorale, non vi è dato sicuro da dirlo; siccome non potrebbesi asserire che quel duca Allovisino rammentato all’anno 686 in un diploma dato in Pavia dal re Cuniperto relativamente alla fondazione della chiesa di S. Frediano in Lucca, fosse duca di Toscana piuttosto che
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    di altra provincia del regno: e nettampoco se questi o altri duchi longobardi suoi coetanei tenessero costantemente la loro sede in Lucca. – Vedere l’Articolo LUCCA. –
    Comunque fosse, è certo però che all’espulsione de’Longobardi dall’alta Italia per opera di Carlo Magno, trovavasi in Pisa un duca militare e politico incaricato di guardare e difendere dalle scorrerie piratiche dei Greci la spiaggia toscana. Esisteva pure a quest’ultima epoca in Pisa al pari che in Lucca il palazzo e la corte dei duchi, siccome a Pisa al pari che a Lucca dai re Longobardi era stato concesso il diritto di batter monete di egual bontà e valore.
    Delle quali verità fanno testimonianza non solamente varj documenti pisani dei secoli VIII e IX, ma due lettere del pontefice Adriano I all’Imperatore Carlo Magno, le quali ci scuoprono che il duca Allone longobardo, conservato, o nominato dal nuovo re al governo di Lucca e di Pisa aveva lo special incarico di custodire e difendere la spiaggia toscana dalle scorrerie e rapine dei Greci.
    È altresì vero che qui non si tratta del periodo del regno de’Longobardi in Toscana, ma dei primi anni del conquistatore sopranominato. Alla qual difficoltà rispondere si potrebbe, che ignorando noi dal principio del secolo VII fino alla cacciata de’Longobardi il sistema politico del governo di Pisa sia credibile che al duca di Lucca fosse affidata la difesa di tutta la costa marittima toscana, e che essendo in Pisa e nel suo porto il principale emporio ed il maggiore arsenale della Toscana, non si potrebbe ragionevolmente insistere a impugnare come non verosimile la congettura, che anche allora la città di Pisa venisse contemplata dai Longobardi come punto centrale delle operazioni governative e militari di quella marca.
    Già all’ Articolo LUCCA (Volume II. pagina 824) io diceva, che se la storia non fu generosa abbastanza per indicarci il tempo preciso della conquista della Toscana fatta dai Longobardi, essa per altro ne
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    ha in qualche modo ricompensato col mostrarci fino dai primi anni del regno di Carlo Magno in Lombardia un duca di Pisa e di Lucca nella persona medesima e al tempo stesso. Tale fu il duca Allone testé rammentato, a carico del quale il Pontefice Adriano più di una volta ebbe a reclamare al suo sovrano, e specialmente in una lettera riportata al numero 65 del codice Carolino, colla quale il Papa informava Carlo Magno di non aver potuto indurre il duca Allone ad armare tante galere da tenere in freno e dar la caccia ai Greci; nel tempo che questi facevano molto danno colle loro navi alle spiagge toscane, imbarcando gli abitanti che abbandonavano un paese afflitto (diceva egli) dalla miseria e dalla carestia.
    E qui cade il destro di richiamare alla memoria una legge del re Rachi scoperta dall’illustre amico mio Carlo Troja nel famoso codice del monastero della Cava presso Salerno, dove si parla delle provincie del regno Longobardo confinanti con gli stati esteri, che fino d’allora designavansi sotto il nome di Marche .
    Dalla qual legge fu stabilito che ai confini delle Marche vi dovessero essere delle guardie, sia perché i nemici non vi potessero inviare spioni ( Scolcas mittere ) sia per arrestare i fuggiaschi; sia per non permettere l’ingresso nel regno ad alcuno senza ordine in scritto, ossia passaporto ( lettera del re ). – Vedere l’Articolo CHIUSA. – (PROGRESSO DELLE SCIENZE Volume I. Fascicolo I . Napoli 1832).
    Conosciuta pertanto l’esistenza delle Marche sotto il regno de’Longobardi, sempre più la lettera del Pontefice Adriano I ne convince che l’autorità del duca Allone, nei primi tempi almeno del regno di Carlo Magno in Italia, non si limitava al solo ducato di Lucca, tosto che Pisa e molta parte delle toscane maremme dipendevano da un solo governatore. Lo che accadeva nel tempo
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    che il re Carlo assegnava un duca minore alle città di Firenze e di Chiusi comprese pur esse nella Toscana de’Longobardi,
    Un’altra lettera (la 55 del codice Carolino) fu diretta da PP. Adriano I a Carlo Magno col mezzo dell’abate Gunfredo cittadino di Pisa; nella quale dopo aver ringraziato quel Magno conquistatore di aver liberato dall’ostaggio e restituiti i beni all’abate predetto, gli notifica l’ostacolo che lo stesso abate incontrava per parte del duca Allone, il quale, anziché restituirgli i presidj confiscati, aveva tesi lacci alla vita di lui nell’occasione di ritornare in Toscana. II quale abate Gunfredo io riconobbi essere uno dei figli dell’abate S. Walfredo nato da Radgauso cittadino pisano, che sino dal 754 fondò nei suoi beni la badia di S. Pietro a Palazzuolo in Maremma. – Vedere gli Articoli ABAZIA DI MONTEVERDI, ASILATTO e BOLGHERI.
    Ma un’altra gloria nel secolo VIII può vantare la città di Pisa, quella di essere stata culla al primo lettorato italiano che conta la storia in quei tempi d’ignoranza; intendo dire di Pietro Diacono, il quale professò le belle lettere in Pavia nel palazzo stesso di Carlo Magno, di cui divenne anche maestro, benché Pietro fosse giunto all’età senile; e lui stesso può anche dirsi il primo professore italiano che Carlo Magno chiamasse a insegnare le belle lettere in Francia; sicché a buon diritto il du Boulay , nella sua Hist. Univ. Parisien., ebbe a confessare che il pisano Pietro Diacono fu meritatamente il primo istitutore delle regie scuole in quel regno.

    3. PISA SOTTO I MARCHESI DI TOSCANA

    Un fatto di qualche entità per la storia politica della Toscana mi sembra quello di trovare sul principio del secolo IX applicato il titolo di conte a quei governatori medesimi, i quali verso la fine del secolo precedente appellavansi duchi ; come anco di riscontrare i soggetti stessi decorati del doppio incarico di
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    conte speciale di una città e di duca di una provincia.
    Per spiegarmi meglio io rammenterò due fatti, sebbene siano stati annunciati all’Articolo LUCCA (Volume II pag. 825).
    Wincheramo, successore di Allone nel ducato della Toscana, o almeno di una sua gran parte, innanzi l’810, stando ai documenti superstiti lucchesi, si qualificava col titolo di duca ; mentre in tre placiti proclamati in Lucca dopo il detto anno Wincheramo si sottoscriveva conte , o, si voglia dire, capo del governo di quella stessa città.
    Un simile esempio trovasi poco dopo rinnovato nel duca Bonifazio I che a Wincheramo successe col titolo di conte di Lucca e di duca della Toscana. In riprova di ciò sarebbe un istrumento dell’aprile 813 scritto in Lucca, nel quale Bonifazio è qualificato dai Lucchesi illustrissimo conte nostro , mentre nel marzo dell’anno precedente egli aveva celebralo un altro giudizio in Pistoja come duca . Esser doveva suo figlio quel conte Bonifazio II, cui nell’828 fu affidata dall’Imperatore Lodovico Pio una onorevole commissione dopo che venne nominalo di lui prefetto e governatore nella Corsica, quando Bonifazio II come duca mandava ordini ai conti delle città della marca di Toscana per recarsi coi loro soldati, mettendosi lui alla testa, contro i pirati affricani. –
    Ed era, io credo, lo stesso Bonifazio II quello che si sottoscriveva col titolo di conte , allorché nell’823 in Lucca prestava il suo consenso alla sorella Richilda figlia del fu conte Bonifazio; la qual donna era stata eletta in badessa di uno di quei monasteri. Viceversa nei placiti e istrumenti scritti in altre città della Toscana i due Bonifazj qui sopra nominati si qualificavano talora solamente duchi , ed altre volte col doppio titolo di duchi e di
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    conti .
    Che l’ingerenze de’ conti equivalessero a quelle di giudice, o governatore di una città e suo contado, forniscono ragioni per crederlo oltre i documenti dal Muratori in prova di ciò riportati, quello di trovare un Aganone conte di Lucca successore immediato del conte Bonifazio II . Il quale Aganone sembra che esercitasse la carica di conte di Lucca (dall’838 all’844) e poscia in Pisa (loc.cit.), e ciò nel tempo stesso che presedeva al governo della Toscana l’illustrissimo duca Adalberto I figlio del duca e conte Bonifazio II.
    Da tutto ciò pertanto ne conseguita che non sempre il personaggio stesso disimpegnava in Toscana il duplice incarico di duca e di conte. Infatti nel dicembre dell’858 troviamo Adalberto I nella corte regia di Lucca presedere come duca di Toscana un giudicato, assistito dalle due principali dignità ecclesiastiche e politiche della città cioè, da Geremia vescovo di Lucca, e dal fratello di lui conte Ildebrando figlio del fu Eribrando. All’incontro pochi anni dopo (anno 865) sotto il duca Adalberto II incontriamo in Lucca un conte Winigi, probabilmente quello stesso personaggio di origine francese che due anni dopo risiedeva in Siena insignito della dignità medesima di conte di quella città e provincia, e che ivi divenne stipite d’illustre e potente consorteria di magnati. – Vedere ABAZIA DELLA BERARDENGA, ASCIANO, ecc.
    Finalmente trovo il duca Adalberto II, che ad imitazione di suo padre, dell’avo e del bisavo si appropria l’una e l’altra dignità, cioè, di conte della città e distretto di Lucca, nel tempo che era decorato della più estesa prerogativa di duca della Toscana. – A quest’ultimo titolo di duca d’allora in poi si dové aggiungere l’altro di marchese , equivalente a governatore civile
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    e politico di qualche marca . ( loc. cit. ) Tale ci si presenta un editto dell’Imperatore Lodovico II dato lì 18 dicembre 871 e pubblicato dal Fiorentini nelle memorie della contessa Matilde, con cui quel sovrano, ad istanza di Gherardo Vescovo di Lucca,che reclamava dei beni tolti alla sua mensa, nominò in giudici a quel placito i vescovi di Pisa, di Pistoja e di Firenze, non che Adalberto illustre conte e marchese , insieme col conte Ildebrando e Ubaldo fedele dell’Imperatore.
    Dondechè dal duca Adalberto II in poi, tutti quelli insigniti della carica di duca si qualificarono indifferentemente marchesi e duchi della Toscana, o dei Toscani . Frattanto non dissimulerò che, per quanto esista più d’un istrumento, in cui il conte di Lucca viene qualificato duca e marchese della stessa città; che, sebbene qualche volta si legga nelle memorie, che Lucca fu capo di tutta la Marca dl Toscana , non mancano altre scritture, nelle quali si dichiara intorno a quell’età anche la città di Pisa capo della provincia di Toscana. – (LIUTPRANDI, Histor. Lib. 21 Cap. 4 ). – Concluderò pertanto col Muratori, che i duchi e marchesi della Toscana, abitando in una piuttosto che in altra delle città sopraindicate, conferivano a quella della più assidua loro residenza il diritto di appellarsi capitale della marca ducale , ossia del marchesato di Toscana.
    Ma per tornare alla storia speciale di Pisa sia da sapere che, nell’anno 926,vi sbarcò venendo dalla Francia meridionale il re Ugo figlio della regina Berta e di Teobaldo re di Provenza; e che, appena si propagò il di lui arrivo, accorsero a Pisa da varie parti dell’Italia magnati, ambasciatori, principi, i quali coi delegati apostolici inviati dal Pontefice Giovanni X, recatisi di là in Pavia proclamarono e incoronarono Ugo in re d’Italia.
    Già da qualche anno questo monarca
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    reggeva la penisola quando al marchesato di Toscana subentrò un figlio spario, il marchese Oberto salico , padre del gran conte Ugo, che fu poi di Oberto stesso successore finché visse (anno 1101) nel marchesato medesimo. Era madre di quel marchese Ugo la contessa Willa nata da un Bonifazio di legge ripuaria forse anch’esso marchese di Toscana. La qual contessa, per istrumento dato in Pisa nel 31 maggio del 978, fondò nei suoi possessi la badia fiorentina, mentre 9 anni innanzi la principessa medesima era in Lucca, dove per contratto del dì 8 luglio, anno 969, fece acquisto da un tale Zanobi della chiesa di S. Stefano situata presso le antiche mura di Firenze, dove poi la contessa Willa fece costruire la chiesa e cenobio della badia preaccennata. Arroge che il governo di Pisa anche in quel tempo era preseduto da un conte, mentre trovavasi in essa città un conte Rodolfo, rammentato in tre carte pisane del 949 e 964 edite nelle Antichità italiane dal Muratori.
    Comecchè dai fatti testé accennati si possa dedurre, che la madre del marchese Ugo abitasse talora in Lucca, tal altre volte in Pisa e in Firenze, nel tempo che il gran conte Ugo suo figlio reggeva la Toscana in qualità di marchese, contuttociò questo principe, il quale figurò dall’870 sino al principio del secolo X alla testa del governo toscano, fece della città di Lucca piuttosto che di Pisa la sua sede principale, sicché in Lucca si coniarono monete d’argento col suo monogramma e titolo di marchese aventi nel rovescio il nome della stessa città. – Vedere LUCCA. Volume II pag. 834 e 835.
    Non dirò se cotesta preferenza accordata dai marchesi di Toscana alla città di Lucca piuttosto che a Pisa, quando quest’ultima continuava a contemplarsi quasi capitale della Toscana, servisse mai a fomentare quelle civili discordie che poi si accesero con tanto danno fra le due popolazioni limitrofe.
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    /> Ma chi concorse a dargli fuoco, donde avesse origine il primo fatto d’armi fra Pisa e Lucca nel 1003 battagliato, donde cotesto fatto, che può riguardarsi come un albore del risorgimento dei municipj italiani nel medio evo, traesse per avventura alimento, ciò sembra ancora da dimostrare. – Che se io non m’ inganno a partito, quella guerra, la quale a confessione del Muratori fu la prima a presentarsi negli annali de’municipj italiani, trasse l’origine, piuttosto che da dissapori cittadineschi, da causa più generale, più elevata. Intendo dire della sollevazione che dopo la morte dell’Imperatore Ottone III ebbe principio nell’Italia superiore, per cui fu eletto un re italiano nella persona di Arduino marchese d’Ivrea, mentre i principi della Germania, dopo avere con l’armi alla mano disputato fra essi innanzi di eleggere in re di Alemagna il duca Arrigo di Baviera, volevano che la corona d’Italia si ponesse in testa di uno di loro nazione.
    Ognuno sa quanto furono lunghe ed atroci le guerre civili che insorsero in Italia per combattere in favore o contro quei due pretendenti allo stesso trono, guerre le quali diedero occasione alle città d’Italia di mettere a prova le loro forze, onde assicurarsi di non aver più bisogno di un principe straniero, giacche niuna legge, nessun patto obbligava gl’Italiani a dipendere da coronati di oltremonti.
    Oltrediciò un privilegio inviato dal re Arduino da Pavia a Lucca nel dì 20 agosto del 1002 per favorire un monastero di quella città, solo fra i diplomi di Arduino che conti la Toscana, fa credere, che i Lucchesi prendessero le difese del re italiano, mentre i Pisani erano per il monarca alemanno. Alla qual congettura danno valore le espressioni di un’antico cronista pisano sotto l’anno 1002 ( stile comune ) . Avvegnachè se, al dire del grande annalista Muratori, non prima del 1004 cominciarono nell’alta Italia le guerre di partito che turbarono il regno di Arduino; tostochè egli per due anni restò pacifico fino
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    a che varie città, principi e vescovi di quella contrada non vacillarono nella fede per gettarsi più o meno apertamente a favorire il re alemanno; non fu però così del popolo lucchese, il quale, al dire di un cronista pisano all’anno 1002 assistito da un esercito sceso di Lombardia si avanzò ostilmente fino a Pappiana nel territorio di Pisa, di dove peraltro dai Pisani l’oste fu respinta fino a Ripafratta. – (BREVIAR. PIS . in Script. R. Italic. T. VI. )
    Un altro cronista pisano riporta il fatto all’anno dopo (1004 stile pisano ) dicendo: Anno 1004 fecerunt bellum Pisani cum Lucensibus in Aqualonga et vicerunt illos.Vedere l’Articolo ACQUALONGA.
    Se è vero pertanto che questa sia la prima azione ostile che ci somministra la storia di una città della penisola che si muove contro la sua vicina, soggiunge il prelodato Annalista: noi cominciamo a scorgere che le popolazioni delle città d’Italia al principio del mille già alzavano la testa e si attribuivano, ovvero si usurpavano il diritto regale di muover guerra.
    Ma la vittoria de’Pisani fu ben presto amareggiata dalla comparsa di altri più fieri nemici, tostochè l’anno dopo dalla parte del mare si presentò un numeroso stuolo di Saraceni che penetrò nella loro città mettendola a sacco e fuoco. È un frammento di cronica pisana, in cui fu registrato all’anno 1005 ( stile pisano ) il fatto con queste semplici parole: fuit capta Pisa, a Saracenis . – Il Tronci ed il Volterrano con altri più moderni scrittori hanno fatto alla breve frase dell’antico annalista pisano un lungo commento accompagnato da qualche contraddizione, dicendo; che Mugeto re de’Saraceni, fattosi già padrone della Sardegna, avendo inteso che i Pisani colla loro armata navale erano passati in Calabria contro i barbareschi, che pure vinsero a Reggio nell’agosto del 1004 (stile comune), profittò dell’occasione in cui la città di Pisa trovavasi sprovveduta
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    di combattenti per dirigersi con grossa armata navale alla foce d’Arno e di là coi suoi Mori correre addosso alla città di Pisa che prese, dandogli il sacco e bruciandone la porzione situata alla sinistra del fiume. La qual porzione di città si suppone che si chiamasse Chinzica , perché una valente donna di tal nome della famiglia Sismondi, vedendo il pericolo della patria, corse di là al palazzo del comune, e fatto dar nella campana a martello, i Saraceni spaventati da tanto allarme e frastuono fuggissero dalla città tornando sui bastimenti carichi di preda. Soggiungono di più, che liberata Pisa per tale effetto, il Comune decretasse l’erezione di una statua alla matrona benemerita, e che fosse indicata col nome di Chinzica la parte abbruciata della città. – Il Muratori per altro su tal proposito fece osservare altro essere la sconfitta a Reggio di Calabria de’Saraceni, altro l’essersi Mugeto impadronito di Pisa, sebbene di ciò non resti vestigio che dia qualche appoggio maggiore a cotesti fatti. – Ecco come per un mal inteso zelo di patria si alterano i fatti delle storie municipali.
    Frattanto non è da tralasciare l’avviso che nelle carte pisane dei primi anni del regno di Arrigo I fino al 1014 mancano le indicazioni relative al re d’Italia, cioè, fino a che questo sovrano non ricevé dal Pontefice Benedetto VIII la corona imperiale. Infatti nel suo ritorno da Roma Arrigo I emanò presso Pisa tre diplomi, due dei quali dati nella villa di Fagiano, uno in favore del vescovo e capitolo di Volterra e l’altro della badessa e monastero di S. Salvatore di Lucca, segnati con le note cronologiche seguenti: Datum anno dominicae Incarnationis MXV ( stile pisano ) Indict. XII, anno Domini Henrici Imperatoris Augusti regnorum XII, imperii ejus I. Actum in Comitatu pisano in villa, quae dicitur Fasiano . Il terzo diploma in favore dell’abate e monaci Cistercensi della badia
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    a Settimo presso Firenze ha le nostre medesime con la data però di altra villa suburbana di Pisa. Actum Papiano . – Vedere l’Articolo PAPPIANA nella Valle del Serchio.
    Cotesti privilegj imperiali, mancando del giorno e del mese, non danno a conoscere quando e quanto tempo a un dipresso l’Imperatore Arrigo I soggiornasse in Pisa o nei suoi suburbj, benché sia da credere che ciò accadesse fra il 26 marzo, giorno in cui lo troviamo in Roma, e la Pasqua di Resurrezione dell’anno stesso 1014 dall’Imperatore Arrigo celebrata in Pavia. – (MURAT . Annal. all’anno 1014 ).
    A quel tempo peraltro la Toscana era governata in nome di Arrigo I da un marchese Ranieri, il quale succedere dovette ad un Marchese Bonifazio figlio che fu di un conte Alberto di legge ripuaria ; e ciò nel tempo stesso in cui varie città della Toscana erano presedute da un conte. In prova di ciò può vedersi nelle Antichità italiane un placito a favore della badia aretina con la data dell’anno 1016, mese di ottobre, indizione XIV, anno terzo dell’impero di Arrigo, che principia: Dum Raginerius marchio et dux Tuscanus placitum celebraret in civitate Aretina cum Hugone comite ipsius comitatus . Che questo marchese Ranieri figlio di un Conte Guido fosse l’autore più remoto dell’illustre famiglia de’marchesi del Monte S. Maria, lo dimostrai all’Articolo MONTE S. MARIA, e a quello di LUCCA, dove lo incontrammo fra il 1026 e il 1027 per far fronte alle armi dell’Imperatore Corrado I. – Dopo quest’ultima epoca quel toparca, o mancò di vita, o piuttosto cadde in disgrazia di quell’Imperatore, tostochè nell’anno 1028 era alla testa del governo di Toscana il marchese Bonifazio di origine o legge longobarda quello stesso Bonifazio che fu padre della gran contessa Matilda natagli dalla seconda moglie, la contessa e marchesa Beatrice.
    In questo mezzo tempo i Pisani uniti ai Genovesi fecero le prime imprese della Sardegna
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    (anno 1016) dove vinsero Mugeto re de’Saraceni, il quale due anni innanzi con gran stuolo di navi aveva sbarcato molti Mori nella spiaggia di Luni, devastando affatto la già cadente città e depredando tutto il suo vicinato – Le cronache pisane riportano sotto l’anno 1016 la spedizione dei Pisani e dei Genovesi in Sardegna, ma da quel che segue si conosce essere ciò accaduto nell’anno dopo; giacché nel 1017 (stile pisano) il Pontefice Benedetto VIII spedì a Pisa il cardinal decano vescovo d’Ostia per animare quel popolo a cacciar di Sardegna il re Mugeto, siccome fu l’anno appresso con felice successo eseguito, allorquando quel capo corsaro con i suoi fu costretto a tornare in Affrica dai Pisani e Genovesi che s’ impadronirono, se non di tutta, almeno della parte più littoranea di detta isola. – Ma non tardò fra i due popoli alleati a insorgere discordia tale che fu la prima foriera di ripetute guerre terribilmente accanite. Che sebbene i Genovesi facessero ogni sforzo per scacciar dalla Sardegna i loro rivali, ciò non ostante i Pisani alla fin fine restarono padroni dell’isola.
    Tale fu il principio luminoso che ebbe la potenza pisana nel medio evo, tuttoché la Toscana continuasse ad esser soggetta ai marchesi. – Né mancò a celebrare cotesto avvenimento la tromba epica di un poeta pisano, Tolomeo Nozzolini, che cantò la sua Sardigna recuperata in ottava rima per farne 18 canti, che videro la luce nel 1632 in Firenze a dispetto di Apollo e delle Muse. – Non andò guari però che Mugeto coi suoi Saraceni tornò più forte dall’Affrica nella Sardegna, (anni 1020 e 21) per ritogliere ai Pisani le sue perdute possessioni. Allora questi ultimi si associarono di nuovo ai Genovesi per vendicare in comune le crudeltà novelle del feroce barbaresco. Fu felice al pari della prima la seconda spedizione dei due popoli italiani, perché malgrado l’ardore e la rabbia di que’Mori prevalse il coraggio de’collegati, i quali
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    costrinsero il re corsaro a cercare un’altra volta lo scampo nella fuga. II ricco tesoro di Mugeto caduto nelle mani de’vincitori fu ceduto ai Genovesi in ricompensa delle spese e fatiche da essi sofferte; giacché, al dire dei cronisti pisani, il Comune di Genova non avrebbe allora acquistato alcun diritto sulla Sardegna, mentre gli annalisti di questa repubblica asserivano il contrario. – (BREVIAR., PISAN. in Script. R. Ital. T. VI . – MANNO, Storia della Sardegna T. II. – MURAT. Annal. ad ann. 1021.)
    Fu allora, soggiunge il Tronci ne’suoi annali, che i Pisani, avendo fortificata la città di Cagliari e gli altri luoghi più importanti dell’isola, divisero il governo di Sardegna nei quattro giudicati, o reami, di Cagliari , cioè, di Torres , di Gallura e di Arborea , o per dir meglio col Muratori e col Manno, essi vi serbarono la maniera stessa di regime che aveva già da molto tempo la Sardegna, obbligando solamente i giudici delle quattro provincie di sopra nominate a riconoscere l’alto dominio dei conquistatori. – Che anzi da un fatto intorno all’anno 1065 narrato da Leone Ostiense ( Cronic. Lib. VII. cap. 15 ) si scorge, che i Pisani miravano con qualche malumore i Sardi sudditi di Barisone d’Arborea, uno de’giudici o regoli di quell’isola, in guisa chè (soggiunge Muratori) si può sospettare che molto più tardi la potenza pisana fissasse il piede nella Sardegna.
    Infatti la storia delle invasioni di Mugeto e delle conquiste di detta isola, a confessione del diligentissimo Cavaliere Manno, trovasi involta in gravi dubbiezze; e quasichè non bastasse ai Pisani di aver cacciato dalla Sardegna il feroce Mugeto, si aggiunge, come essi con numeroso naviglio lo andassero a rintuzzare fino nel suo nido nativo sulle coste d’Affrica; e che allora (anno 1034) una flotta pisana dopo essersi impadronita della città di Bona, fece dono all’imperatore della corona tolta
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    al regolo affricano.
    Al qual fatto glorioso riferisce una iscrizione in marmo esistente nella facciata del duomo di Pisa sotto quella che rammenta la conquista, non saprei dire se prima o seconda, dell’isola di Sardegna, pubblicata nelle due edizioni della Pisa illustrata dal Morrona, il quale assegnò l’anno MXXXIIII all’iscrizione superiore. Fondato su di ciò anche l’annalista Tronci lasciò scritto, che i Pisani, dopo avere ricevuto il vessillo di S. Pietro dal delegato della S. Sede, corsero e invasero tutta la Sardegna, di dove lo stesso Mugello fuggì prima che vi sbarcassero i suoi nemici; lo che secondo quell’annalista sarebbe accaduto nel 1033 dell’Era cristiana (stile comune).
    Il Muratori ed il Manno hanno qualche ragione da dubitare della verità di quest’ultimo fatto, o almeno dell’epoca, e più che altro delle circostanze, le quali furono dagli storici genovesi diversamente raccontate, tostochè dissero il re Mugeto fatto prigioniero nel conflitto accaduto in Sardegna, e che i Genovesi, ai quali era stato dai Pisani consegnato, fecer’ omaggio di lui come del miglior trofeo della vittoria, e non della sua corona all’Imperatore. – (FOLIET. Genuens. histor. Lib. I. ). Chi potrà infine conciliare tutto ciò con altro frammento di cronica riportato nelle note alla vita di Papa Gelasio, nel quale leggesi: che i Pisani, divenuti padroni della Sardegna, ritornarono in patria conducendo dietro al trionfo lo stesso re Mugeto, il quale gia nonagenario ebbe poco stante a morire prigioniero nella città di Pisa ? – (MURAT. Script. R. Ital. T. III. P. I. )
    Pertanto tutti cotesti armamenti, cotante imprese gloriose al popolo pisano si faceva sotto gli occhi del marchese Bonifazio, che a nome dei re d’Italia allora presedeva al governo della Toscana. – Ne qui terminarono le gesta marittime del popolo di Pisa, poiché, se nell’anno 1058 i Toscani sotto il comando del Marchese Goffredo di Lorena (il secondo marito della contessa Beatrice) combatterono in favore della S. Sede contro Riccardo
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    principe di Capua nella speranza di cacciarlo dalla Terra di Lavoro; se un nuovo esercito guidato dal marchese predetto fu di là respinto dai nemici insieme col suo duce; se quattr’anni dopo lo stesso duca Goffredo conduceva a Roma dalla Toscana un corpo di truppe a difesa del legittimo pontefice Alessandro II contro l’antipapa Cadalao; se cotesto duca nel 1066 vi tornò con tante forze toscane per abbattere l’insolenza del conte Riccardo e de’ suoi Normanni al punto che questi ultimi dovettero ripararsi dentro la città d’Aquino e abbandonare al nemico tutta la Campania romana; se, io diceva, in tutte azioni militari comandate da un marchese di Toscana i Pisani, benché non siano nominati, dovettero far parte com’ è credibile dell’esercito marchionale, bisogna ben credere che la città di Pisa fosse in uno stato prosperoso tostochè il suo governo armava nel tempo stesso (anno 1062) numeroso naviglio per spedirlo nel mare di Sicilia in soccorso ai fratelli Roberto e Ruggieri conti di Normandia?
    E poiché allora il C. Ruggieri non poté così presto assediare per terra i Saraceni in Palermo, la flotta pisana a vele gonfie andò ad urtare nella catena che serrava quel porto, e rottala, entrò francamente dentro dove s’impadronì di sei navi cariche di varii oggetti, cinque delle quali si crede date alle fiamme, menando a Pisa la più copiosa di tesori; sicché poi con quelle ricchezze fu dato principio (anno 1063) alla magnifica fabbrica della Primaziale. – Anche di cotesta gloriosa impresa leggesi tuttora ricordo scolpito in marmo nella facciata della stessa cattedrale pisana – (MURAT., Annal. ad ann . 1063. – MORRONA, Op.cit. ecc.)
    Aggiungasi che in quegli anni medesimi abitavano nella stessa città conti e visconti , i quali diedero il casato all’illustre antichissima prosapia de’ Conti di Donoratico e della Gherardesca, non meno che alta celebre famiglia dare Visconti. Tali furono quei figli del conte Teudice autore
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    di numerosa figliuolanza, quel visconte Sigherio padre d’Ildebrando, di Pietro e di altro Sigherio, quel Gherardo figlio di Ugo di Gherardo Visconti, soggetti che figurarono in Pisa nel secolo XI, e più ancora i discendenti loro ne’tempi successivi.
    Mancato di vita nel 1069 Goffredo marchese di Toscana, la contessa Beatrice vedova di lui continuò a governare, prima sola, poi con la figlia Matilda e col di lei marito Goffredo il Gobbo nato al Marchese Goffredo di Lorena dalla prima moglie. Infatti troviamo la stessa Beatrice nel 17 gennajo dell’anno 1073 insieme col duca e marchese Goffredo suo genero risedere in Pisa nel palazzo regio, dove i personaggi medesimi, assistiti da Ugo Visconti, da Guido vescovo di Pisa e da altri vescovi e magnati della Toscana, pronunziarono un placito in favore del monastero di S. Ponziano di Lucca.
    Dal lodo qui sopra accennato si comprende bene che il giovine Goffredo dopo maritato alla gran contessa era stato ammesso al governo della Toscana, finché nel mese di febbrajo dell’anno 1076 il gobbo marito fu visto perire di morte violenta senza lasciar figliuoli, probabilmente con poco dispiacere della suocera, della moglie e di Papa Gregorio VII, sul riflesso che quel duca era troppo partigiano di Arrigo IV. Ma due mesi dopo la contessa Matilda si trovò orbata anche della sua madre, donna di animo virile e di gran prudenza. – La qual principessa essendo morta in Pisa, fu onorevolmente sepolta in nobilissimo sarcofago di greco scalpello. Né si deve tacere l’improperio scagliato da Donizone ai Pisani, perché un cotanto illustre matrona anzi che nella sua rocca baronale di Canossa nella città di Pisa fosse stata tumulata. Contuttociò quella monacale diatriba giova alla storia a meglio conoscere quanto allora Pisa fosse mercantile e da quali e quante genti di religioni e contrade diverse frequentata.
    Per modo che bisogna credere che nel secolo XI esistesse in cotesta città un ricco emporio con porto franco aperto anco agli infedeli del
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    più lontano oriente; cosa che parve a Donizone un’indegnità dicendo:

    Qui pergit Pisas videt illic monstra marina,
    Haecurbs Paganis, Turchis, Libycis quoque Parthis
    Sordida, Chaldaei sua lastrant littora tetri.

    Prosperando di tal maniera in Pisa la mercatura, fia molto facile a concepirsi il perché quel popolo, non solo rapporto al commercio ed alla sua marina, quanto rispetto alla costruzione di pubblici grandiosi monumenti innalzati nella sua patria, precedesse gli altri popoli e città della Toscana e della maggior parte dell’Italia.
    II sarcofago della contessa Beatrice dalla muraglia laterale del duomo nel 1810 fu trasportato nel vicino magnifico camposanto, e nel dì 8 febbrajo si apri l’urna alla presenza del Maire, dell’operajo, del pittore Carlo Lasinio, del Prof. Sebastiano Ciampi, di due altri antiquarii e del notaro che descrisse i pochi avanzi ivi rimasti. Alla qual funzione per caso si trovò presente fra gli estranei il compilatore di questo Dizionario. – (MORRONA , Pisa illustrata , Edizione II. Volume II. – GRASSI , Descrizione Storica e Artistica di Pisa , Parte Artistica, Sezione I.)
    Rimasta sola al governo di Pisa, di Lucca e di tutta quanta la Toscana, la gran contessa Matilda, essa diede presto a conoscere il suo valore nelle dispute religiose e nelle difficili questioni politiche, nelle quali trovavasi involta in quell’età anco l’Italia, a partire massimamente dall’anzidetto anno 1076, alloraquando il Pontefice Gregorio VII ebbe a fulminare dal Laterano scomuniche terribili contro l’Imperatore Arrigo IV ed i numerosi suoi partigiani, ecclesiastici e secolari.
    Non starò qui a ripetere, come cosa troppo vieta e non affatto al nostro proposito, il viaggio della contessa Matilda a Roma, la compagnia che nel 1077 fece al Pontefice prima in Piemonte, poi nel contado di Reggio per onorarlo nella inespugnabile sua roccia di Canossa, dove seguì con Arrigo IV quella scena che fece allora e che farà grande strepito nei secoli avvenire. Spetta bensì alla storia parziale e contemporanea
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    di Pisa un altro fatto relativo al suo commercio, e tale da provare che, se Venezia a quell’età era l’emporio dell’oriente, Pisa figurava fra le prime città dell’Italia occidentale. Imperocchè a quella stessa epoca i Pisani avevano già adottato alcune regole commerciali per decidere le controversie marittime, le quali furono approvate nel 1075 dal Pontefice Gregorio VII, e confermate sei anni dopo dall’Imperatore Arrigo IV, all’occasione che questo monarca nel 1081 in Pisa stessa sottoscrisse un trattato fra l’Impero e quella Comunità. Col quale atto pubblico, oltre varie esenzioni a favore della città di Pisa e suo contado, Arrigo IV prometteva, ET CONSUETUDINES, quas ( Pisani ) habent in mari, sic eis observabimus, sicut illorum EST CONSUETUDO .... Legem non faciemus de Pisanis hominibus, nisi de suprascriptis locis ( de alia civitate, castello, villa, vel de alio signoratico ) vel EORUM SENIORES, qui offensio nem fecerint; legem faciant prius Pisanis hominibus. Fodrum de castellis PISANI COMITATUS non tollemus, nisi quomo lo fuit consuetudo tempore Ugonis Marchionis.... Nec Marchionem aliquern in Tuscia mittemus SINE LAUDATIONE HOMINUM DUODECIM ELECTORUM in colloquio facto sonantibus campanis, etc.
    Il Muratori, che fu il secondo dopo l’Ughelli a pubblicare questo documento, vi riconobbe, egualmente che in un altro diploma di Arrigo III del 1055, il seme della rinascente libertà delle città italiane; e forse fu il primo a dedurre con giusta critica la conseguenza importantissima, che fin dal tempo che regnava in Italia Arrigo III i diritti e prerogative di conte potessero trasferirsi nel corpo decurionale delle città italiane, lasciando quasi intatti quelli del marchese. – È altresì vero che nel diploma di Arrigo IV a favore del Comune pisano, non solo manca qualsiasi menzione del conte di Pisa, ma nettampoco vi si rammenta la contessa Matilda marchesa di Toscana, perché ribelle ad Arrigo stesso, siccome non è rammentata la contessa Beatrice di lei madre, né il padre suo Marchese Bonifazio, né
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    qualche altro marchese loro antecessore. Vi si parla per altro dei tributi che il Comunità di Pisa soleva pagare agli Imperatori come sovrani d’Italia al tempo del Marchese Ugo , il quale, como ho detto, governò la Toscana negli ultimi 30 anni del secolo X, e nel primo anno del secolo susseguente. Ma quello che più importa e il sentire in quell’atto la promessa di Cesare di non nominare né d’inviare d’allora in poi alcun marchese in Toscana senza l’approvazione dei dodici eletti (i 12 consoli , o 12 anziani ) di Pisa chiamati nel consiglio del popolo a suono di campana.
    In conclusione il diploma di Arrigo IV del 1081, oltre a confermarci il fatto solennissimo che la città di Pisa fin d’allora aveva un regolamento col titolo di Consuetudini di Mare , ci scuopre anco che il suo magistrato civico si eleggeva dal popolo in pubblico consiglio e che si componeva di 12 buonuomini conosciuti allora col nome di Consoli poscia di Anziani, vale a dire, tre per ogni quartiere della città.
    Sebbene nel privilegio suddetto manchi la data del giorno e del mese, non sarà difficile a rintracciarsi qualora si considera che Arrigo IV era in Lucca nel 25 luglio del 1081 dove accordava un privilegio di produzione a quella città stato indicato dal Fiorentini, ed il cui originale ivi conservavasi nel Monastero di S. Giustina. Del qual diploma innanzi tutti aveva fatto commemorazione Tolomeo ne’suoi annali lucchesi, mentre un altro diploma dato alla luce nelle antichità italiane ( Diss. 31) dimostra, che l’Imperatore Arrigo IV era in Lucca fino dal giorno 19 luglio di quel medesimo anno.
    E siccome dalle memorie della contessa Matilda del Fiorentini costa che lo stesso Arrigo trovavasi all’ assedio di Roma anche nel dì 23 giugno dell’anno 1081, è facile concludere, che il documento pisano di sopra rammentato dové sottoscriversi tra la
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    fine di giugno e il 18 luglio. In una parola da quel privilegio imperiale apparisce, come in un’età, in cui si mancava affatto di leggi che servissero di norma al commercio marittimo, i Pisani avevano usi e consuetudini tali da assicurare ai mercanti la giustizia nelle liti relative agli intricati interessi di mare. – Le quali leggi e consuetudini, a giudizio di molti scrittori, servirono posteriormente di norma a varie altre potenze e città libere che a similitudine di Pisa col nome di Consolato di mare le ordinarono.
    Contuttociò la baldanza dei pirati affricani non cessava d’infestare le coste dell’Italia, sicché sapendo quanta fosse la bravura e potenza nelle cose marittime dei Pisani e dei Genovesi il Pontefice Vittore III riescì a rappacificare gli animi loro in guisa che essi, avendo armato un poderoso naviglio, lo diressero nelle coste dell’Affrica. L’impresa fu eseguita nel 1088, cioè un anno dopo la morte del pontefice che l’ aveva promossa, quando le flotte cristiane investirono la città di Tunisi che con sommo coraggio venne espugnata da quei crociati, i quali estesero la loro escursione sopra altri luoghi di quel littorale.
    Nella quale impresa, a detta degli antichi annalisti pisani, restò ucciso Ugo figlio di Uguccione Visconti di Pisa, comecchè i vincitori tornassero in patria con ricchissima preda.
    Goffredo Malaterra nella sua cronica, parlando de’mercatanti pisani che in Affrica ebbero a soffrire molte ingiurie, aggiunge, come per vendicare l’onore nazionale un esercito veleggiasse da Pisa ad espugnare la città di Tunisi, di cui s’ impadronì, meno la torre maggiore dove quel re si ritirò. Dice anco di più, che i Pisani, non avendo forze sufficienti a ritener Tunisi, esibirono a Ruggieri conte di Sicilia il possesso di quella città, ma che il conte trovandosi in pace col Tunisino non volesse accettarla. Però cotesto regolo affricano venne a patti obbligandosi di pagare ai Pisani una grossa somma di denaro, e di cessare dal correre
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    colle sue navi sopra le isole e nelle coste d’Italia, oltre al dovere rilasciare liberi tutti i Cristiani che riteneva in schiavitù. – (MURAT. Annal. ad ann. 1088 .)
    Era in quel tempo vescovo della chiesa pisana quel Daiberto nato dall’illustre stirpe de’Lanfranchi de’Rossi di Pisa, il quale potrebbe chiamarsi un genio del suo secolo. Egli nell’anno 1088 successe nella cattedra pisana a Gerardo, cui si deve la fondazione del distrutto Monastero di S. Rossore, edificato nel 1084 pei Benedettini nei beni della chiesa maggiore di Pisa posti nella Selva marittima o del Tombolo , detta oggi di S. Rossore , il qual monastero in detta epoca era vicino alla foce d’Arno. – Vedere appresso, COMUNITA’ DI PISA.
    Fu Daiberto il primo che accrebbe nuove glorie alla sua patria; sia allora quando dal pontefice Urbano II con bolla del 39 maggio 1091 fu dichiarato Primate dell’isola di Corsica; sia allorché con altra bolla del 20 aprile 1092 la chiesa pisana venne innalzata all’onore di metropolitana; sia quando Daiberto mediante indulgenze e preci spirituali (5 ott. 1094) incoraggiava i manifattori pisani, i quali prestavano la loro opera gratuita nella fabbrica del grandioso duomo di Pisa 31 anni prima incominciato; sia allorché nel dicembre dell’anno 1094 quel prelato con la contessa Matilda accolse in Pisa il Pontefice Urbano II mentre passava in Lombardia; sia finalmente allorché lo stesso Daiberto invitava i suoi concittadini ad unirsi armati alla seconda crociata, della quale fu campione quel Goffredo che dié argomento all’epica tromba del Tasso; sicché i Pisani, dopo preparate 120 navi, dopo avere al principio dell’anno 1099 eletto il loro arcivescovo in duce di quella santa impresa, salparono dalle sponde dell’Arno verso la Palestina.
    Fra i documenti relativi alle spedizioni fatte dai Pisani in Terra Santa esiste nelle antichità italiane una lettera al Pontefice Pasquale II diretta nel 1100 da Daiberto arcivescovo di Pisa delegato della
    S. Sede in
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    oriente, scritta da esso lui in nome ancora, del duce Goffredo, del conte Raimondo di S. Egidio e di tutto l’esercito di quella crociata. Essa consiste in una relazione sulla conquista di Gerusalemme e sopra altre vittorie dai Cristiani contro gl’infedeli riportate. In conseguenza di ciò papa Pasquale nell’anno medesimo inviava una epistola ai Consoli di Pisa per ringraziarli dell’ajuto da questo popolo generoso fornito nella conquista di Gerusalemme, della qual città Daiberto era stato eletto di corto in patriarca.
    Reduci quindi dall’oriente i Pisani con le più insigni suppellettili del loro trofeo portavano in patria alcune reliquie di corpi santi dall’Arcivescovo Daiberto e dall’invitto duce Buglione state loro donate.
    Il Fanucci nella storia dei tre celebri popoli marittimi dell’Italia ha dato minuta contezza delle imprese in quell’occasione fatte nel levante dai Pisani e dai Genovesi, caldi sostenitori del nuovo regno di Gerusalemme e del principato di Antiochia. Anco il Dal Borgo ristampò nei suoi diplomi pisani due atti scritti nell’anno 1108, coi quali Tancredi, allora principe d’Antiochia, promise, e quindi concesse, ai Pisani diversi privilegj con stabilimenti in Antiochia e in Laodicea per il soccorso dai medesimi ricevuto nella conquista di quest’ultima città. Fra i quali privilegj citerò quello del 10 maggio dell’anno 1154, col quale Rinaldo e Costanza figlia giuniore di Boemondo principe di Antiochia, stando nel loro palazzo di Antiochia confermarono all’arcivescovo, ai consoli, ai senatori, ed al Comune di Pisa, non cha al loro console nella città di Antiochia, ed ai mercanti pisani stabiliti in Laodicea un vasto spazio di terreno, e la metà di tutti i diritti che erano soliti percepirsi dal sovrano nel principato predetto, tanto in terraferma come in mare.
    Che simili privilegj fossero stati concessi ai Pisani dai primi re di Gerusalemme si deduce da un trattato di pace fatto in Accon (S. Giovanni d’Acri) lì a novembre 1156 fra i Pisani e Balduino IV re di Gerusalemme, pubblicato dal Tronci, dal Muratori e dal Cavaliere
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    Dal Borgo, alloraquando quel re donava ai Pisani nella città e porto di Tiro il Viscontado , per erigervi tribunale e curia propria onde giudicare i suoi nazionali; meno che il re Balduino si riservava il giudizio nelle cause che portassero pena di morte. Inoltre concedeva uno spazio di terra presso Tiro, e in Tiro stesso un fondaco a forma del privilegio altra volta ai Pisani per il porto medesimo da Baldovino suo avo accordato. In fine lo stesso re Baldovino prometteva intromettersi mediatore fra i Pisani ed il suo fratello Almerico conte di Assalona.
    Infatti con questo conte poco dopo, mediante istrumento pubblico sotto dì 2 giugno dell’anno 1157 rogato in Assalona, fu conclusa pace colla quale il conte Almerico, volendo aderire al re Balduino di lui fratello, concedeva in dono al popolo pisano, rappresentato da Villano suo arcivescovo e dai consoli di Pisa, la metà de’diritti d’introduzione, d’estrazione e vendita dei generi che i mercanti pisani avrebbero introdotto o estratto, tanto dalla parte di terra come da quella di mare dal porto d’Joppe. Inoltre donava loro una piazza in Joppe per fabbricarvi case intorno e stabilirvi un fondaco, oltre uno spazio di terreno per costruirvi una chiesa previo il consenso del patriarca.
    Qualche anno dopo il conte Almerico essendo succeduto al fratello Baldovino nel trono di Gerusalemme, con istrumento rogato nella città di Accon lì 15 marzo del 1165 donava ai Pisani uno spazio libero di terra posto fra la città e il porto di Tiro da possederlo perpetuamente a comodo del loro commercio. Per le quali libertà il re di Gerusalemme confessava di avere ricevuto dall’Arcivescovo di Pisa per mezzo del suo siniscalco il prezzo di 400 bisanzi di oro.
    Anche tre anni dopo il medesimo re Almerico V, con privilegio dato in Accon lì 18 maggio 1168, confermò ai Pisani la curia propria, ossia il consolato nel porto di Accon con il fondaco per i servigj a lui
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    resi nell’assedio di Alessandria. I quali due ultimi privilegj furono anco confermati, nel 1182, dal re Balduino VI, nel 1187, da Raimondo conte di Tiro, nel 1189, da Guido VIII re di Gerusalemme, e, nel 1188 e 1191, da Corrado marchese di Monferrato e dalla sua consorte Isabella figlia del fu Almerico V re di Gerusalemme. Giova pure avvertire qualmente uno di quei documenti (del 1189) spiega il significato di Viscontado , ivi equivalente al consolato di mare. Et concedimus eis ( Pisanis ) Vicecomitatum, sive Consulatum pro regenda curia et eorum honore in Tyro.
    Aggiungasi che sino del 1169, con privilegio dato in Accon lì 16 settembre, il re Almerico V aveva accordato ai Pisani commercio libero per l’Egitto a lui soggetto, ed una curia nella città del gran Cairo ( Babilonia ) con casa, fondaco, mulino, bagno e molte altre prerogative favorevoli alla loro mercatura.
    Frattanto da tutti cotesti privilegi dei principi cristiani nel levante, e da altri dei giudici della Sardegna editi nelle antichità dell’annalista italiano, si rileva che quei sovrani trattavano direttamente col Comune di Pisa senza fare la benché minima menzione dei marchesi o marchesane che allora presedevano la Toscana nell’alta pulizia, nell’amministrazione dei beni della corona, nei giudizj, o placiti di ultimo appello, e in quelli relativi al regio diritto, nel tempo che le cause d’interesse civile erano decise non più dai conti, né dai marchesi, ma dai consoli delle respettive città, terre e castella, sopra le quali l’ influenza governativa degli ufiziali dell’Impero qui sopra nominati andava ogni dì più indebolendo a segno che terminò poi per annullarsi.
    Rammenterei su questo proposito la copia di una sentenza de’consoli pisani nelle antichità italiane a favore di Pietro vescovo di Pisa del dì primo gennajo dell’anno 1112, data presso il foro della stessa città nella Curia appellata del Marchese .
    Da questo e da altri consimili giudicati
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    (uno de’ quali sotto il dì 2 dicembre 1136) mi sembra di vedere, che i vescovi quando erano attori in causa propria si separavano dal magistrato deliberante, del quale altronde facevano parte, ed anzi lo presedevano in tutti gli altri casi di azioni civili e governative. Infatti il trattato del 10 maggio 1154 dato in Antiochia, e di sopra rammentato, fu stipulato fra i due coniugi principi di Antiochia da una parte, e varj delegati del Comune di Pisa dall’altra parte. II qual Comune era rappresentato, prima dall’arcivescovo, poi dai consoli, quindi dai senatori, finalmente da tutto il popolo pisano. Anche molto tempo innanzi, sino da quando cioè governava in Toscana la contessa Matilda, il Comune pisano senza il di lei consenso era rappresentato dall’arcivescovo e dai suoi consoli, nel tempo che abitavano in Pisa i conti ed i visconti , molti individui dei quali fino d’allora venivano eletti in consoli, o in giudici maggiori, ma più spesso, esercitando il protettorato della chiesa pisana, assistevano con gli arcivescovi e con i consoli nelle cause o altri contratti spettanti all’interesse dell’opera della primaziale. Nella collezione muratoriana, per tacere di tante altre pergamene dell’archivio arcivescovile di Pisa, esistono molti documenti atti a dimostrare che gli arcivescovi pisani alla detta epoca si riguardavano quali capi civili ed ecclesiastici della comunità e diocesi, siccome non mancano in quella raccolta molti fatti proprj a dimostrare la cosa medesima rispetto ai Comuni di Firenze, di Lucca, di Siena e di altre città.

    4. PISA DURANTE LA SUA REPUBBLICA

    Quantunque sia difficile di contrassegnare l’anello di connessione fra il governo imperiale retto in Toscana dai marchesi e quello delle città costituite con regolamenti proprii in comune, o voglia dirsi in repubblica, nondimeno, considerando bene cotesto periodo d’istoria patria, sembra di trovare maggiormente vero quanto fu scritto all’Articolo FIRENZE, ( Volume II. pagine 152 e 53 ), voglio dire, che le maggiori prove stanno a favorire il
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    seguente fatto, che lo stabilimento cioè del Comune di Pisa come anche di altre città della Toscana tragga, se non l’origine, il maggiore suo sviluppo dalle contese suscitate dopo l’anno 1070 fra l’Imperatore Arrigo IV ed il Pontefice Gregorio VII, mentre il secolo che immediatamente successe può dirsi a buon diritto per Pisa il secolo delle sue glorie.
    Se i fatti relativamente alle conquiste marittime di sopra accennati, se gli usi o le consuetudini commerciali a favore dei Pisani da Arrigo IV nel 1081 approvate; se l’assedio nel 1078 dallo stesso monarca intorno a Firenze intrapreso per essere stato quel popolo partitante della corte romana; se le elargità dallo stesso Cesare ai Lucchesi accordate dopo che questi mostraronsi favorevoli alla sua causa contro la marchesana di Toscana, se queste e molte altre prove di simil conio lasciassero ancora dubitare dello stabilimento fino dal secolo XI nelle città della Toscana di un governo municipale, a meglio dimostrarlo citerei quello della guerra dopo cent’anni tra i Pisani e i Lucchesi riaccesa nel luogo istesso dove nel 1003 erano accadute fra quei due popoli le prime ostilità, e dove per ben sei anni, dal 1104 al 1110, continuarono a battagliarsi, finché per la mediazione dell’Imperatore Arrigo V, resa più valida da un esercito che lo accompagnava, poté ristabilirsi la pace fra quelle popolazioni dopo che l’oste pisana ebbe ritolto ai Lucchesi il poggio ed il questionato castel di Ripafratta, e dopo che i feudatarj del Cast. medesimo davanti all’arcivescovo, ai consoli e agli operaj della primaziale di Pisa ebbero giurato (anno 1109) di riconoscere dall’opera di detta chiesa il dominio diretto del controverso castello, suo poggio e territorio.
    Avvertasi che cotesto secondo fatto di armi combattuto a cagione di Ripafratta precedé di qualche anno le prime scintille di guerra portate dai Fiorentini contro i castelli dei baroni del loro contado.
    Ma l’impresa più gloriosa fu per i Pisani quella della guerra felicemente nel 1114 incominciata, e nel 1116
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    compita contro i Mori padroni delle isole Baleari.
    Risoluti di estirpare dalle tre isole spagnuole (d’ Ivica , di Majorca e di Minorca ) quel sciame feroce e famelico di Saraceni che con le sue abituali piraterie portava l’allarme e la desolazione sulle coste italiane, i Pisani prepararono un copioso e ben fornito armamento marittimo composto, dicesi, di 300 barche equipaggiato di numerose falangi, di armi, di macchine da guerra e di vettovaglie; sicché ottenuta dal Pontefice Pasquale II l’approvazione, e messo alla testa del naviglio il loro arcivescovo Pietro Moriconi, mossero le vele dalla foce dell’Arno verso le Baleari. Sbarcati in una delle tre isole (di Evizza, o d’Ivica) riuscì ai Pisani nell’anno 1114 di conquistare la stessa città omonima atterrandone le mura e la rocca, e conducendo prigione quel comandante. Di là l’armata vincitrice andò a sbarcare nell’isola di Majorca, la di cui capitale fu presa dopo aver sostenuto con lunghe fatiche e combattimenti circa un anno l’assedio con la strage di molte migliaja di Mori. Quindi per togliere di là quel nido di corsari, al dire di alcuni annalisti pisani, la città stessa fu distrutta, aggiungendo che anche l’isola di Minorca dové subire la stessa sorte. – Cotesta guerra venne diffusamente narrata in un poema epico da Lorenzo Vernense , o Vornense , (non so se di Vorno presso Lucca) che accompagnò all’impresa l’arcivescovo pisano in qualità di diacono. – Provvisti pertanto i vincitori di copioso bottino, dopo aver resa la libertà ad un gran numero di Cristiani ivi tenuti oppressi da durezze inaudibili, i Pisani colmi di giubbilo e di gloria nell’anno 1116 rientrarono trionfanti in patria, portando seco fra i prigionieri più distinti la moglie e il figlio di uno di quei re Saraceni, morto in Majorca nel tempo dell’assedio, e tenevano avvinto al carro il re de’Mori di lui successore. Nell’anno innanzi a cotesto trionfo dei Pisani, sotto dì 24 luglio del
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    1115, aveva terminato il corso di sua vita nel castel di Bondeno in Lombardia la celebre contessa Matilda principessa resasi insigne negli annali del medio evo per politica, per pietà e per valore.
    Ricordano Malespini, copiato da tutti gli altri istorici fiorentini, riporta sotto l’anno 1117 l’impresa fatta dai Pisani nelle isole Baleari, contrariato in ciò dagli annalisti pisani, i quali tacquero un altro aneddoto, quello cioè, che poco dopo la partenza da Pisa dell’armata navale, appena questa passava davanti a Vada, i Lucchesi vennero ad oste verso Pisa. Di che i Pisani che stavano nella flotta avendo ricevuto novella, per paura che i Lucchesi non occupassero la terra, mandarono ambasciadori a pregare i Fiorentini, i quali erano molto loro amici, affinché piacesse ai medesimi di guardare la città di Pisa, confidandosi di essi come di fratelli. Per la qualcosa i Fiorentini mandaronvi gente d’armi e puosonsi ad oste fuori della città a due miglia, con ordine che alcuno non ardisse di entrare nella città »... Poco appresso lo stesso storico soggiunge: « Tornata l’oste de’Pisani con vittoria dal conquisto di Majorca, ringraziarono i Fiorentini e dissono: quale segno, ovvero cosa volessono del conquisto recato da Majorica, o le porte di metallo , o le due colonne di porfido ? e i Fiorentini chiesono le colonne, e i Pisani mandarono le dette colonne a’Fiorentini coperte di scarlatto; e per alcuno si disse, che innanzi che le mandassino per invidia le feciono affocare ;e le dette colonne sono quelle che sono diritte innanzi alla porta di S. Giovanni Battista. » (R. MALESPINI, Ist. Fior. Cap. 76. – G. VILLANI, Cronic. Lib. IV. Cap. 31.)
    L’Ammirato ripetendo il racconto, in quanto al sospetto che quelle colonne fossero state dai Pisani affocate , egli arguì che potesse probabilmente di là esser nato proverbio, che chiama i Fiorentini ciechi ; se non fu piuttosto
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    qualche altra causa come quella che fece esclamare l’Alighieri contro i suoi concittadini,

    Vecchia fama nel mondo li chiama orbi.

    Nella guisa stessa il buon Villani chiamò cieco il Comune di Firenze per essersi quei Signori lasciati ingannare da Mastino della Scala nella compra di Lucca.
    Comunque sia, è certo che le città di Pisa, di Lucca, di Firenze ecc. sino dal declinare del secolo XI agivano, come ho gia detto, di libero arbitrio, senza ricorrere al beneplacito degl’Imperatori, né all’assistenza de’Marchesi di Toscana.
    Frattanto i Pisani nel breve periodo di 56 anni avendo compito quel magnifico tempio che formò e formerà sempre l’ammirazione delle genti e più ancora dei cultori delle arti liberali, potendo dirsi il duomo di Pisa uno de’ più purgati modelli architettonici del suo secolo, quel tempio, dico, con gioja della popolazione fu nel giorno 26 di settembre del 1118 consacrato dal Pontefice Gelasio II, che in tal circostanza fra gli altri privilegj confermò alla chiesa pisana il primaziato spirituale sopra i vescovi della Corsica. Ma ciò fu come un gettare fra i Pisani ed i Genovesi nuovo guanto di disfida che servì di esca a reciproche aggressioni marittime. A rappacificare pertanto coteste due inferocite repubbliche non vi volle meno che l’intervento di S. Bernardo e l’influenza del pontefice Innocenzo II, venuti entrambi nel 1132 a Pisa, dove il Papa con un’apposita bolla innalzò la chiesa di Genova alla dignità arciepiscopale, sottoponendo alla medesima tre vescovati della Corsica, che distaccò, dice la bolla, per il bene della pace dall’arcivescovato di Pisa; mentre a questo viceversa assoggettò il vescovato di Massa Marittima, e due chiese vescovili della Sardegna oltre il titolo di primate e di delegato apostolico in quest’ultima isola.
    Non dirò se fu effetto di cotesta riconciliazione fra i due popoli, o del concilio generale tenuto in Pisa, la guerra portata nel 1135 per la parte di terra dall’Imperatore Lotario
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    II e dalla flotta pisana per la via di mare contro Amalfi, allora una delle città più considerevoli dell’Italia meridionale, dove si è creduto dai più che i vincitori ivi scuoprissero e che portassero a Pisa il prezioso codice del diritto romano, noto sotto nome delle Pandette di Giustiniano. Ne starò a rammentare cotesto libro come il più glorioso resultato di quella militare impresa tostoché molti dotti giureconsulti, fra i quali il profondo Savigny, che aderì all’opinione del Padre Abate Grandi ( Istoria del Diritto romano nel medio evo Volume II. capitolo 18 .), conclusero, che i Pisani conoscevano, e che dovevano possedere le Pandette innanzi il 1135.
    Comunque fosse di ciò, non erano i codici ciò che volevano l’Imperatore e il Papa, ma sivvero l’uno il dominio, l’altro il diritto dell’investitura del regno delle due Sicilie. Sennonché, sopraggiunte le gelosie politiche, queste condussero allo scioglimento della lega, in modo che Lotario II, mentre ritornava in Germania, sdegnato mostrossi verso i Pisani. Che per altro il suo sdegno contro un popolo costantemente ben affetto alla causa imperiale fosse mal ponderato, lo scrisse a Lotario stesso l’eloquente abate di Chiaravalle nella sua epistola 140, di cui a onore dei Pisani ed a maggior lume della storia del medio evo giova qui riprodurre il concetto.
    « Mi sorprende, scriveva S. Bernardo a Lotario II, come voi abbiate formato de’pensieri contrarj ad uomini meritevoli veramente di doppio onore. Io dico dei Pisani, che primi e soli fin qui hanno alzato il vessillo contro gl’invasori dell’Impero...... Io dirò come appunto dicevasi del santo re Davidde: quale mai fra tutte le città trovarne una come Pisa, fedele nell’uscire armata, fedele nel ritornare, sostenitrice dell’Impero? Non furono forse i Pisani che fugarono dall’assedio di Napoli quel potentissimo nemico, il siciliano tiranno? Non sono stati i Pisani quelli che nell’impeto loro espugnarono Amalfi, Revello, la Scala e la Fratta, città opulentissime e munitissime, che fino ad ora dicevansi inespugnabili?
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    Quanto sarebbe stato meglio di lasciare senza tanto inimico la fedele città di Pisa, sia per aver essa con grande amore accolto e conservato il Pontefice, sia per il servigio che ha prestito all’Impero? Veggo accaduto il contrario. Hanno avuto grazia quelli che offendevano, ed il vostro sdegno quelli che vi servivano. Forse voi non sapevi bene coteste cose. Ora che vi son note mutate animo e parole; ed uomini tali degni di essere molto più onorati dai regii favori, ricevano quanto si sono meritati. I Pisani hanno meritato molto, essi possono ancora molto meritare. Ad un uomo saggio qual voi siete ho su di ciò scritto abbastanza, ecc. »
    E chi non ritrova in questa sola lettera del santo di Chiaravalle la chiave più sicura e più veritiera della politica costantemente tenuta dalla repubblica pisana? quella, cioè, di combattere per la propria gloria senza mai perdere di mira la difesa dell’Impero? Un simile elogio, come vedremo, fu ripetuto al popolo pisano da altri Imperatori succeduti a Lotario II, stantechè il governo di Pisa professo, come si è detto, la stessa massima fino alla caduta della sua repubblica.
    Ma i consigli dell’abate di Chiaravalle non poterono ottenere il loro intento, perché Lotario II assalito da fiera malattia, allorché nelle gole delle Alpi noriche abbandonava l’Italia, ivi morì nel dicembre dell’anno 1137.
    Fu dopo cotesto avvenimento, quando i Pisani condussero coi Genovesi la pace di Portovenere (anno 1138, e poco dopo con Ruggieri re di Sicilia, cui succedettero altre convenzioni pacifiche coll’imperatore di Costantinopoli, rese carissimi ai Pisani da un sacro dono fatto alla loro chiesa maggiore unitamente ai privilegj di un più esteso potere e di una giurisdizione speciale al console pisano nella capitale di quell’impero accordata.
    Frattanto quale importanza avessero allora i governatori imperiali, che sotto il titolo di marchesi spedivansi in Toscana, lo dirà quel marchese Engelberto , che nel 1134, benché ai Pisani da S. Bernardo raccomandato ( Epist.
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    130) fu nei campi di Fucecchio dai Lucchesi combattuto e scacciato: quell’ Engelberto medesimo a sostegno del quale l’imperatore Lotario II nel 1137 aveva inviato il suo genero duca Arrigo con un corpo di truppe per rimetterlo sul seggio marchionale della Toscana. A buon diritto pertanto diceva il Muratori ne’ suoi annali, che i popoli italiani, dopo che le città loro ebbero preso forma di repubblica, non si sentivano più voglia di avere un marchese, o duca, o altro qualsiasi superiore che a nome dei Cesari loro comandasse.
    Forse da cotesto evento ripullulò fra i Pisani e i Lucchesi quella guerra, che involse nel conflitto altre città e terre della Toscana. Tale si fu la guerra del 1144 quando i Pisani, entrati in lega con i Fiorentini, inviarono i loro armati per favorire il marchese Ulderico sottentrato ad Engelberto che combatteva i Sanesi, i Lucchesi ed il conte Guido di Modigliana, l’ ultimo de’ quali fino dal 1137 al marchese di lui predecessore erasi ribellato. – Tale si fu l’ altra più sanguinosa e più lunga guerra incominciata in quello stesso anno 1144 fra il Comune di Pisa e la Repubblica di Lucca a cagione di alcune castella del loro contado, e specialmente per il castello di Aghinolfo presso a Montignoso, e per quello di Vorno alla base settentrionale del Monte Pisano.
    Fra cotanti trambusti e conflitti municipali nell’ anno 1145 innalzavasi al soglio pontificio un monaco Cistercense, Frate Bernardo, al secolo Pietro di Paganello, o de’ Paganelli da Monte Magno, che da Papa prese il nome di Eugenio III.
    Pisano di nascita, piuttostochè di famiglia religiosa, si pretende che fosse Eugenio III, il quale dal claustro de’ SS. Vincenzio e Anastasio alle Tre Fontane fu chiamato a sedere nella cattedra di S. Pietro. – Vedere MONTEMAGNO LUCCHESE, e MONTEMAGNO PISANO. – Uno de’ primi pensieri di Eugenio III fu quello
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    di riconciliare i due Comuni di Lucca e di Pisa; e vi riuscì, sebbene cotesta fosse da dirsi anziché pace una tregua di breve durata. Ma l’ affare più importante per Eugenio III e per il suo maestro S. Bernardo era quello di organizzare la terza crociata, a sommovere la quale il buon Papa recossi in Francia con lo stesso abate di Chiaravalle.
    In mezzo pertanto alle turbulenze e nimicizie reciproche delle città di Toscana, rese ancora più feroci ed ostinate dagl’ interessi commerciali; in mezzo al rallentamento progressivo del potere regio e dei marchesi imperiali, si eleggeva dai principi tedeschi in re ed imperatore (anno 1152) Federigo I figlio del duca Federigo di Svevia e di Giulitta, nata da Arrigo il Nero duca di Baviera della casa Guelfo Estense. Erano coteste due famiglie sovrane già da lunga pezza emule fra loro, in guisa che dagli aderenti di entrambe nacquero le due fazioni ghibellina e guelfa , che apportarono immensi guai all’ Italia e specialmente alla Toscana. E comecchè dal matrimonio suddetto, che partorì un imperatore in Federigo Barbarossa, lo storico Frisigense credesse che l’ unione di due schiatte principesche di massime opposte dovesse far cessare le nimicizie per tanti anni mantenute, e che le due fazioni fra i popoli da esse governati si estinguessero; comecchè di ciò avesse dato speranza l’Imperatore Federigo istesso quando nominò in marchese di Toscana e dell’ Umbria il duca Guelfo VI figlio di Arrigo il Nero , zio materno di Cesare, investendolo di tutti i beni, chiese e corti che avevano formato il ricco patrimonio della contessa Matilda, per diritto che al duca Guelfo VI come nipote di quella marchesana si perveniva, mediante il matrimonio contratto e la donazione fatta da essa Matilda al duca Guelfo V suo marito; contuttociò, appena che Federigo I, nel 1154, calò con numerose falangi a prendere la doppia corona, in Italia
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    videsi cangiare affatto la scena a danno dei municipj. Fu allora che quel potente monarca, mal soffrendo la perdita dei diritti imperiali, sparse lo spavento fra i popoli italiani che già governavansi a comune. – Non è mio scopo rammentare quanto il Barbarossa fece in Lombardia; come le città d’Italia atterrite dall’umiliante capitolazione di Milano, appena intimate, ubbidissero ed inviassero i loro deputati alla gran dieta di Roncaglia, né come quell’Imperatore, assistito da insigni professori di giurisprudenza, dimostrasse la violazione fatta dalle città italiane dei diritti e regalie dovute all’Impero; mi limiterò soltanto a dire che, sebbene Pisa, Lucca, Firenze, Siena ed altre città e terre della Toscana non avessero fatto parte della Lega lombarda, pur non ostante al comparire di quel potente monarca i consoli ed altri rappresentanti dei popoli testé nominati si recarono a giurare ubbidienza a quel monarca, con la promessa di pagare annualmente le regalie che all’Impero si pervenivano.
    All’ Articolo LUCCA ( Volume II. pagine 842, 843.) accennai, a quali condizioni l’Imperatore Federigo I nella seconda sua discesa in Toscana con diploma del dì 9 luglio 1162 concedesse ai consoli della repubblica di Lucca il privilegio di governare in suo nome la loro città, cui spettava il contado delle sei miglia. Rapporto al quale contado due anni innanzi il Marchese Guelfo VI aveva condonato ai Lucchesi ogni regalia marchionale ed i beni allodiali che ivi possedeva la contessa Matilda sua zia. – Rispetto però alla sottomissione del popolo pisano ai voleri di Federigo I, più d’uno credé che avesse luogo qualche eccezione in favore di loro. Avvegnachè mentre i Pisani assistevano con le loro forze lo stesso Imperatore contro la lega delle città lombarde, come ancora per ricuperare al sovrano medesimo le due Sicilie, contuttociò i Genovesi, rivali irrequieti de’ primi, andavano insinuando a Barisone giudice di Arborea in Sardegna di domandare a Federigo I, che a titolo di feudo dell’Impero volesse degnarsi d’investirlo in re
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    di tutta l’isola; mentre per lo contrario i Pisani alla corte imperiale di Pavia rintuzzavano le mire dei Genovesi al punto che alcuni scrittori misero in bocca degli ambasciatori di Pisa alcune ardite parole che si leggono negli annali del Tronci.
    Con tutto ciò Barisone nel 1164 per mano di Federigo stesso fu incoronato in Pavia in qualità di re della Sardegna. Ma il nuovo coronato non trovandosi in istato di pagare le 4000 marche d’argento da Federigo volute, poco stette ad essere condotto bello e incoronato prigioniero in Germania, e poi di là rinviato e consegnato ai Genovesi che il debito contratto da Barisone sborsarono, e quindi ritennero sotto guardia il ridicolo sire perché non poté all’epoca stabilita rimborsare i suoi creditori. Così dovette svanire pei Genovesi tutto il frutto de’sacrifizj fatti a favore di un uomo, il quale in quella sua gloria teatrale ogni cosa doveva agli altri fuorché la propria stoltezza. – (MANNO, Storia di Sardegna T. II.)
    Ma le libere parole dagli ambasciatori pisani fatte dire ad un monarca della tempra di Federigo I, o non furono tali come da alcuni storici vennero scritte, o fu un enfatico rilievo creato da un mal inteso zelo di patria. Imperocchè ciò non concorderebbe col racconto di più vecchi cronisti, i quali dopo la scena di Barisone, discorrendo del modo per cui allora fra i Pisani ed i Genovesi si riaccesero le antiche animosità, soggiungono, che i primi, volendo assistere i giudici di Sardegna nemici di Barisone, armarono in loro soccorso sei galere capitanate dai consoli e da altri fra i più valenti cittadini di Pisa; e che ciò non bastando, il Comune stesso deliberò spedire all’Imperatore Federigo I, dopo essere ritornato in Germania, alcuno de’ suoi consoli alla testa di un’ambasceria incaricata di avvalorare le ragioni antiche della loro patria sopra la Sardegna con più potente mezzo delle parole, quale si fu l’offerta di 15,000 fiorini d’oro. – (BREVIAR. PIS.
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    ad ann. 1165. – ANNAL. GENUENS. in Script. R. Italic. T. VI.)
    Infatti l’espediente preso da Pisani riescì felicemente, poiché Cesare, dopo aver convocato a tal uopo i principi dell’Impero, investì della Sardegna il Comune di Pisa col cerimoniale, dice il Tronci, di porre in mano del console pisano, in segno del restituito potere, il gonfalone imperiale unitamente al diploma che conteneva la revoca di tutti i diritti a Barisone, a Guelfo VI marchese di Toscana, e finalmente ai Genovesi già dall’Imperatore accordati. – (TRONCI, Annal. pis. )
    Cotesto privilegio dell’investitura della Sardegna dato in Francoforte nel 17 aprile 1165 dové recare grandissima allegrezza ai Pisani, cui era riescito di adoperare felicemente le armi medesime dei loro rivali. – Ma di altre armi ancora eglino fecero uso, quando intorno all’epoca stessa s’ impadronivano di una nave genovese naufragata sulle coste della Sardegna. Ciò servì d’impulso a nuova e più rabbiosa guerra fra i due popoli marittimi, nella quale i Genovesi, per far danno ai loro rivali anche dalla parte di terraferma, tornarono a collegarsi con i Lucchesi, i cui fatti di armi per amore di brevità mi dispenserò di riferire. – Fu solo nell’anno 1174 che terminò, o piuttosto che restò sospesa cotesta guerra, allorché tornava in Italia per la terza volta l’Imperatore Federigo I. Il quale nel tempo che dimorò in Pavia impose ai due popoli, genovese e pisano, l’assoluto divieto di guerreggiare fra loro assegnando nel tempo medesimo fra Genova e Pisa divisa la sovranità della Sardegna, di quell’isola che ott’anni innanzi l’Imperatore stesso aveva concesso per intiero ai Pisani. – Però questa volta Cesare abbisognava del soccorso e delle flotte di tutti due popoli nella mira di portare la guerra non solo a Roma, ma anche in Sicilia e nel regno di Napoli.
    Per effetto di ciò nello stesso anno 1175 dai consoli pisani furono restituite al capitolo e vescovo di Lucca tutte le pievi
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    e beni delle Colline inferiori e di Val d’Era, state tolte dall’oste pisana alla mensa vescovile lucchese. – Vedere MILIANO (PIEVE DI) MONTE CASTELLO, PIETRO (SANTO), ecc.
    Fu pure nella stessa occasione quando Federigo proibì ai Pisani di batter monete ad imitazione di quelle di Lucca. Però un tale divieto, avendo incontrato qualche difficoltà, venne modificato con altro trattato concluso fra i Lucchesi e i Pisani nel 16 giugno del 1181, mercé cui il lucro delle zecche respettive doveva ripartirsi fra i due Comuni, a condizione per altro che i Pisani non dovessero fabbricare più monete col conio lucchese. – Vedere L’ Articolo LUCCA Volume II pag. 844.
    Arroge che una consimile concordia venne conclusa tre anni dopo (6 luglio 1184) fra i Lucchesi e i Fiorentini. – (TARGIONI, Sopra il fiorino di suggello, Nota 5).
    Era già scorso qualche tempo dacché l’Imperatore greco Manuello Comneno aveva espulso da Costantinopoli i Pisani, allora quando questi si rappacificò con loro (15 dicembre del 1171) restituendo ai Pisani i fondachi e tuttociò che aveva tolto ai medesimi con la promessa di pagare al Comune di Pisa per 15 anni continui 500 bisanzi d’oro. Sul qual proposito rammenterò un privilegio del 16 marzo, anno 1161, col quale Federigo Barbarossa concedeva all’opera della Primaziale di Pisa, ed i consoli di quel Comune le confermavano il diritto dell’ embolo , delle stadere e del consolato in Costantinopoli. All’occasione pertanto del trattato di sopra indicato la Repubblica di Pisa aveva inviato in quella capitale il celebre giureconsulto Burgundio pisano, il quale molti anni innanzi aveva assistito a un contratto rogato in Pisa lì 23 dicembre 1148 ( Arch. Arciv. Pis. ), e nel 1179 al concilio lateranense in Roma.
    E qui rispetto al tempo merita di esser indicata l’epoca della prima pietra posta nel dì 9 agosto del 1174, per innalzarvi sopra
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    il campanile torto di Pisa, sul quale cadrà il destro discorrere in fine del presente articolo. Vuole pure l’ordine storico che si rammentino i privilegj commerciali fra il 1170 e il 1181 dai Pisani ottenuti nei porti e città dell’Egitto, della Siria e di Tessalonica, ora Salonicchi, senza dire di tanti altri riportati negli annali del Tronci. Ai quali trattati potrebbe aggiungersi la convenzione fra i Pisani e i Cornetani del 1 settembre 1174, e un altra stabilita nel novembre del 1179 fra i consoli del Comune di Pisa e quelli della città di Grasse in Provenza. – (MURATORI Ant. M. Aevi. Diss . 49). A far parola di quella società di negozianti pisani per numero e per capitali imponente, sebbene sotto il modesto titolo degli Umili , la quale aveva in Accon uno de’ suoi principali stabilimenti mercantili. – (TRONCI, Annal. pis .)
    Ma la notizia della perdita della città santa di Gerusalemme dispose gli animi de’Cristiani a prendere di nuovo la spada e la croce per ritorla dalle mani degli infedeli. A tale effetto Gregorio VIII appena eletto papa (ottobre del 1187) venne a Pisa per pacificare cotesto popolo con i Genovesi, verso i quali Pisa era sempre in guerra a cagione della Sardegna; e quantunque Gregorio VIII fosse stato sorpreso in Pisa dall’ultima sua malattia, pure la pace fra le due repubbliche fu conseguita mediante un trattato giurato lì 13 febbrajo del 1188 sotto Clemente III di lui successore. In conseguenza di ciò, essendo stata la navigazione per la Sardegna reciprocamente assicurata, e le possessioni con i paesi respettivi in detta isola guarentiti, Clemente III poté indurre le due potenze marittime a concorrere unite alla santa spedizione.
    Fu allora che l’arcivescovo Ubaldo si pose alla testa della flotta pisana, la quale rinforzata dai navigli de’Veneziani e dei Genovesi veleggiò nel mare della Palestina per soccorrere Guido di Lusignano dai Saraceni stato espulso dal trono gerosolimitano. Lo che
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    accadeva nel tempo in cui il Marchese Corrado di Monferrato alla testa di molti fedeli e della società mercantile degli Umili tentava di liberare dall’assedio la piazza d’Accon. – Quantunque per il giro di due anni succedessero ripetute prove di costanza e di valore, non fu però che all’arrivo dalla Francia del re Filippo Augusto e dall’Inghilterra del re Riccardo, Cuor di Leone , che la città di Tolemaide, ossia di Accon, comunemente appellata di S. Giovanni d’Acri, dalle armi de’Cristiani venne ricuperata.
    Intanto alcuni storici pisani, fra i quali il più volte citato Tronci, riportano all’anno 1190 la riforma del governo della loro patria, supponendo che in quell’anno il Comune di Pisa al reggimento dei consoli e dei senatori sostituisse quello degli anziani . I quali ultimi d’accordo col consiglio di credenza, dovevano deliberare sugli interessi più gravi, tanto politici come economici, della repubblica, mentre il potestà era incaricato di presedere al comando degli eserciti ed alla giustizia; meno negli affari commerciali, la cui ispezione dipendeva da una speciale magistratura, appellata più tardi del Consolato del mare .
    Per altro l’epoca del reggimento degli anziani sostituiti ai consoli , come quella della sostituzione dei potestà ai rettori del Comune di Pisa, non è cosi facile a precisarsi. Anche il Muratori nelle sue antichità italiane riporta molti fatti tendenti a confermare piuttosto che a schiarire simili dubbiezze. Citerò per molti un trattato concluso nell’anno 1214 fra il Comune di Pisa e quello di Gaeta, nel quale non sono nominati punto né poco gli anziani , sivvero i sapientissimi consoli dell’università e comunità di Pisa . Lo stesso dicasi di un’altra convenzione commerciale conclusa nel maggio del 1221 fra il Comune di Arles in Provenza e quello di Pisa, per la mediazione dei potestà e consoli
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    respettivi. – (MUR. Op. cit. Diss. 49.)
    Lo schiariranno meglio i varj Statuti pisani che quanto prima un professore di quella università si propone di dare alla luce col corredo d’utili illustrazioni.
    Frattanto l’Imperatore Arrigo VI, a confermare le massime da S. Bernardo all’Imperatore Lotario II esternate, con diploma del 30 maggio 1193, – dichiarava i cittadini pisani fedelissimi suoi e sempre all’Impero devotissimi per i magnifici e molteplici servigj da loro resi . Inoltre quel Cesare volle aggiungervi le seguenti lusinghiere espressioni; che rispetto alla fedeltà e probità verso gli Augusti la città di Pisa fino dalla sua origine si distinse superiormente alle altre. In vista di ciò l’Imperatore Arrigo VI desiderando remunerare il popolo pisano, non solo confermava a favor di quella Repubblica i privilegj concessi dall’Augusto suo padre, ma ancora rilasciava nelle mani del potestà Teudice, presente ed accettante per il popolo pisano, tutto quanto questo Comune riteneva di cose spettanti all’Impero, sia nella città di Pisa e suo distretto, come pure nelle isole. Oltre di ciò Arrigo stesso confermava ai Pisani la giurisdizione sopra tutti i paesi del loro contado con i confini ivi designati, estendendoli, rispetto al littorale occidentale della Toscana, sino al promontorio del Corvo. Finalmente concedeva diverse franchigie ai negozianti pisani stabiliti nell’Italia inferiore e nell’isola della Sicilia.
    Con elargità pari a quella usata ai Pisani l’Imperatore Arrigo VI spediva diplomi a favore de’Genovesi, affinché continuassero di buona voglia a coadiuvarlo con i loro navigli nell’impresa altra volta da altra tentata di cacciare il conte Tancredi dalle Sicilie dov’ egli regnava. Ma l’odio inveterato tra i Genovesi ed i Pisani fu origine in quell’occasione di molti sconcerti. Infatti i Genovesi dopo aver combattuto insieme coi Pisani in favore di Cesare, si separarono in collera, ed unirono la loro squadra a quella di Arrigo conte di Malta per assalire Siracusa precedentemente dai Pisani presidiata; sicché dopo ostinatissima resistenza questi furono costretti a consegnarla
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    ai loro rivali (anno 1194). Invano nell’anno dopo i Pisani tentarono di riguadagnare Siracusa, comecchè essa poi, benché da Arrigo VI ai Genovesi promessa, non toccasse né agli uni né agli altri. Accadeva ciò nel tempo medesimo in cui quel monarca (anno 1195) dichiarava il di lui fratello Filippo duca e marchese di Toscana, cui concedeva nel tempo stesso l’usufrutto dei beni marchionali della gran contessa Matilda.
    La dichiarazione di guerra fra le due repubbliche marittime testé accennata si estese anche sopra le isole di Corsica e di Sardegna. Raccontano i continuatori degli annali genovesi, che i Pisani, in onta dei loro rivali, avevano fabbricato il castel di Bonifazio in Corsica convertito in nido di corsari, e che nel 1195 da un naviglio armato di Genovesi fu investito e preso. Che sebbene l’anno dopo questi ultimi fossero assaliti da uno stuolo di navi pisane, non solamente essi conservarono la conquista, ma si recarono con una numerosa flottiglia a sbarrare truppe nel giudicato di Cagliari in Sardegna, di cui allora era padrone un principe amico de’Pisani, Guglielmo marchese di Massa Lunense e di Livorno – Vedere L’Articolo LIVORNO, e MASSA DI CARRARA.
    Cotesto giudice mediante un esercito riunito di Sardi, Catalani e Pisani, fece ogni sforzo per opporsi allo sbarco dei Genovesi. Ma l’effetto riescì contrario allo scopo, stantechè le masnade del marchese Guglielmo furono messe in fuga dai Genovesi che posero a sacco e fuoco il palazzo di quel giudice situato nel castello di S. Gillia.
    Malgrado tale sconfitta il marchese Guglielmo non solo seppe mantenersi in signoria nel giudicato calaritano e amico de’Pisani, ma egli riescì anco ad accozzare tanta milizia da assalire il giudicato di Arborea, usando nel tempo stesso molta severità verso l’arcivescovo di quella città. (MANNO, Stor. di Sardegna , Tomo II. Lib. 8).
    Se possono asserirsi gloriose e prospere molte imprese dai Pisani nel correre del secolo XII eseguite, se queste anche nella prima
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    metà del secolo successivo continuarono ad accrescere lustro e fortuna alla loro città, cambiò totalmente la scena sul declinare del mille duecento, e specialmente dopoché la città di Pisa dové trangugiare il calice amarissimo spaventevole di un popolo inasprito, da leve invisibili potentissime mosso e diretto, e a danno di genti antagoniste sollevato.
    Ma per non perdere il filo della storia dirò, che non fu solo il giudicato di Arborea in Sardegna oggetto d’inquietudine ai Pisani, mentre anche quello di Gallura da Lamberto Visconti potente cittadino di Pisa allora governato, risvegliò le lagnanze, del Pontefice non tanto contro quel giudice, ma eziandio verso il governo pisano che lo proteggeva. Né a punizione di questo governo Innocenzo III arrestò l’interdetto se non allora quando la repubblica di Pisa inviò al Papa una solenne legazione che esibiva di costringere il giudice di Gallura a ubbidire agli ordini d’Innocenzo III. – (BALUZI, Epist. Innoc. III . Tomo II. Lib X n° 117.)
    Nondimeno Lamberto Visconti per qualche altro mese resisté alle minacce pontificie ed a quelle della sua repubblica, per cui lo stesso Pontefice scrisse altra epistola all’arcivescovo di Cagliari accagionandolo di tiepidezza e malafede rispetto al sedicente giudice di Gallura; e quando Lamberto Visconti ebbe a cedere a tanti fulmini spirituali, per essere ribenedetto fu accolto dal Papa a condizione che la con sorte sua, la suocera e la popolazione di Gallura restassero sottoposte all’anatema fino a che non rendevano compiuta soddisfazione alla S. Sede. – (MANNO, Oper. cit. T. II Lib. 8. )
    Né qui terminarono li sdegni dell’irritato Innocenzo III contro i Pisani, poiché sembra che in lui si ridestasse il sopito malumore allorché nel 1211 il Comune di Pisa porse qualche ajuto all’Imperatore Ottone IV nell’oppugnazione della Sicilia, sicché interdetto si estese non solo contro quel monarca, ma ancora contro i governi e popoli che lo avevano ajutato.
    Succeduto a Innocenzo Onorio III, e giunta l’occasione di una
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    quarta crociata, riescì questo Papa di riconciliare i Genovesi coi Pisani disponendoli a unire insieme le loro forze navali per spingerle in Terrasanta e nell’Egitto.
    Le discordie però insorte fra i varj duci dell’esercito cristiano furon cagione che l’impresa, per quanto bene incominciata, terminasse senza il bramato effetto, non ostante che Onorio III avesse indotto Federigo II a recarsi egli stesso alla guerra santa in Palestina.
    Ereditarj però erano l’odio e l’emulazione fra i Genovesi e i Pisani, e dovunque essi incontravansi poco ci voleva a far nascere lite fra loro. Quindi e che, dopo l’ultima poco felice crociata, dopo il malgarbo fatto dall’Imperatore Federigo II ai Genovesi, allorché questi nel 1221 vennero da lui cacciati di Siracusa che da qualche tempo possedevano, si suscitò nell’anno stesso dentro il porto di Accon una fiera mischia fra i mercadanti delle due repubbliche colà stabiliti. – (MURAT. SCRIPT. R. ITAL. T. VI. Annal. Genuens . lib. 7.)
    Non prima del 1213 dovette cessare di vivere in Cagliari il giudice Guglielmo Marchese di Massa, essendoché un istrumento pisano del 30 agosto 1213 ( ab Incarnatione ) lo dà vivente insieme con donnicella Giorgia madre sua, quando cotesta donna per procura faceva acquisto di alcuni beni posti nella villa di Ulmiano presso i Bagni di S. Giuliano. – (ARCH. ARCIV DI PISA, Carte di San Matteo .)
    Al Marchese Guglielmo succedè nei due giudicati di Cagliari e di Arborea la sua figlia primogenita, donnicella Benedetta la quale vivente il padre, erasi sposata ad un Barisone figlio di Pietro giudice di Arborea. Allora i Pisani (anno 1215) di consenso della marchesa Benedetta spedirono un poderoso naviglio alla volta di Cagliari, dove edificarono la rocca, che appellarono Castro calaritano . Dopo che dal castello suddetto si poté dominare la sottoposta città, i Pisani sparsero per tutta la provincia le loro soldatesche. La qual cosa apparisce da una lettera di donnicella Benedetta diretta al Pontefice Onorio
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    III, con la quale scusavasi verso il Papa di essere stata costretta a permettere al governo di Pisa di fabbricare il castel di Castro ; protestandosi pel restare, ch’essa riconoscerebbe, come già aveva fatto poco tempo innanzi, il supremo dominio della S. Sede in tutti i suoi stati. – (MURAT., Ant. M. Aevi Diss . 71.)
    Dall’altra parte Ubaldo, figlio che fu del giudice Lamberto Visconti, invadeva il giudicato di Gallura, di dove le sue milizie si avanzarono anche nella provincia di Cagliari, assistite da Mariano figli del fu Comita giudice di Torres che aveva riconsegnato al visconti la terra di Gallura nell’atto di maritare al prenominato Ubaldo la sua figliuola Adelasia. – (MANNO, Storia di Sardegna T: II Lib. 8).
    Frattanto i cronisti fiorentini, e innanzi tutti Ricordano Malespini, che può dirsi il primo anello della collana storica toscana, raccontando da quel ridicolo motivo prendesse origine l’inimicizia fra i Pisani e i Fiorentini, per la questione cioè di un cagnolino promesso agli ambasciatori di entrambi i Comuni, egli soggiunge, che nell’anno 1222 nel mese di luglio, i Fiorentini andarono a oste in quel di Pisa a Castel del Bosco, dove accadde una scaramuccia, e quella bastò a recare fra i due popoli già amici disgustose amarezze, cui tennero dietro combattimenti atroci, ostinati e crudeltà inaudite.
    All’inimicizia de’Pisani coi Fiorentini e Genovesi poco stette ad aggiungersi lo scoppio di un’altra guerra coi Lucchesi.
    Comecchè Pisa si ritrovasse allora in mezzo a tre potenti nemici, pur non ostante il suo governo ebbe coraggio e forza da equipaggiare una flotta di 52 galere per mandarla contro l’imperatore Federigo II nella nuova spedizione in Oriente (anno 1228), e ciò nel tempo stesso che inviava un esercito nella Garfagnana sotto Barga dove ruppe le armi riunite dei Lucchesi e de’Fiorentini.
    Non corse però molto che accadde in Sardegna, intorno al 1234, l’uccisione di Barisone III giudice di Torres, nato
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    dal giudice Mariano da donnicella Agnese, altra figlia del giudice Guglielmo Marchese di Massa e conseguentemente sorella di donnicella Benedetta, signora di Cagliari e di Arborea. Ai reclami presentati da donna Adelasia, sorella dell’ucciso Barisone contro gli autori di cotesto omicidio, restò commosso il Pontefice Gregorio IX, cui accresceva fastidio l’idea che i Pisani, potendosi giovare del diritto trasfuso nel Visconti per le sue nozze con Adelasia sorella del giudice Barisone, volessero invadere anche il giudicato di Torres, tanto più che il giudice di Gallura aveva dichiarato il Comune di Pisa tutore e difensore dei propri figli e di tutte le sue ragioni e possessioni. Ben presto perciò Ubaldo trovossi involto nell’anatema dell’interdetto finché non protestò (anno 1237) di sottomettersi agli ordini del Papa per le sue terre di Sardegna. Alla sottomissione del giudice Visconti consentì anche la consorte Adelasia col sottoporre al supremo dominio della S. Sede il giudicato di Torres e tutte le terre e castella di sua eredità poste nella Corsica, in Livorno, in Pisa ed in Massa Lunenese. ( Oper. Cit. )
    L’anno dopo però (1238) il giudice Ubaldo avendo cessato di vivere, il Pontefice Gregorio IX scriveva lettere consolatorie alla vedova giudichessa Adelasia coll’offrirle il conforto di un novello sposo nella persona di un altro gentiluomo pisano, Guelfo di Ugolino Porcari, vincolato per cognita affezione alla romana Sede.
    Ma la principessa era già tratta ad altri pensieri, poiché Federigo II, che nutriva fiducia di riconquistare la Sardegna all’impero, udita la morte del giudice di Gallura, si adoprò in modo da indurre la vedova di lui a darle la mano di sposa al suo figlio naturale Enrico, conosciuto comunemente col nome d’Enzio. Quindi appena furono contratti cotesti sponsali, l’imperatore elevò il novello giudice di Gallura alla dignità di Re di Sardegna. La nozze peraltro di Adelasia con Enzio non riescirono felici per nessuno de’ due sposi, poiché la principessa videsi spogliata di ogni partecipazione al comando, e peggior sorte toccò al suo
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    marito, mentre Enzio, se all’occasione di un combattimento navale accaduto nelle vicinanze della Meloria, dove fece prigionieri i prelati francesi chiamati al concilio di Roma egli diede prove di valore, e si illustrò il proprio nome nelle guerre intraprese per conto dell’Augusto suo padre in Lombardia, altronde volle il destino che Enzio fosse fatto prigioniero dei Bolognesi, presso i quali dové restare finché visse. (dal 1249 al 1272). – Vedere MASSA DUCALE.
    Frattanto che i Pisani fedeli all’imperatore dovevan sentire non senza rammarico Enzio nelle mani de’bolognesi, alcuni fra i giudici di Sardegna insorgevano contro gli antichi loro padroni. Ai quali regoli somministravano esca opportuna le censure fulminate al comune e città di Pisa., comecchè eglino non seppero sostenere le proprie pretensioni. Imperocchè intesa appena (anno 1242) la notizia che i Pisani con numerosa flotta veleggiavano verso quell’isola, essi fuggirono dalle residenze respettive; cosicché il governo di Pisa, dopo aver confermato al nobile cittadino Ubaldo Visconti ed ai suoi figli i giudicati di Gallura e Torres, pose altre illustri famiglie pisane alla testa del restante di quei giudicati in questo modo; che i Visconti ebbero i giudicati di Gallura e Torres , ai conti di Capraja toccò quello di Arborea, mentre il giudicati Calaritano fu tripartito fra i Visconti giudici di Gallura e Torres, conti di Capraja giudici di Arborea, ed i conti di Donoratico e della Gherardesca, i quali si suddivisero in due rami prendendone ciascuno la sesta parte. (MURAT. In Scrip. R. Italic. Cronic. Pisana , Tomo XV).
    Il Tronci ne’suoi annali riportava questo fatto all’anno 1249, (stile comune), quando non fosse da dubitare che le cronache pisane confondessero con un solo atto ciò che accadde in diversi tempi. Rispetto poi ai due giudicati di Gallura e di Torres, che essi restassero confermati nella famiglia Visconti di Pisa (comecchè il Tronci a uno sostituisca i Vernagalli), non ne lascia dubitare il fatto di trovare, lo
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    stesso Ubaldo visconti intitolarsi Giudice di Gallura e di Torres fino all’anno 1237 (stile comune) mentre come tale egli per procura concorreva ad aderire alla convenzione stabilita nella chiesa di S. Dalmazio sotto S. Maria a Monte. – Vedere MARIA (SANTA) a MONTE.
    In quanto spetta al giudicato di Cagliari , nel 1242 esso dipendeva dal giudice Chiann i, o Giovanni, che si disse anche marchese di Massa. Il quale ultimo titolo serve per avventura di una qualche ragione da dire che Chianni fosse stato uno degli eredi del giovinetto Guglielmo II figlio di donnicella Benedetta marchesa di Massa. La qual donna sino all’anno 1239 governò la provincia calaritana, mentre il più antico documento del marchese Chianni sarebbe un suo testamento fatto in Cagliari nel 23 settembre 1254.
    Dopo però l’anno 1254 Chianni mal soffrendo la potenza del conte di Capraja Guglielmo giudice di Arborea, e avviando di potergli far fronte, pensò gittarsi nelle braccia de’Genovesi, mediante due atti pubblici del 20 aprile e 25 maggio 1256, col metterli in possesso del castel di Castro, sottomettendosi per il resto all’arbitrio dei novelli amici. – (MANNO, Storia di Sardegna , T. II Lib. (.)
    E ben avventurata fu al prima navigazione de’Genovesi in appoggio del giudice raccomandato, poiché nell’imbattersi in alcune navi pisane (anno 1258) ebbero propizie le sorti della guerra, quantunque quell’incontro non tornasse del tutto favorevole ai primi, se è vero che i Genovesi in tal conflitto perdessero il momento propizio per sbarcare in Sardegna per soccorrere il loro amico. Avvegnachè nel frattempo il conflitto accaduto fra i Pisani e i Genovesi, Chianni fu vigorosamente assalito dal giudice di Arborea e dai conti della Gherardesca capitani dei Pisani, sicché nel sostenere un combattimento nella terra di S. Gillia egli cadde nelle mani de’nemici che lo privarono barbaramente della vita, appena scorsi due anni dal testamento citato, col quale il giudice Chianni
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    aveva istituito suoi eredi due suoi fratelli cugini, Rinaldo e Guglielmo.
    Quest’ultimo personaggio, Guglielmo figlio di Rufo, nelle storie chiamato Guglielmo Cepola , succedè per ragioni ereditarie a Chianni nel giudicato calaritano. Ma non appena scorso l’anno dacché le persone più onorevoli eransi congregate in Cagliari al cospetto dell’ammiraglio genovese per riverire in Guglielmo il successore legittimo di Chianni, quando questi nel gennajo del 12459, assalito da morbo repentino, chiuse in Genova la serie dei regoli calaritani.
    Frattanto i Pisani con Guglielmo d’Arborea stringevano vigorosamente d’Assedio il castello di Castro consegnato ai Genovesi da Chianni, mentre sette galere comandate da Guadaluccio cittadino di Pisa, impedivano ai nemici ogni provvisione di vettovaglie. – Invano i Genovesi armarono a tal uopo un flottiglia, e provocarono l’ajuto della loro carovana orientale per recar soccorso agli assediati, poiché dalle forze pisane vigorosamente respinti, e quelli di dentro scorati ed affamati dovettero sino dall’anno 1257 rendersi col castello per vinti al giudice di Arborea. – (CAFFAR. CONTINUAT. Annal. Genuens. In Script. R. Ital . T. VI.)
    Ricaduta in tal maniera la rocca di Cagliari in potere dei Pisani, intesero questi prontamente a munirla di quella magnifica torre che insieme con la grandiosa chiesa di S. Pancrazio alcuni anni dopo fu ivi innalzata; e contro la qual fortezza affatto inutili riuscirono posteriori tentativi dei Genovesi, comecchè posseditori nella stessa provincia del caste di S. Gilla. Ne miglior risultamento ottenne la spedizione di un secondo naviglio genovese, meno la preda di un legno pisano che salpava dalla Sardegna carico di denaro, oltre il supplizio di alcuni congiurati.
    I Pisani adunque, i quali mercé l’erezione dell’ospedale maggiore con bolla dell’anno 1257 (I aprile), dal Pontefice Alessandro IV venivano prosciolti dalle censure in cui erano incorsi, si confortavano di ritenere in loro potere la rocca più importante ch’eglino stesso avevano edificata nell’isola di Sardegna. Allora il Comune di Pisa, dopo la morte dell’ultimo giudice calaritano, cominciò senza ostacolo mediante tre nobili famiglie
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    pisane ad esercitare libera signoria in detta isola, sul dominio del quale sembra che intervenissero anche i di lei arcivescovi. – Avvegnachè un documento inedito scoperto nell’archivio arcivescovile di Pisa contiene l’atto di giuramento di fedeltà prestato nel giorno 17 giugno 1266 ( stile pisano ) nelle mani dell’arcivescovo dal nobile Mariano donnicello d’Arborea per sé e per Nicolao di Capaja figlio del fu Guglielmo conte di Capaja, giudice di Arborea e della terza parte del regno calaritano, di cui detto mariano ivi si qualifica tutore.
    Già da qualche tempo erano accadute le vittorie dei pisani nel giudicato di Cagliari quando quello di Torres, patrimonio della regina Adelasia, governavasi dal vicario del re Enzio, da quel donno Michele Zanche , tuffato dal poeta delle tre visioni nella quinta bolgia destinata ai barattieri più famigerati della sua età. ( Inferno Canto XII ). E fu col nome infausto di Zanche che la serie si chiuse de giudici di Torres, essendochè dopo di lui quella provincia venne ripartita fra alcune potenti famiglie genovesi e pisane. – Accadeva tutto ciò nel tempo in cui il conte Ugolino di Donoratico, signore della sesta parte del giudicato di Cagliari, metteva innanzi le ragioni dei suoi nipoti nati dalla figlia del Re Enzio, maritata a Guelfo figliuolo del suddetto conte Ugolino.
    In mezzo a codeste brighe politiche relative all’isola di Sardegna, ben altre più serie ne insorgevano in terraferma fra i Genovesi, Fiorentini e i Lucchesi alleati fra loro a danno della Repubblica di Pisa.
    A una cotanto trista condizione de’Pisani sopraggiunse quella della scomunica fulminata dal Pontefice Innocenzo IV contro Federigo II e i di lui fautori. Alla morte pertanto dello stesso imperatore (anno 1250) i suoi nemici esultarono, sicché i Pisani, oltre a vedere compromesso il loro commercio privilegiato colle Sicilie, dovevano combattere gli eserciti delle tre repubbliche riunite. Unitisi allora in confederazione coi Senesi e Pistoiesi, invitati e accolti i fuorusciti di Firenze,
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    con tali forze i Pisani non ricusarono misurarsi contro le preponderanti della lega avversa, sia nella Lunigiana, come nella Versilia, nel Val d’Arno inferiore, nel pisano e in Val di Serchio. L’esito però della guerra non riescì, né poteva essere ai primi favorevole; onde il comune di Pisa indebolito da tante azioni sanguinose fu costretto rimettere alle dure condizioni che i fiorentini nel 4 agosto 1254 dettarono nel campo di battaglia ai vinti, i quali due anni dopo cederono alla stessa lega guelfa varie castella de’la Versilia, della Lunigiana, del Val d’Arno superiore e di Val d’Era.
    Eransi appena i pisani sbrogliati da tanta oste, allorché vedendo che il partito imperiale, ossia de’ghibellini, dopo al morte di Federigo II e di Corrado suo figlio trovavasi in Italia depresso, né potendo operare con frutto a favor del piccolo Corradino, dovettero azzardare di prendere la determinazione di valersi dell’antico diritto degli italiani rispetto all’elezione dei Cesari, sebbene quel diritto fosse stato tolto dal Pontefice Innocenzo IV nell’ultimo concilio di Lione. A tale effetto nel marzo del 1256 gli anziani di Pisa spedirono un’ambasceria ad Alfonso il Saggio re di Castiglia, che in nome della Repubblica Pisana e di tutti i Ghibellini suoi amici, essendo sempre vacante l’impero d’occidente, acclamava quel monarca in re e imperatore de’Romani.
    Accadeva tutto ciò nell’anno stesso in cui papa Alessandro IV proibiva agli elettori ecclesiastici di Germania di promuovere al trono de’Cesari Corradino nipote di Federigo II, ed intimava la scomunica a chiunque diversamente operasse. Che se al re Alfonso, dopo accettata la corona imperiale, non riescì a mantenersela, cotesto fatto spiega bastantemente di per sé l’influenze ed il potere della Repubblica Pisana; per cui essa meritatamente consideravasi fra i più rispettabili dominj nazionali che esistessero in quei tempi in italia. In vista pertanto della missione sopraindicata, il monarca aragonese rilasciò ai Pisani amplissimi privilegj dati sotto d’17 marzo del 1256 ( stile comune ) nella sua Regia villa di
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    Soria. – (TRONCI, Annal. Pis. )
    Da quei diplomi anche meglio si scuopre il sistema economico e le magistrature di cui allora componevasi il governo di Pisa, consistenti in un Potestà , in un Capitan del popolo , in 12 Anziani (sostituiti ai consoli maggiori) in 40 Senatori , in Capitani dei Militi , in Consoli di Mare , in Consoli dei Mercanti di terra, e in quelli delle Arti , da vedersi nei vari statuti, o brevi del Comune e del Popolo pisano, il più antico de’quali tra i superstiti, reputo quello delle Costituzioni d’Uso ridotte la rima volta a legge scritta sotto il 31 dicembre del 1160 ( stile comune ) e 1161 ( stile pisano ).
    Non è però che il popolo pisano restasse inerte, tostochè nel 1257 per mezzo de’suoi plenipotenziarj aveva stabilito coi Veneziani patti di alleanza contro i Genovesi, dopo che questi di corto avevano sorpreso e occupato il forte castello di Castro in Sardegna. – (MURAT. Ant. M. Aevi. Dissert . 49.)
    In conseguenza di tale alleanza si videro i Pisani poco dopo correre con numeroso naviglio in ajuto dei Veneziani che i Genovesi avevano espulso da S. Giovanni dì Acri; sicché le squadre delle due repubbliche collegate, veleggiando verso quel porto, posero a fuoco varj bastimenti genovesi, e demolirono un monastero dove i nemici si erano fortificati. Accadeva ciò quasi nel tempo stesso in cui altre forze dei pisani inviate in Sardegna, riconquistarono il perduto castello di Castro sopra Cagliari per fame degli assediati.
    Mentre i Pisani nelle guerre marittime trionfavano in Palestina ed in Sardegna, mentre il loro commercio fioriva nelle Sicilie e nelle Spagne, tutte le città Guelfe di Toscana si collegavano insieme per combattere Pisa centro principale del partito Ghibellino. La città di Siena pertanto fu designata per quartiere generale di un potente esercito,
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    alla testa del quale il Re Manfredi di Napoli aveva inviato con molti cavalieri tedeschi un valoroso capitano. Giunto il settembre del 1260, avvenne nei contorni di Monteaperto quella gran battaglia, che sbigottì l’Italia intiera per l’orribile scempio dei combattenti nella lega Guelfa. Dopo la qual vittoria i Ghibellini di tutti i paesi ferocemente vendicaronsi contro i seguaci del guelfismo; ed o Pisani come i più caldi ed i più numerosi del partito trionfante, corsero tosto a riprendere i castella ch’erano state loro dalla fazione contraria occupate.
    In questo stato di prosperità, il Comune di Pisa fece fabbricare di pietre il ponte più orientale della città, ora appellato Ponte alla Fortezza , allora Ponte alla Spina , quindi nell’agosto del 1264 fu conclusa una tregua per vent’anni fra il popolo pisano ed il regolo di Tunisi ad oggetto di assicurare sulle coste d’Affrica la navigazione e di favorire ai negozianti pisani nuovi sbocchi al loro commercio.
    Ma intorno alla medesima età può fissarsi la meta gloriosa della repubblica pisana: avvegnachè sei anni dopo la vittoria di Monteaperto accadde la battaglia di Benevento, dove il Re Manfredi, capo de’Ghibellini, rimase ucciso ed i principali seguaci vittime del vincitore. I Pisani infatti furono dei primi a risentire della morte del Re Ghibellino i più tristi effetti, tostochè non corsero molti anni che i negozianti di Pisa per ordine del Re Carlo d’Angiò vennero cacciati dalle Sicilie con rappresaglia sopra le loro merci, per la ragione che la repubblica pisana aveva caldamente invitato e poscia d’ogni maniera favorito il Re Corradino, nella speranza di potergli riconquistare il trono avito. A sostegno dell’Angioino era il Pontefice Clemente IV, il quale non solo fulminava ai Pisani l’interdetto, togliendo loro al sede archiepiscopale, ma meditava di dare un colpo anco più forte al loro governo nella mira di recuperare i diritti della S. Sede sulla Sardegna, quando lusingava di donarla a Carlo d’Angiò dopo coronato in re delle
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    Sicilie, e ciò poco innanzi che il Papa medesimo promettesse ad Arrigo di Castiglia, fratello di Alfonso il Saggio , l’investitura del trono sardo. Ne stette gran pezza a farsi innanzi pel trono di quell’isola un altro concorrente nella persona di Giacomo il Vittorioso re d’Aragona con l’intenzione di mettere quella corona sul capo del figliuolo suo secondogenito.
    Mentre fra i tre illustri postulanti pendeva il destino per l’acquisto della Sardegna, dall’altro canto non quietavano punto le rivalità ed i conflitti fra i nobili pisani signori nei giudicati di quell’isola.
    Quindi il governo della Repubblica di Pisa, il quale continuava ad esser potente in Cagliari, dové spedire in Sardegna commissarj incaricati di pacificare que’giudici fra loro; frattanto che inviava a Sassari (anno 1272) per potestà un suo cittadino, Arrigo da Caprona. Ma nel tempo che gli anziano procuravano di fissare la pace nelle terre amiche della Sardegna, essi, forse per ricattarsi con i Genovesi, spargevano semi d’inquietudine e di ribellione nella vicina Corsica. Cominciò allora (anno 1282) fra le due repubbliche una serie lacrimevole di ostilità e rabbiose fazioni, fra le quali riescì fatale a Giovanni Visconti, giudice di Gallura, quella di una squadriglia pisana da esso capitanata per riacquistare a viva forza la rocca di S. Gillia in Sardegna.
    Debolissimo lume somministrano le storie sarde per sapere con chiarezza la parte che prese nel governo il Giudice di Gallura al tempo che Pisa era retta dal conte Ugolino di Donoratico, fatto perire di fame con due figli e due nipoti. Si crede però che il Giudice di Gallura Giovanni Visconti fosse stato nemico dei conti Gherardeschi innanzi che divenisse loro aderente ed affine mediante il matrimonio ( ERRATA : di Nino suo figlio) di Giovanni Visconti  con una figliuola del conte precitato, e che costui, da ciò che meno velato apparisce, tenendo forse per la migliore via del giusto mezzo , facesse di tutto onde ridurre Pisa,
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    se non decisamente a parte guelfa, almeno ghibellina-moderata, nella cui operazione politica il conte Ugolino si associò il giudice di Gallura. Ma i più violenti Ghibellini, fra le quali si contavano molte delle principali famiglie pisane, per tale improvvida odiatissima politica si adontarono in guisa che il Visconti ed il conte Ugolino nel 1274 con decreto di ostracismo furono confinati. Ma il Visconti sostenuto dalle forze del vicario regio di Carlo, da quelle de’Fiorentini e de’ Lucchesi nemici di Pisa ghibellina, impadronissi a viva forza del castel di Montopoli. Che sebbene nel colmo della fortuna il Visconti fosse colto sollecitamente dalla morte (anno 1275), non per questo cessò la guerra di partito, a fomentare la quale concorrevano molti ambiziosi cittadini.
    Uno di questi, il più fiero di tutti, era il conte Ugolino della Gherardesca, che, adontato dall’esilio datogli nel 1274, se n’era partito da Pisa seguitato dai suoi fautori. Quindi non corsero molti mesi, quando egli segretamente si collegò coi Fiorentini e Lucchesi, sicché messosi alla testa di un buon numero di masnade di Corsi, si recò a devastare i contorni di Bientina, di Montecchio e di Vico nei confini del contado di Pisa. Ciò servì di preliminare alla battaglia che nel 2 settembre del 1275 ebbe luogo nei campi di Asciano fra l’esercito della lega guelfa della lega toscana ed i Pisani, dove più migliaja di questi ultimi rimasero prigionieri. Per tal modo il popolo di Pisa sempre più inasprito contro il conte Ugolino ne incendiò le case, nel tempo che il governo confiscava i suoi beni. Frattanto alla nuova campagna i soliti alleati investirono e batterono i Pisani persino dentro le trincere del fosso Rinonico, talché gli anziani di Pisa con la mediazione dei ministri pontificj ottennero dai nemici la pace, ma a condizioni assai gravose. Tali furono quelle di esentare i Fiorentini da ogni gabella nel Porto Pisano, di restituire ai Lucchesi le castella da essi anteriormente perdute, di ribandire il conte Ugolino,
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    i Visconti e gli Upezzinghi con altri fuorusciti pisani, e di riconsegnare ai medesimi i beni e le rendite confiscate.
    Accadeva cotesta pace nell’anno medesimo (1276) in cui celebravasi in Pisa un concilio generale dai Frati dell’ordine de’Predicatori, intimato dal Pontefice Gregorio X, affinché cotesti religiosi non predicassero più contro il tributo delle decime, ma persuadessero i popoli a pagare scrupolosamente cotesta ecclesiastica imposizione.
    Dopo agitazioni si fatte poté il governo pisano godere per qualche tempo di un poca di pace mercé cui il popolo meditò di eseguire un meraviglioso concepimento coll’affidare al migliore artista di quella età (Giovanni Pisano) l’erezione del celebre Camposanto urbano, il quale era stato un secolo innanzi dai loro maggiori ideato, con lo scopo di riporvi una quantità di terra del Monte Calvario di Gerusalemme fino dal 1200 dai crocesignati pisani nella loro patria portata.
    Sembrò infatti all’autore della moderna descrizione di Pisa, che l’erezione del Camposanto, monumento unico nel suo genere in Italia, per fatalità segnasse il confine della grandezza pisana.
    Ai molti pregj che illustrano cotesta città univansi quelli di essere stata il terrore de’Saraceni, il sostegno costante de’Cesari e di non pochi Pontefici, innanzi che la tracotanza di potenti cittadini e più che altro le municipali gelosie fiaccassero le forze di una si potente Repubblica e innanziché Pisa restasse per molti anni orbita di migliaja de’suoi più coraggiosi cittadini.
    Uno dei primi colpi alla pisana potenza fu quello minato dai Genovesi col trarre a sé l’amistà de’ più potenti signori della Corsica e della Sardegna.
    Preparavansi in tal maniera quella guerra atroce che dal 1282 in poi riempì sventuratamente gli annali delle due città di sanguinose azioni battagliate fino alla lagrimevole fatalissima della Meloria.
    Erano i Pisani intenti a riparare i danni che già da quel tempo il loro commercio risentiva, facendo pronti ed opportuni apprestamenti nell’arsenale quando il governo di Pisa elesse in potestà Albertino Morosini personaggio nobilissimo di Venezia, e per ammiragli delle
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    sue flotte Andreotto Saracini e il conte Ugolino della Gherardesca; quello stesso conte che pochi anni innanzi era stato esiliato dalla patria come sospetto di guelfismo. Correva l’anno 1284, anno di tristissima memoria per i Pisani, e che segna l’epoca in cui tra Pisa e Genova si decise del diritto di preminenza sul dominio marittimo. A questi intenti agognando i Pisani misero in ordine 72 galee con altri minori legni, sui quali montò il fiore della nobiltà e gran parte della cittadinanza. Con sì poderoso naviglio si entrò fastosamente dall’Arno in mare; e avendo colto il tempo che una flottiglia da guerra genovese era andata in Sardegna, la flotta pisana corse a dare il guasto alla riviera ligustica, presentandosi persino davanti al porto di Genova a balestrare a ingiuriare quegli avversarj. Probabilmente l’azione più che l’effetto dové muovere a ira maggiore i Genovesi; i quali richiamando dalla Sardegna e dalla Corsica la navi sparse, riunirono 88 galee con altri piccoli legni, sicché contale flotta usciti da Genova recaronsi in traccia della pisana, e trovatala in vicinanza dello scoglio della Meloria, nel dì 6 agosto 1284, seguì quella disperata battaglia, della quale forse in tutti i secoli di mezzo non era accaduta in mare la più sanguinosa, più ostinata, più fatale.
    Grande fu la mortalità dall’una e dall’altra parte, ma sommo, incalcolabile divenne il danno alla Repubblica pisana, la quale non solo perdé la metà del suo naviglio, ma più migliaja di cittadini di varie classi restarono preda del vincitore che li volle per molti anni prigioni propria casa; in modo che allora si disse per proverbio: Chi vuol veder Pisa vada a Genova .
    È certo frattanto che la Repubblica pisana dopo la perdita di moltissimi cittadini coraggiosi e potenti, non poté alzare più il capo, e tanto andò declinando che con tutto il coraggio e con tutti i mezzi dei suoi figli doviziosj e appassioni, Pisa dové perdere la propria libertà prima
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    d’ogni altra repubblica di Toscana.
    Ad accrescere nei Pisani la desolazione si aggiunse la subitanea partenza di tutti i mercanti fiorentini, cui presto tenne dietro l’ostilità manifestata dalle varie città e terre della lega guelfa toscana; le quali dopo la disfatta della Meloria si staccarono dalla momentanea amicizia del Comune di Pisa per aderire con suo danno ad una nuova confederazione di cui faceva parte la repubblica di Genova.
    Ben presto ne conseguì, che i Fiorentini dal lato di levante, i Lucchesi verso settentrione ed i Genovesi per la via di mare, nell’estate del 1285 mossero le loro armate a danno del popolo pisano.
    Che se la guerra venne sospesa con i primi, ciò fu per consiglio del conte Ugolino, al quale sino dal febbrajo dell’anno seguente associò in qualità di capitano del popolo in suo ( ERRATA : genero Nino) nipote Nino (Ugolino) Visconti giudice di Gallura. – L’opera più importante che per avventura accadesse nel primo anno della dittatura del conte di Donoratico e di Nino Visconti mi sembra quella della riforma de’Statuti del Comune di Pisa sotto il titolo di Breve Pisani Comunis , dove in calce al Cap. 61, del Libro IV, quei due uffiziali maggiori sono nominati, e sopra i quali statuti debbo tornare a parlare all’Articolo COMUNITA’ di PISA.
    Erano in questo stato le cose di Pisa, quando il suocero e il ( ERRATA : genero) nipote suddetti tergiversando nella conclusione della pace con Genova per riavere i prigionieri della Meloria, l’arcivescovo Ruggiero unitosi ai capi della fazione ghibellina, secolari e sacerdoti, dopo aver questi segretamente adunato un numero di soldati, allo spirare di giugno del 1288 levossi la popolazione a rumore, da primo (al dire di alcuni cronisti) contro il capitano del popolo Nino di Gallura per cacciarlo di signoria con intelligenza tacita del conte assentatosi pochi giorni innanzi per recarsi alla sua villa di Settimo.
    Vedendo pertanto Nino Visconti che l’attruppamento de’rivoltosi andava crescendo,
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    deliberò di escire da Pisa coi suoi seguaci armati, sicché nell’ultimo giorno di giugno del 1288 il capitano di Pisa in mezzo a un numero di soldati a cavallo escì dalla città per la porta Calcesana, mentre poche ore dopo (stando al detto di alcuni storici) dall’opposta ripa dell’Arno ritornava in Pisa il potestà conte Ugolino. – Ma già l’arcivescovo Ruggiero era entrato nel palazzo del popolo acclamato in potestà dai Sismondi , dai Gualandi e dai Lanfranchi , capi della fazione ghibellina, con l’intenzione, dicevano essi, di porre un freno alla prepotenza del conte di Donoratico, cui i rivoltosi volevano dare un compagno del loro partito.
    Per quanto io mi sia dato premura di ricercare in varj archivi pubblici le prove di tuttociò, nel desiderio di schiarire un periodo tuttora oscuro e controverso quanto importante della storia pisana, sventuratamente non vi sono riescito.
    Che però dovendo limitarmi a ripetere ciò che racconta uno de’ cronisti pisani, il quale si mostra degli altri alquanto meglio informato, e giovandomi di ciò che asseriva un contemporaneo scrittore degli annali genovesi, dirò che nella mattina, del 1 luglio 1288 ( stile comune ) il conte Ugolino e l’arcivescovo furono insieme per trattare sulla riforma del governo, ma non s’accordando fra loro così per fretta, fissarono di tornare a colloquio verso l’ora di nona. In questo frattempo l’arcivescovo e gli altri capi ghibellini furono avvisati che Nino, detto il Brigata , nipote del conte Ugolino, e parente, come dirò appresso, dell’arcivescovo Ruggiero, si preparava ad introdurre in città per via dell’Arno qualche centinajo di uomini da un capitano di Bientina appositamente condotti. Allora la fazione de’rivoltosi temendo di essere sorpresa a tradita, innanzi che le genti del conte si mettessero dentro Pisa, fu gridato all’arme , e da quelli della parte dell’arcivescovo dato nella campana del Comune, mentre l’altra del popolo chiamava i pisani a difesa del conte Ugolino. Ben
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    presto la mischia fra i due partiti incominciò per le strade della città e sempre più sanguinosa si rese dall’ora di nona fino a sera. Alla fine i seguaci del conte rinculando si rinchiusero nel palazzo del popolo, ed ivi dai loro feroci nemici con fuoco ed altri mezzi investiti, dovettero darsi prigionieri. Erano fra questi il conte Ugolino, con due figliuoli e due nipoti, i quali dopo essere stati collati e sostenuti, furono messi a’ferri e guardati più di venti giorni nel palazzo stesso posto nel Castelletto fino a che, essendosi acconcia la prigione della torre dei Gualandi dalle Sette vie , vi si rinchiusero il conte Ugolino, Gaddo ed Ugoccione suoi figliuoli con Nino, detto il Brigata, ed Anselmuccio , due nipoti dello stesso conte. – (MURATORI, Fragment. Hist. In Script R. ital . Tomo XXIV.)
    L’arcivescovo Ruggiero dal giorno innanzi gridato potestà, tenne l’ufizio per soli quattro mesi, i primi due, del luglio e agosto, personalmente, gli altri due mesi, del settembre ed ottobre, mediante il suo vicario Buonaccorso Gubetta. Dissi l’arcivescovo Ruggiero potestà di Pisa per 4 e non come altri scrissero per 5, stantechè nel novembre del 1288 ( stile comune ) esercitava lo stesso ufizio Ildino di Romagna, capitano del popolo pisano, il quale tenne quella carica per un anno. Finalmente nel mese di maggio dell’anno 1289 ( stile comune ) trovò potestà di Pisa messere Gualtieri di Brunforte.
    Di cotesti uffiziali superiori è fatta menzione in un codice sincrono dove furono registrati i nomi degli anziani tratti dalle borse ogni due mesi, a partire da luglio del 1288 ( stile comune ) sino all’anno 1406.
    Da quel codice si rileva, che la prima tratta degli anziani cominciò al tempo del venerabile padre Ruggiero per misericordia divina arcivescovo di Pisa, Potestà Rettore e Governatore del Comune e popolo pisano , l’anno 1289, del
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    mese di luglio ( stile pisano ).
    Altro documento del tempo sarebbe una sentenza data nel 12 maggio 1289 ( stile comune ) nella curia de’Maleficj di Pisa posta nella piazza di S. Ambrogio, essendo potestà messer Gualtieri di Brunforte. – (ARCH. ARCIV. DI PISA). Questo Gualtieri scrisse l’anonimo autore della cronica pisana edita dal Muratori ( Script. Rer. Ital . Tomo XXIV), ch’era entrato in ufizio di potestà a Pisa sino dal dicembre del 1288 ( stile comune ), e che vi stette sei mesi, perché ai 13 maggio del 1289 giunse ad Asti per la via di Genova il conte Guido di Montefeltro stato investito della doppia qualità di potestà di Pisa e capitano generale di guerra per il tempo di tre anni, sebbene il codice della comunità di Pisa ci dia il principio del governo del conte Guido da Montefeltro nel mese di novembre del 1289 ( stile comune ). Soggiunge inoltre il cronista, che quando il conte Guido arrivò a Pisa erano morti di fame alla Torre de’Gualandi dalle Sette vie Gaddo e Uguccione, due figliuoli del conte Ugolino, e che gli altri morirono in quella medesima settimana.
    Frattanto donna Capuana figlia di Ranieri conte di Panico e sorella di un conte Ugolino di Panico, stato potestà di Modena, essendo rimasta vedova dell’infelice Nino di Donoratico, denominato il Brigata , dové rifugiarsi con due piccoli figliuolini presso la famiglia de’conti di Panico, mentre le altre linee della casata Gherardesca poterono restare impunemente in Pisa o nel suo contado.
    Arroge che l’annalista genovese, Giacomo Doria (ANNAL. GENUENS Lib. X) racconta, come dopo la prigionia del conte Ugolino e la fuga del giudice di Gallura, l’arcivescovo Ruggiero e gli altri che in quel lagrimevole periodo governavano Pisa invitarono il Comune di Genova a spedire alcune galere al porto pisano, perché volevano consegnarli il detto conte coi figli e nipoti prigionieri. Dondechè da questi soli fatti
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    sembra poter conchiudere, che la vendetta de’Pisani, giusta o ingiusta che fosse, si limitò alla sola famiglia del conte Ugolino; che se i figli e nipoti del conte furono innocenti rispetto alle cessioni delle castella (cui aveva acconsentito tutto il popolo pisano adunato in duomo) non furono però cauti abbastanza da non prender parte nella sommossa del 1 luglio 1288; che né i figli; né i nipoti erano in una età novella, come li chiamò Dante nel più bel canto che uomo scrivesse giammai. Per tal guisa vinto l’animo della passione, si è visto come una robusta poesia sappia paralizzare la severità dell’istoria, onde accrescere delitto a un popolo e infamia a un arcivescovo, perché l’uomo del giusto mezzo fidossi troppo di colui che come parente, e forse per influenza del conte stesso innalzato dall’arcidiaconato di Bologna all’arcivescovato di Pisa, né verso i figli, né verso i nipoti, e nettampoco col suo benefattore seppe usare alcuno atto di virtù civile o cristiana. Se non fu unico però l’Alighieri a dichiarare l’arcivescovo di Pisa traditore fu unico bensì fra i coetanei ad accusare lo stesso Ruggiero di aver dato l’empio consiglio di vietare il cibo ai Gherardesca suoi prigionieri mentre non vi è pagina storica che in ciò lo addebitasse, né Roma poté per tale addebito quel prelato condannare; mentre altri incolpavano di tal crudeltà il furibondo popolo. Della qual cosa non mancano orribili e tragici esempi in tutti i tempi, con tutti i popoli, fra i più caldi partiti, quando si arma una popolazione mossa da convincimento di opinione politica o religiosa.
    Comunque sia, un fatto più concludente, che potrebbe difendere l’arcivescovo Ruggiero, oltre l’asserto dello storico contemporaneo, Giacomo Doria di sopra citato, si è quello di vedere lo stesso prelato chiamato a Roma, quindi pacificamente ritornato alla sua sede arcivescovile di Pisa, siccome lo dimostrano le carte di quell’archivio. Che anzi nel maggio dell’anno 1289 la curia de’Malefici di Pisa pronunziò
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    sentenza con penale contro tutti i Comuni dell’isola d’Elba, qualora dentro il termine di 20 giorni non avessero pagato al Venerabile Ruggiero arcivescovo pisano ed alla sua mensa il tributo di dieci anni arretrato pei falconi che i detti comuni inviare dovevano agli arcivescovi di Pisa.
    A meglio provare la permanenza di Ruggero nell’esercizio della sua dignità arcivescovile gioverà citare un breve, col quale quel prelato eccitava la carità dei suoi diocesani a voler soccorrere di elemosine l’ospedale de’Trovatelli di Santo Spirito posto in Pisa nel quartiere di Chinsica. Il quale breve incomincia: Rogerius divina et apostolica gratia Pisanus Archiepiscopus, Sardinae Primas, et Apostolica sedis Legatus, etc…, e termina: Datum Pisis apud Archiepiscopatum, Anno MCCLXXXXV. Indictione VII, sexto Kalendas Augusti, consecrationis nostrae anno XVI.
    Importantissimo poi è un istrumento del dì 8 ottobre 1295 rogato in Pisa presso l’arcivescovato perché si scuopre la famiglia dell’arcivescovo Ruggiero che non apparteneva, come finora si è creduto, agli Ubaldini del Mugello, ma invece ai conti di Panico del contado bolognese. Avvegnachè l’istrumento testé accennato tratta dell’enfiteusi di cinque predj di dominio diretto della mensa di Pisa che l’arcivescovo Ruggerio concedeva senza retribuzione di canone ad Ubaldino nipote dello stesso Arcivescovo, e figlio del conte Bonifazio di Panico di lui fratello, per tenerli a usufrutto egli, i suoi figli ed eredi maschi in perpetuo. – (ARCH. ARCIV. Di PISA).
    Che questo Baldino di Panico nipote dell’arcivescovo fosse presente alla sommossa di Pisa del 1 luglio 1288, ce lo da a divedere l’autore anonimo della cronica pisana edita dal muratori negli Scrittori delle cose italiche (T. XXIV.); mentre il Savioli ne’suoi annali bolognesi ci assicura, che donna Capuana moglie di Nino, denominato il Brigata , nasceva da un Ranieri, pur esso conte di Panico. – ( Vedere TROJA, Veltro Allegorico ).
    Ma se il poeta delle tre visioni si mostrò
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    acerrimo nemico de’Pisani e del loro arcivescovo Ruggiero, altrettanto sembrò benevolo verso ( ERRATA : Nino Visconti genero) Nino Visconti nipote e collega di Governo del conte Ugolino di Donoratico; poiché mentre cacciava Ruggeiro fra i più solenni traditori nell’Antenora, a Nino usò la gentilezza di chiamarlo gentile e di porlo nel Purgatorio, dove Dante figurò d’incontrare la sua ombra dicendo:

    Ver me si fece, ed io ver lui mi fei;
        Giudice nin gentil quanto mi piacque
        Quando ti vidi non esser fra i rei.
                                                  
    (PURGAT. Cant . VIII.)

    Ma gli odj dei popoli limitrofi crebbero contro i Pisani dopochè questi collegaronsi con gli Aretini. Allora i Fiorentini, stretta di nuovo alleanza coi Genovesi e coi Lucchesi, corsero sopra Porto Pisano (settembre 1290), dove furono investite e conquistate le quattro torri col fanale, quindi vennero affondate delle navi cariche di pietre alla bocca del porto per chiudere l’ingresso ai bastimenti di grossa portata. – Vedere LIVORNO e PORTO PISANO.
    Comecchè i Pisani non avessero forze proporzionate da misurarsi con tanti nemici, pure pel senno del conte Guido da Montefeltro loro podestà e capitano generale di guerra essi poterono schermirsi con sufficiente successo.
    Ma giunto l’anno 1292 i Fiorentini, si erano preparati ad aprire contro i Pisani una più imponente campagna, quando un loro esercito composto di 8000 soldati a piedi e di 2500 cavalieri, nel mese di giugno, mosse la marcia verso Pisa nel tempo stesso che il conte Guido da Montefeltro con 800 soldati di cavalleria, diretti con strategica bravura, procurava difendere questa città.
    Sennonché nel 1293 per risse cittadine in Firenze essendosi mutato regime a danno de’grandi, si accelerò la pace coi Pisani, che fu conclusa lì 12 luglio dello stesso anno in Fucecchio, fra il comune di Firenze ed i popoli della taglia guelfa di Toscana, nella quale meditava anche Nino di Gallura nipote dell’infelice
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    conte Ugolino da una parte, ed il Comune di Pisa coi suoi aderenti dall’altra parte. Le condizioni del trattato furono la restituzione scambievole dei prigionieri; franchigia di gabelle in Pisa e suo dominio pei fiorentini e per tutti i popoli e signori della taglia guelfa; abbattimento delle fortificazioni che il conte Guido da Montefeltro fatto avesse in essa città e suo contado; espulsione de’Ghibellini forestieri che fossero fatti cittadini pisani dopo la partenza del Giudice di Gallura; ribandimento di quest’ultimo signore, e restituzione dei beni a lui ed agli altri guelfi fuorusciti col permesso del libero ritorno in patria. – Fra i guelfi si eccettuarono i conti Guelfo e Lotto di Donoratico coi figli e nipoti come discendenti del conte Ugolino. – Restarono pure esclusi dal ribandimento alcuni de’conti di Montecuccari e di Collegalli con altri individui della casa Upezzinghi, salvo un capitolo speciale che servi forse di appendice allo stesso trattato di pace relativo al perdono de’conti Guelfo e Lotto di Donoratico, ma che però non ebbe effetto.
    Finalmente in quell’atto fu stabilito che i Pisani per 4 anni dovessero eleggere in loro potestà e capitano del popolo uno nativo dei paesi della lega guelfa toscana, purché non fosse stato dei ribelli de’collegati. – (AMMIR. Stor. Fior. Libro IV. – Dal BORGO, Dissert. e Diplomi pisani .)
    In vigore del quale trattato molti fuorusciti guelfi, fra i quali, il Giudice Nino di Gallura, tornarono a Pisa ed al libero possesso de loro beni. Ma poco andò che Nino Visconti si riallontanò dalla patria per recarsi a Genova dove fu ben accolto e fatto cittadino. Quindi dopo essersi unito ad altri amici, quel giudice navigò in Sardegna con animo d’indurre i potenti dell’isola a scuotere il giogo pisano, osteggiando prima di tutto contro il giudice di Arborea. Ciò sarebbe accaduto secondo uno storico sardo nel 1297, e due anni dopo secondo li scrittori pisani e genovesi.
    Ma il giudice di Gallura l’anno 1300
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    cessò di vivere lasciando all’unica sua figliuola Giovanna, natagli da donna Beatrice d’Este, oltre una ricca eredità, i paterni diritti sul giudicato di Gallura.
    Appella a cotesta figlia di Nino Visconti il colloquio figurato da Dante nel Purgatorio, allorché Nino diceva al poeta:

    Quando sarai di là dalle larghe onde
        Di a Giovanna mia, che per me chiami
        Là dove agl’innocenti si risponde.
                                                  
    (PURGAT. Canto 8).

    Siamo giunti alla fine del secolo XIII, quando i Pisani trovandosi assaliti dai Genovesi con sempre più insistenti forze navali, tanto in Sardegna, come nella Corsica e lungo il littorale toscano, dovettero tornare a comprare da essi una pace umiliante, con la quale furono forzati di rilasciare ai loro emuli l’intiero dominio della Corsica, ed il giudicato di Torres con al città di Sassari (la sola indipendente di tutta la Sardegna) esentandoli da ogni dazio nel restante dell’isola come pure in quella dell’Elba, in Pisa e nel suo contado.
    All’incontro si limitava ai Pisani la giurisdizione littoranea, togliendo via quella che ottennero pere concessione imperiale dalla bocca del Serchio al promontorio del Corvo. Infine il comune di Pisa dové obbligarsi a pagare lire 160.000 ai Genovesi, promettendo questi dal lato loro di rimandare a Pisa quegl’infelici prigionieri della Meloria, che dopo 16 anni erano restati tuttora in vita.
    Uscivano appena i Pisani da cotesto travaglio che se ne affacciava incontro un altro non meno doloroso. Era di poco salito sul trono pontificio Bonifazio VIII, il quale intento a far cessare fra la casa regnate d’Aragona e quella d’Angiò di Napoli ogni contenzione rispetto al possesso della Sicilia, concludeva con Giacomo II re d’Aragona un trattato, in cui per condizione segreta eravi la promessa di dare a questo monarca la Sardegna, mentre per la sua parte l’Aragonese rinunziava ad ogni suo diritto sull’isola della Sicilia.
    Coteste trattative preliminari, al dire di Giovanni Villani, si fecero nel principio del 1296, mentre per asserto
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    di un più vecchio scrittore, Tolomeo da Lucca, il trattato non avrebbe avuto luogo sennonché nel luglio del 1299. Infatti fu dopo una segnalata vittoria dagli Aragonesi riportata nel mare di Sicilia, quando Giacomo II ottenne dal Pontefice Bonifazio il gonfalone della chiesa con l’investitura dell’isola di Sardegna, previa la protesta di riconoscere il supremo dominio della S. Sede, di assisterla colle sue forze in Italia, e di pagare alla Camera apostolica l’annuo censo di 2000 marche d’argento.
    Ma quell’atto di investitura dovette trattarsi con la massima segretezza e senza la minima saputa dei Pisani, se è vero che questi nel 1301, lusingandosi probabilmente di evitare un pericolo che li minacciava, o piuttosto sperando di liberasi dall’interdetto cui si trovavano avvolti, caddero in un precipizio maggiore, se è vero, io dico, che i pisani eleggessero in loro potestà lo stesso Papa con l’annuo onorario di 4000 fiorini d’oro, e che Bonifazio VIII, accettando cotale offerta, per tal mezzo avesse liberata dalle censure la città di Pisa, dove da alcuni storici si ammette l’invio di un vicario papale in governatore di quella repubblica.
    Frattanto Giacomo II conoscendo che l’acquistato diritto non bastavagli, se non giungeva a cacciare dalla Sardegna i Pisani che pure vi signoreggiavano, deliberò combatterli concitando contro essi prima di tutto la rivalità de’Fiorentini e dei Lucchesi. – Erano in questo stato gli affari politici, quando il Comune di Pisa, nel 1308, volendo evitare un pericoloso cimento, ebbe ricorso ad un ausiliatore assi più potente e più efficace, quale si è l’oro. Infatti in quell’anno essendo stati da Pisa inviati in Aragona ambasciatori con tre galere e con molta moneta, questi ruppero la foga al nemico allettato anche dall’offerta fatta al re Giacomo della carica di Capitano della repubblica pisana, sebbene punto, o brevissimo tempo per mezzo di un suo vicario l’esercitasse. – (G. VILLANI, Cronac. Lib . VIII, Cap. 105. TRONCI, Annali pisani .)
    Che i Pisani fidassero nella pace
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    promessa dall’Aragonese rispetto alla Sardegna, lo dice la chiesa maggiore di Cagliari da essi in quel tempo fondata, e lo chiarisce anche meglio l’ordine dato dagli anziani nel 1314 per inviare un giureconsulto in Sardegna che tenesse a sindacato i diversi ufiziali al servizio del comune di Pisa, tanto nella provincia di Cagliari, come in quella di Gallura. – (DAL BORGO, Diplomi pisani , pag. 315).
    Frattanto a rincorare il partito del governo ghibellino scendeva con grand’animo in Italia nell’anno 1311 Arrigo di Lussemburgo per essere incoronato a Roma Imperatore. I Pisani, che si ripromettevano da questo sovrano il ritorno all’antico splendore, procurarono con tutti i mezzi di favorire le buone disposizioni mostrate da quel monarca a vantaggio del partito ghibellino.
    Infatti il Comune di Pisa mandò sollecitamente ad Arrigo di Lussemburgo 60.000 fiorini d’oro, ed altrettanti ne promise al suo arrivo in Pisa. Ognuno può immaginarsi la gioja e l’accoglienza fatta da un popolo ghibellino ad un imperatore ghibellinissimo, nel suo ingresso in Pisa, dove s’intrattenne 46 giorni continui, (dal dì 6 marzo al 22 aprile del 1312.)
    Sono troppo note le belliche imprese di questo monarca inutilmente tentate nell’assedio di Firenze e quelle ne contorni di Siena, dove nel 24 agosto 1313 in breve ora morì. – Dolenti i Pisani per tale disavventura non lasciarono di onorare le ossa di quell’Imperatore, il cui cadavere fu cotto e spolpato nel suo passaggio da Suvereto, dove restò due anni innanzi che venisse trasportato a Pisa, e costà rinchiuso in un apposito sarcofago con gran dolore della popolazione, la quale dopo aver speso somme immense presentiva la trista sorte che gli sarebbe toccata.
    Vedendo per tal caso gli anziani di Pisa la città esposta all’ira di tanti nemici, pensarono di offrire il comando della medesima a diversi principi del loro partito. Ma questo progetto essendo andato a vuoto, si ricorse al valoroso Uguccione della Faggiuola lasciato dall’Imperatore Arrigo VII luogotenente in Genova, il quale
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    accettò l’offerta di potestà e capitano del popolo pisano. Quest’uomo bellicoso e intraprendente assoggettò assai presto ai suoi voleri anche la città e territorio di Lucca. Accorreva a reprimere tanta baldanza una numerosa armata di Fiorentini, di Sanesi e di altri popoli della lega guelfa toscana, a rinforzo della quale non pochi soldati inviava il re Roberto da Napoli. Ma Uguccione li vinceva tutti nella memoranda battaglia di Montecatini in Val di Nievole (29 agosto 1315); in quella luminosa giornata che rese sempre più orgoglioso ed esigente il Faggiuolano, sicché Uguccione si tirò addosso l’odio dei suoi governati a segno, che in una mattina stessa a furia di popolo trovossi cacciato da Pisa e da Lucca. (11 aprile 1316).
    Cascetto da Colle, popolano arditissimo, e il conte Gaddo (Gherardo) della Gherardesca furono i primi che in Pisa si muovessero ed incoraggiassero la popolazione ad oggetto di liberare da tale oppressore la patria. – Era il conte Gaddo nato da un conte Bonifazio detto il Vecchio , che fu prigioniero dei Genovesi innanzi al fatale sconfitta della Meloria, e che alla morte di lui accaduta nel 1313 fu generalmente compianto per le sue virtù e per ricordi cospicui di beneficenza che in Pisa lasciò.
    La rimembranza di un ottimo padre, la ricchezza della famiglia, i buoni servigj dal figlio stesso resi ultimamente alla patria, fecero si che il conte Gaddo fosse amato ed accettissimo ai suoi concittadini, di maniera che nel 1316 agli fu acclamato signor di Pisa dai discendenti immediati di coloro che avevano fatto perire nella torre della fame il cugino del di lui padre.
    Saggi furono i provvedimenti del novello signore, che procurò ai suoi amministrati una quiete stabile, riformando abusi, ricomponendo milizie, restituendo vigore alle magistrature e un maggior rispetto alle leggi. Il conte Gaddo chiese ed ottenne la pace a favorevoli condizioni da Roberto re di Napoli, dai Fiorentini e dalle altre città guelfe della Toscana. Per stare
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    in maggiore armonia col suo potente vicino, Castruccio degli Antelminelli capitano e signore di Lucca, lo stesso conte stabilì il matrimonio fra il proprio figlio Bonifazio novello e Sancia Antelminelli figliuola del suo potente vicino.
    Mentre però tutto tendeva a riparare i danni sofferti ed a migliorare la sorte de’Pisani, nel tempo che questi nutrivano grandi speranze e le più belle lusinghe, tutto fu troncato dalla morte repentina del conte Gaddo accaduta nell’anno 1320; né seppe ripararvi il di lui zio paterno, il conte Ranieri della Gherardesca acclamato e sostituito nell’istesso ufizio al nipote.
    Non corse infatti molto tempo a presentarsi occasione propizia al re d’Aragona per la conquista della Sardegna, quando il governo di Genova si esibì di ajutarlo nell’impresa con la speranza di accrescere stato in quell’isola, di menomarvi e forse di annientarvi la potenza pisana. Cominciò nel 1323 con mezzi barbari a ribellarsi dai pisani il giudice di arborea, il quale, oltre il tenere la città di Orestano, era signore quasi di una terza parte della Sardegna quando offriva all’Aragonese non solamente tutte le sue milizie, ma prometteva di più l’ajuto dello scellerato Brancadoria di lui amico e confederato. (G. VILLANI, Cronich. Lib . IX, Cap. 198. – MANNO. Stor. di Sardegna , Lib. IX)
    Arroge che l’infante don Alfonso secondogenito del re Giacomo stava nei porti di Valenza e di Catalogna preparando un numeroso naviglio per conquistare la Sardegna, mentre il comune di Sassari dichiaravasi pronto a giurare fedeltà ed obbedienza al re d’Aragona.
    Appena giunse l’avviso agli Anziani di Pisa di quanto dall’Aragonese meditavasi, eglino spedirono in Sardegna 700 cavalieri con corrispondente fanteria destinata a rinforzare le guarnigioni, nel tempo che salpavano da Pisa molte galere a soccorrere i castelli dalla parte del mare. Cotesti soccorsi però riescirono inutili poiché le forze superiori di Giacomo II, il tradimento del giudice di Arborea, la dedizione della città di Sassari ed il timore degli altri isolani, resero
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    vani, tardivi o troppo deboli i ripari presi per conservare la Sardegna alla repubblica di Pisa.
    Nel tempo che le truppe pisane erano dalle aragonesi in Cagliari assediate mancò di vita (anno 1325) il conte Ranieri della Gherardesca signore di Pisa, assai poco amato dai suoi concittadini. Allora la guarnigione di Cagliari intavolò con gli assediati una onorevole capitolazione, cui tennero dietro condizioni di pace, sebbene questa riescisse di corta durata.
    Alla nuova rottura di guerra vollero i Pisani ritentare la sorte, ma anche cotesta volta essa riescì loro contraria, sicché per la seconda volta eglino (anno 1326) furono costretti ad abbandonare al re di Aragona l’ultimo possedimento del Castel di Castro sopra Cagliari, limitandosi quel trattato a dar qualche preferenza ai Pisani rispetto al commercio con la Sardegna.
    Ma oltre la sopra accennate, altre sventure si apprestavano a Pisa alla discesa in Italia di Lodovico di Baviera; il quale pretendeva sanzionare i suoi diritti all’impero a dispetto di Roberto re di Napoli, e di Papa Giovanni XXII che con tutti i mezzi se gli opponevano.
    Gli Anziani di Pisa che dopo savio consiglio avevano deciso di restar neutrali, limitandosi ad offrire 60000 fiorini d’oro al preteso imperatore, ebbero il dispiacere di sentire arrestatigli ambasciatori inviati a fargliene l’offerta; né passo gran tempo dacché Pisa si trovò assediata dalle truppe del Bavaro e da quelle del capitano Castruccio suo fedele. In conseguenza di ciò i pisani dovettero soggiacere a dure condizioni, come furono quelle di avere a sborsare 100000 fiorini d’oro, accogliere nella città i fuorusciti pisani, e ricevere per vicario imperiale quel Castruccio medesimo, che due anni dopo il suo ritorno da Roma ripassando da Pisa ne prendeva la signoria senza riguardo alcuno all’amico imperatore.
    Alla morte però di Castruccio, benché i pisani cacciassero dalla loro città i figliuoli di lui, non poterono godere il frutto della libertà riacquistata, tostochè il Bavaro, appena ritornato a Pisa in compagnia dell’antipapa, aggravò questo popolo di
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    contribuzioni esorbitanti, alle quali tennero dietro le pontificie censure.
    Ma appena Lodovico ritornò in Germania, Pisa scosse il giogo della guarnigione tedesca e del vicario imperiale, per opera specialmente del conte Bonifazio novello , più noto col nome di conte Fazio della Gherardesca. Infatti mercé sua fu ristabilita in Pisa l’indipendenza del governo (anno 1329), e le vertenze col re di Napoli, col Pontefice e con gli altri popoli della Toscana non tardarono a essere ripianate.
    L’esito felice di queste operazioni tendenti a sopire fra i Pisani ogni contesa, la liberazione dall’interdetto ottenuta dal Pontefice Giovanni XXII, ed altri non pochi benefizj accrebbero al conte Fazio riputazione, nel tempo che tuttociò destava rancore nei capi delle principali fazioni pisane, i quali tentarono, sebbene senza effetto, (anno 1335) d’indisporre contro lui il basso popolo eccitandolo alla rivolta. Per modochè se da un lato i comune di Pisa accresceva al conte sicurezza e onorificenze, dall’altro si aumentava l’affezione dei cittadini verso un uomo che invitava da ogni parte d’Europa personaggi dottissimi a cuoprire la cattedre nell’università da esso eretta in Pisa. Lo che accadeva nel tempo in cui il conte Fazio fondava spedali e case per gli orfanelli, abbelliva la città di nuovi edifizj, aumentava fondi all’opera delle quattro più sontuose fabbriche sacre; faceva edificare il ponte a mare, escavare nuovi fossi di scolo per migliorarne l’aria e il suolo, ecc. Dondechè alla morte di un signore tanto cotanto benefico e premuroso (anno 1341) profondi fu il duolo dei Pisani, pentiti forse che i loro avi avessero troppo barbaramente straziato cinque persone ascendenti di cotanto nobile e benemerita prosapia.
    L’ultimo atto della volontà del conte Fazio fu quello di destinare molta parte del suo ricco patrimonio, mancando la sua discendenza diretta, siccome accadde assai presto, in vantaggio della pia casa della Misericordia di Pisa, stabilimento forse il più antico in simile genere esistente in Toscana. – Vedere appresso: Stabilimenti di beneficenza .
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    /> Tanta fu l’affezione dai concittadini suoi contemporanei al conte Fazio dimostrata, che il consiglio generale di Pisa acclamò in nuovo signore i di lui figlio conte Ranieri, per quanto fanciullo di soli 11 anni.
    Correva appunto l’anno 1341, quando i Fiorentini patteggiavano di acquistare Lucca da Mastino della Scala, la qual cosa penetrata dai Pisani, ed eglino, non potendosi accordare con lo Scaligero, innanzi che i Fiorentini compissero la folle compra di Lucca, avevano cautamente provvisto ad impedirne l’effetto col soldare gente d’armi, col stringere alleanza e ricevere milizie dal duca di Milano e dai signori di Mantova, di Reggio e di Padova, nemici di Mastino signor di Lucca e di Verona, per tacere di altri soccorsi ottenuti dai dinasti e dai popoli di parte ghibellina amici del Comune di Pisa. Con simili forze collettizie i Pisani mossero incontro al nemico rompendo le strade del territorio lucchese, onde impedire ai Fiorentini il dominio della città da essi comprata. E prima di tutto gli Anziani mediane lo sborso di 3000 fiorini d’oro ottennero dalle guarnigioni che vi stavano per lo scaligero i castelli del Cerruglio e di Montechiaro in Val di Nievole; quindi avanzandosi col grosso dell’esercito, a dì 22 agosto del 1241 si posero all’assedio intorno a Lucca.
    Non operarono di meno i Fiorentini, i quali, appena unite le loro genti a quelle dei popoli e principi amici, fecero cavalcare tutta l’oste nel contado pisano e furono, dice i Villani, 3600 cavalieri e più di 10000 pedoni che s’innoltrarono devastando il paese fino al borgo delle Campane (circa un miglio presso a Pisa) e poi si rivoltarono per la Val d’Era, andando a Ponsacco e facendo senza contrasto grandi arsioni per più giorni, di dove poscia l’oste del contado pisano retrocedé alle sue castella del Val d’Arno di sotto, finché di la prese la via dell’Altopascio per andare ad accamparsi in vicinanza di Lucca.
    Non dirò come fra i due
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    eserciti, venuti a battaglia, quello pisano riportasse vittoria (2 ottobre 1341) perché ognuno può trovarla descritta in Giovanni Villani. Il quale storico aggiunse, che i Fiorentini volendo seguitare la loro folle impresa di levare i Pisani dall’assedio di Lucca, raccolsero nuova e numerosa soldatesca a piedi e a cavallo, e il dì 25 marzo 1342 mossero quell’esercito verso la città; e siccome l’effetto non corrispose al desiderio, dopo alcune trattative concluse fra le parti belligeranti, i Lucchesi dovettero aprire le porte ai nemici.
    Cotesta pacificazione per altro destò amarezze nel signor di Milano, il quale in vista de’soccorsi dati pretendeva essere dai pisani rimborsato. Allora fu che i figliuoli di Castruccio e Giovanni Visconti si provarono a rivoluzionare Pisa e Lucca; e allora il vescovo di Luni poté occupare con le genti di Luchino Visconti suo cognato alcuni paesi di Lunigiana e della Versilia, parte dei quali si tenevano dai Pisani, e parte furono dai Fiorentini amichevolmente consegnati a quel prelato.
    Liberata la Repubblica di Pisa mediante lo sborso di 80000 fiorini d’oro anche da questa guerra, era sperabile che il suo popolo fosse una volta per godere di qualche sorta di quiete e di tranquillità. Ma invece i partiti si riaccesero più violenti di prima per la morte repentina del conte Ranieri figlio del magnanimo conte Gaddo della Gherardesca; e fu allora, che in Pisa, a similitudine de’Bianchi e de’Neri in Pistoja, vennero in campo i cosiddetti Raspanti ed i Bergolini , alla testa delle quali sette erano per i Raspanti i Gherardeschi, mentre fra i campioni de’Bergolini figuravano i Gambacorti.
    A tali disavventure si aggiunse l’orribile peste del 1347 e 1348 preceduta dalla carestia, due flagelli che spopolarono non solo Pisa ma quasi tutta Europa.
    Dopo la morte del predetto conte Ranieri signore e capitano generale di Pisa, la stessa città sollevata e divisa dai partiti restò in balia di
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    quello de’Bergolini che acclamò Andrea Gambacorti in capitano del popolo e signore della città. Sennonché la fazione opposta, alla venuta in Pisa del re Carlo IV (anno 1355), riprese animo, quando i Gambacorti per giusto mezzo proposero, e il partito avverso non si oppose, di dare la signoria di Pisa allo stesso monarca alemanno.
    Questi accettò l’offerta; ma le durezze de’suoi soldati fecero presto accorgere i capi delle due fazioni del commesso errore, e di aver sacrificata la libertà della patria alle individuali passioni; dondechè i Gambacorti ed i Gherardeschi accordatisi fra loro, poco dopo furono davanti a Carlo IV per fargli sapere, che essendo cessato il motivo per cui gli avevano affidato la signoria della loro patria, supplicavano sua maestà a degnarsi a restituire alla loro patria i privilegi, ai quali era stato rinunziato. Credette Matteo Villani che l’Imperatore di buona voglia a tale inchiesta acconsentisse dopo aver interpellato se a cotesto avviso fosse stato conforme il voto del popolo. – (MATTEO VILLANI, Cron . Libro II.)
    Tornato Carlo dall’incoronazione di Roma, si sparse voce poco dopo ch’egli fosse per liberare la città di Lucca dalla schiavitù cui già da alcuni anni era tenuta. Alla qual vociferazione i Pisani mostraronsi naturalmente scontenti; sicché Carlo insospettito per varj accidenti che in quel tempo accaddero in Pisa dove allora dimorava, e credendosi poco sicuro in questa città, dopo aver fatto decapitare cinque supposti complici della famiglia Gambacorti, se ne partì per la Germania, lasciando Lucca dipendente come lo era dai Pisani. Questi allora strinsero alleanza coi Fiorentini, e poco appresso coi Sanesi e Perugini. Ma non corse gran tempo ad insorgere nuovi dissapori tra i governi di Firenze e di Pisa, quando quest’ultimo con la mira di accrescere le rendite dello stato credé potervi riescire con abolire (anno 1356) l’antico patto che esentava i Fiorentini dalle gabelle di Pisa e del Porto Pisano.
    Ma dopochè il governo di
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    Firenze prese la determinazione di aprire un trattato di commercio coi Sanesi per servirsi del loro porto di Talamone, i reggitori di Pisa si accorsero del commesso errore, cui credettero riparare con altro errore, mediante cioè una guerra di rappresaglia, sia facendo armare varie galere (anno 1357) per tentare di chiudere il porto di Talamone, sia stringendo lega coi Genovesi per contrastare ai Fiorentini l’ingresso ed egresso dallo stesso porto. Ma questi ultimi con la loro costanza vinsero l’impolitica misura senza cambiare la risoluzione presa di un difficile, lungo e dispendioso trasporto delle loro merci a Talamone; e ciò né anche dopo che il governo di Pisa pubblicò la riforma che riammetteva il vecchio patto d'esenzione a favore dei Fiorentini.
    Per 5 anni continuarono tra i due popoli, sebbene indirettamente, le ostilità dalla parte di terra con assistere e inviare che fecero i Pisani de’soccorsi ai nemici de’Fiorentini, mentre questi proteggevano tutti i Gambacorti esiliati da Pisa; e tanto andò finché nel 1361 vennero i due governi a un aperta rottura.
    La guerra per mare riescì felicemente per i Fiorentini, i quali con le loro squadriglie scorrendo tutto il littorale toscano, impossessaronsi dell’Isola del Giglio, investirono il Porto Pisano, ruppero la catene che ne chiudevano l’ingresso, e mandarono i pezzi a Firenze per appiccarli nei luoghi più esposti della città. Anche la guerra dalla parte di terra incominciò nelle colline del Val d’Era con fortuna avversa alla Repubblica di Pisa e con al perdita di molti castelli, finché alcuni de’ capitani stranieri al servizio del Comune di Firenze, pretendendo che fosse duplicata loro al paga, ed il governo loro negandola, staccarono i loro compagni d’arme dall’esercito fiorentino, sicché con mille soldati a cavallo formarono una delle solite compagnie di masnadieri, che dall’insegna da essi inalberata di un cappello fu chiamata la compagnia del Cappelletto . Questo incidente dové arrestare i progressi de’Fiorentini, i quali però, dopo aver cambiato comandante e preso al loro servizio
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    il valoroso Pietro Farnese, nella Battaglia di S. Giovanni alla Vena (anno 1363) fecero prigioniero il capitano dell’esercito nemico con molti soldati pisani, mentre il restante venne disperso e incalzato fino presso le mura di Pisa; e fu nella stessa campagna, che un altro corpo di truppe pisane restò vinto davanti a Barga nella Garfagnana.
    Morto però il bravo capitano Farnese, anche la fortuna cambiò per i fiorentini, cui concorse la poca capacità del nuovo condottiero (Rinuccio Farnese) e l’errore di non voler la signoria di Firenze prendere al soldo una compagnia di soldati in gran parte tedeschi e inglesi, che poco dopo recossi a servire la repubblica di Pisa.
    Con cotesta razza di masnade i Pisani si resero quasi padroni della campagna scorrendo e depredando ville e borghi, senza tralasciare i soliti insulti, come quello di correr palj, batter moneta, e impiccare asini coi nomi dei più illustri personaggi nemici. Di poi l’esercito pisano unito alla compagnia forestiera s’innoltrò nel Chianti, e di là scendendo nel Val d’Arno superiore dopo aver saccheggiato la terra di Figline, mise in rotta all’Incisa l’esercito fiorentino; fino a che quell’armata carica di preda mosse verso Val di Pesa. Riesciti vani alcuni tentativi di pace, nell’anno 1364 la guerra fra Pisani e Fiorentini ricominciò con più calore, avendo i primi parecchie migliaja di soldati a piedi capitanati da Anichino di Mongardo, cui si unirono seimila soldati a cavallo per la più parte di compagnie forestiere capitanati dal valente capitano inglese Giovanni Augut. Donde avvenne che un esercito come cotesto, assai più forte del fiorentino, prese il di sopra, dominando a sua voglia, e scorrendo senza contrasto il contado intorno alla città di Firenze, tentando di prenderla d’assalto per accrescer confusione tra gli abitanti. Grande fu il guasto recato al territorio fiorentino, e lunga la stazione dell’esercito pisano e delle sue masnade nei contorni di Firenze; dalla quale città le truppe mercenarie, mediante il segreto sborso fatto loro di 100000 fiorini d’oro,
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    a poco a poco si andarono ritirando; per effetto di che le compagnie medesime si obbligarono dal canto loro di non molestare per cinque mesi le truppe del Comune di Firenze. Infatti un esercito fiorentino poco dopo, avendo fatto un’escursione nella pianura fra il Porto Pisano e Pisa, obbligò il governo di questa città a dirigere le sue forze verso quel porto onde indurre i nemici alla ritirata. Tuttociò servi ad accrescere sempre più l’animosità tra i due popoli; poiché la signoria di Firenze comandò che un esercito più fresco e più numeroso si avanzasse verso Pisa, siccome infatti avvenne, quando pose gli accampamenti a Cascina. I Pisani non minori di numero tenevano sempre al loro servizio Giovanni Augut, uno de’ più saggi ed esperti ufiziali della sua età.
    Contuttociò in virtù della strategica usata in quel cimento da un prevedente commissario fiorentino (Manno Donati), l’esercito pisano fu più volte ributtato dall’assalto che diede all’edilizio della Badia di S. Savino, finché i Fiorentini, da assaliti fatti assalitori, nel 28 luglio del 1364, riportarono sopra i pisani una luminosa vittoria che tuttora si festeggia in Firenze con il palio di S. Vittorio. Tanta sventura accoppiata ad un gravissimo dispendio obbligò gli Anziani di Pisa a soffocare l’ira in esso sempre crescente contro i Fiorentini. Si dové allor cercare di venire ad una trattativa, giovandosi della mediazione del Pontefice. Il congresso fu aperto a Pescia, dove i Pisani inviarono quel virtuoso giurisperito Pietro d’Albizzo da Vico, che generosamente rifutò la proposizione di farlo signore di Pisa.
    Non fu rifiutata però la stessa signoria da un cittadino dell’Albizzo più ambizioso e più vile, voglio dire da Giovanni di dell’Agnello, uomo borghese del partito de’Raspanti , il quale col patrocinio di Bernabò Visconti signor di Milano riescì a farsi eleggere doge di Pisa nel tempo che a Pescia si concludeva un pace a condizioni poco favorevoli a quella città. In vigore del quale trattato il nuovo
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    doge si obbligò a sborsare ai Fiorentini centomila fiorini d’oro, oltre la restituzione reciproca delle terre e castella come anco de’prigionieri fatti in quella guerra.
    Per quanto però la repubblica di Firenze avesse l’aria di vincitrice, pure cotesta guerra era stata dannosa ad ambedue i popoli, e solo avevano guadagno le masnade straniere, diventate a quell’età il vero flagello dei popoli italiani.
    Due anni dopo l’innalzamento di Giovanni dell’Agnello al ducato di Pisa comparvero in Italia due grandi personaggi che misero molti governi in qualche apprensione. Io parlo del pontefice Urbano V determinatosi di riportare la sede apostolica a Roma e dell’imperatore Carlo IV che il Papa medesimo aveva invitato per raggiungerlo a Roma. Arrivò Urbano V col suo numeroso seguito davanti al Porto Pisano senza sbarcare, servito dalle galere pisane, venete e napoletane, e solamente scese a terra sulla spiaggia di Corneto, da dove passò a Viterbo.
    Né il ritorno dell’Imperatore Carlo IV in Italia riescì ai Pisani molto più proficuo di quello delle altre due volte, per quanto appena arrivato cesare a Lucca (settembre del 1368) venisse corteggiato dal doge pisano Giovanni dell’Agnello, il quale faceva tutti i suoi sforzi per sostenersi in signoria. Avvenne però che mentre questi era andato su un cavalcavia di legno che comunicava fra il palazzo degli Anziani e la chiesa di S. Michele in Foro , il cavalcavia rovinasse, e che il doge cadendo si rompesse una coscia. Volò a Pisa la fama che il loro signore era morto, e ciò bastò perché il popolo oppresso, a quella notizia si sollevasse contro l’Agnello, e che costrinse i suoi figli a prendere la fuga. Per tal guisa i Pisani tornarono a governarsi con gli Anziani, eleggendone sei dalla fazione de’Raspanti , e sei da quella dei Bergolini , mentre l’Imperatore stava spettatore di coteste scene in Lucca, la cui cittadella dell’Augusta tenevasi in custodia dai suoi soldati, mentre per il resto il popolo lucchese
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    continuò ad essere dominato dalle autorità pisane.
    Però al suo ritorno a Pisa, che cadde nell’ottobre del 1368, Carlo IV fu accolto con applausi, cui tenne dietro lo sborso fatto alla camera Aulica di non poche denari innanzi che Cesare proseguisse il cammino per Siena, di dove per sollevazione popolare fu costretto a fuggire. Ma nel secondo ritorno a Pisa, Carlo avendo inteso che anche costà regnava il solito malumore delle fazioni, poiché i fuorusciti gli avevano dato a credere che il malcontento era diretto contro la sua augusta persona, egli, che aveva davanti agli occhi il caso recentissimo di Siena, lasciò Pisa per passare a Lucca, dove gli Anziani mandarono ambasciatori coll’incarico di persuadere Cesare alle buone intenzioni della città di Pisa, e ciò nel tempo in cui il cardinale Guido delegato di Urbano V consigliava istantemente Carlo IV a liberare il popolo di Lucca dalla schiavitù pisana.
    Al quale intento i Lucchesi più facilmente pervennero mercé nuove generose offerte di denaro, colle quali essi finalmente sotto dì 6 aprile del 1369 ottennero da Carlo IV il privilegio che gli restituiva la libertà, per quanto dovettero restare un altr’anno sottoposti al suo vicario imperiale. – Vedere LUCCA.
    Sino al 1355 molti individui della famiglia Gambacorti, all’occasione della prima venuta a Pisa di Carlo IV, erano stati cacciati in esilio come faziosi. Ma nel 1369 i Pisani mancando qualche malcontento per essere mancanti delle risorse delle risorse che a esso forniva il loro Porto Pisano innanzi che fosse abbandonato dai Fiorentini, il governo degli Anziani che sperava nel ribandimento de’Gambacorti d’ottenere il ritorno delle merci fiorentine al loro porto, ricorse all’espediente più sicuro per vincere l’imperatore quello dell’oro, onde rimediasse al male stesso da lui fatto col richiamare, siccome richiamò, a Pisa tutti i Gambacorti, fra i quali Piero che consideravasi il capo della famiglia. Il ritorno di quest’uomo in patria fu per i Pisani un’allegrezza, per esso un trionfo, trovandosi acclamato ed
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    accolto generalmente con gran favore. Poco infatti tornò a concludersi la pace colla Signoria di Firenze. Della quale il principale e più importante articolo fu, che le merci de’Fiorentini nel territorio pisano fossero esenti da ogni sorta di dazio, o altro qualsiasi aggravio. E fu in seguito a quell’accordo che il governo della Repubblica Fiorentina dette ordine di far la prima strada carreggiabile che passa per la Golfolina lungo l’Arno per andare a Pisa.
    Ma cotesta amicizia piacque poco al signore di Milano e nemico il più pericoloso delle repubbliche di Toscana; come colui che tentava di rimettere in seggio il deposto doge di Pisa, e conseguentemente cacciar di nuovo da questa città il capo de’Bergolini con tutti i Gambacorti.
    Al qual intento una notte l’Agnello con le genti del signor di Milano si provò di dare la scalata alle mura di Pisa dalla parte orientale, ma esso con i suoi sgherri fu bravamente respinto dal popolo "dai soldati che all’uopo i Fiorentini avevano poco innanzi a Pisa inviato". – (CRON. PIS. In Script. Rer. Ital. T. XV.).
    Rimase però più stabilmente alla testa del governo e più potente di prima Piero Gambacorti, tostochè fu dichiarato capitano generale, difensore del popolo e del Comune di Pisa coll’autorità medesima ch’ebbe il conte Fazio della Gherardesca. Realmente il Gambacorti durante il suo governo fu un modello di saviezza; modestissimo per natura, era suo scopo di tenera la città contenta, il popolo unito e la nobiltà onorata, di estendere per quanto poteva il commercio de’Pisani sulle coste d’Affrica e dell’Arcipelago, d’incoraggiare l’industria con premi ed onori, oltre fondare monasteri, abbellire la città di grandiosi palazzi riedificando di nuovo il Ponte vecchio . Inoltre devesi al Gambacorti il progetto di una federazione fra i principi e le Repubbliche, quasi modello di quella che si è vista con più successo riprodotta alla nostra età. Avvegnachè lo scopo mirava ad un fine lodevolissimo, com’era
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    l’espulsione dall’Italia delle compagnie o masnade forestiere, per assicurare non solo libertà del commercio terrestre, ma anche la pace fra ipopoli e le potenze collegate. In un secondo luogo tutte le controversie che potevano insorgere fra le potenze comprese nella federazione dovevano definirsi, non più dalla ragione dell’armi, ma da mature deliberazioni emesse dai delegati dei governi facienti parte della giurata alleanza.
    Se cotest’atto solenne concluso in Pisa nel dì 9 ottobre del 1388 ( stile comune ), ebbe troppo breve durata, se ne deve attribuir la colpa alla malafede ed alla smisurata ambizione del più potente fra i collegati a Giovanni Galeazzo nuovo signor di Milano, il quale cercando a illaquenare quanti più popoli e città egli poteva, mal sopportava chi i Fiorentini, spina dei Visconti la più pungente e dolorosa, servissero di appoggio costante al Gambacorti signor di Pisa. Infatti non istette guari ad appagarsi il maligno dispetto che Giovanni Galeazzo sentiva nell’animo, allora quando un vecchio ambiziosissimo, un ingrato e infedele segretario di Piero Gambacorti, quello stesso Jacopo di Appiano che più volte aveva rivelato al Visconti predetto importantissimi segreti dello stato, colui servì di molla la più potente al Conte di virtù Giovan Galeazzo per togliere di seggio e di vita il Gambacorti. Lo che si eseguiva dall’Appiano nel mentre egli presentava la destra al suo signore, come segno di fedeltà, imitando l’Apostolo traditore col bacio dato al divino maestro, per essere quello il segnale ai suoi sgherri, affinché tosto il Gambacorti trucidassero (anno 1392 di luglio), onde poi l’Appiano, assistito dalle genti del signore di Milano suo protettore, a viva forza del governo di Pisa s’impadronisse.
    Sennonché un grido d’infamia si levò in Italia contro l’assassino del Gambacorti, la di cui aurea bontà non che la generosità con la quale aveva elevato ed innalzato quel servo d’Iacopo serviva di un grande contrapposto all’atroce ingratitudine di lui per eccitare l’orrore universale, talché perfino le muse di quel tempo non mancarono di
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    esecrare la crudel perfidia. – (PIGNOTTI, Stor. di Toscana Lib. IV. Cap. 7).
    Fattosi l’Appiano signore di Pisa proscrisse tosto le famiglie aderenti ai Gambacorti, ruppe la pace con Firenze e con Lucca, mentre il Conte di Virtù, Giovan Galeazzo Visconti, colui che se non vinceva i nemici colle armi li vinceva quasi sempre coll’artifizio, mirava all’acquisto assoluto di Pisa con la mira di vincere e conquistare la Repubblica Fiorentina portandole la guerra in casa. Dondechè più tardi sotto pretesto di congedare dal suo servigio alcune compagnie di masnade, queste nel 1397 si avviarono verso Pisa, e con intelligenza dell’Appiano introdussero in città una mandata di 300 soldati a cavallo che unironsi alle truppe milanesi già innanzi introdottevi sotto apparenza di ausiliarie del nuovo signor di Pisa. Nell’anno 1398 essendo mancato di vita il vecchio Iacopo di Appiano, succedette pacificamente nel governo il suo figlio Gherardo stato riconosciuto vivente il padre dai Pisani e dalle milizie in capitano generale di quel Comune. Era ben lontano Gherardo dal possedere l’astuta accortezza del genitore, né il coraggio e il valore di un suo fratello, persuaso dal duca milanese Giovan Galeazzo della somma difficoltà di conservare il dominio di Pisa, da quel codardo che egli era, prese la vituperevole risoluzione di vendere la patria per 200,000 fiorini d’oro allo stesso duca di Milano riservandosi il dominio di Piombino e di altre castella di quei contorni non che delle Isole d’Elba, Pianosa e Montecristo. – Al vociferarsi di una vendita cotanto vergognosa, prima i Pisani, poscia i Fiorentini, tentarono di rimuovere Gherardo Appiano da simile divisamento, consigliandolo invece a rendere la libertà alla sua patria; per la quale opera i Fiorentini esibivano all’Appiano un prezzo eguale e forse anche maggiore di quello statogli offerto dal duca di Milano. Al quale generoso consiglio rispose Gherardo di non essere più in tempo a revocare la sua parola, tanto più che le genti armate di Giovan Galeazzo, a tal uopo introdotte
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    in Pisa, erano capaci a impedirlo. In conseguenza di ciò l’iniquissimo contratto della vendita e della schiavitù di Pisa e suo contado fu consumato nel febbrajo del 1399.
    Da ciò pertanto ne conseguì che una repubblica potente, una città a Firenze rivale, si rendesse ligia al più potente e pericoloso de’Fiorentini.
    Infatti appena eseguito cotal mercato, arrivarono a Pisa mille soldati a cavallo con duemila fanti, cui teneva dietro il governatore inviato dal duca di Milano per occuparsi prima di tutto del modo di rimborsare al più presto il suo padrone della somma obbligata dall’Appiano. Così tristamente terminò il secolo XIV per i Pisani, i quali anche con più tristi augurj videro incominciare il secolo XV.
    Dopo mancato di vita (anno 1402) Giovan Galeazzo duca di Milano, cui non facea ribrezzo verun delitto, purché risultasse in suo vantaggio, Pisa col suo contado fu lasciata in eredità d’un di lui figliuolo naturale, Gabbriello Maria Visconti, il quale colla madre recossi tosto a prenderne il possesso per avere dai sudditi novelli oro e non amore.
    A cagione delle vessazioni, che sino dai primi tempi del suo governo si fecero ai Pisani dal tiranno Visconti, il malcontento de’sudditi era giunto presso che al colmo, quando i Fiorentini entrarono in speranza di cacciare da Pisa Gabbriello Maria coi suoi. Infatti non corse molto che questi con genti armate per sorpresa assalirono di notte quella città (anno 1404). Che sebbene il tentativo non riuscisse, pure non mancò d’ingelosire il governo di Genova non più rivale degli oppressi Pisani, sivvero de’Fiorentini, coi quali nei tempi trascorsi erasi unito a danno della Repubblica di Pisa. Quindi è che i Genovesi dopo aver persuaso Gabbriello Maria a mettersi sotto la protezione del re di Francia, cui erano anch’essi raccomandati; dopo aver fatto consegnare alle truppe del maresciallo francese alcune fortezze, e specialmente quelle di Livorno, il governo medesimo di Genova, cambiando improvvisamente politica, visitò offrire la città e territorio di Pisa ai
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    Fiorentini nella speranza di averli alleati contro i Veneziani, e ciò nel tempo stesso che dall’altro canto persuadeva il signor di Pisa di vendere ai Fiorentini cotesta città col suo territorio per liberarsi in tal guisa da moltissimi imbarazzi che gli si facevano conoscere qualora egli pretendesse di conservare cotesto stato in mezzo a tanti nemici.
    Tali trattative però non furono segrete a segno che non si trapelassero dai Pisani; nei quali essendosi risvegliato l’odio antico contro i Fiorentini, cui si volevano dare in mano, tosto si ribellarono al Visconti, il quale dopo un conflitto fra il popolo e la guarnigione (21 luglio 1405) fu costretto a refugiarsi nella cittadella vecchia sul ponte a mare, quindi per Arno fuggirsene in Lunigiana. Giunto a Sarzana fu conchiuso il contratto, in vigore del quale Gabbriello Maria, mediante l’imborso di 206.000 fiorini d’oro, pagabili a rate, doveva consegnare ai Fiorentini la cittadella vecchia di Pisa con le fortezze di Ripafratta e di S. Maria in Castello. Avute in potere coteste rocche, i Fiorentini reputarono agevol cosa impadronirsi della città di Pisa; ma nel tempo che il governo di Firenze dava le disposizioni opportune per ottenerne l’effetto, ecco giungere al senato la notizia, che la cittadella vecchia di Pisa per vigliaccheria dei soldati della guarnigione era stata assalita e presa dal popolo.
    Al che si aggiunse un orgogliosa ambasciata de’Pisani, per la quale si richiedeva ai Fiorentini la restituzione dei fortilizj di Ripafratta e di S. Maria in Castello, esibendo il rimborso del prezzo che avevano pagato. La perdita fatta della cittadella unita allo scherno suddetto irritò più che mai i reggitori della repubblica fiorentina perché deliberassero concordemente di fare la conquista di Pisa. Si nominarono a tal uopo i Dieci di Balia per la guerra, si assoldò un valente capitano per l’armata di terra ed un rinomato ammiraglio per chiudere con una flottiglia il Porto Pisano. Dal canto loro i Pisani fecero i maggiori sforzi per assoldare gente d’armi
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    e provvedere la città di vettovaglie; richiamarono dall’esilio Giovanni Gambacorti figlio di Gherardo e nipote del bravo Piero, che nominarono capitano del popolo; procurando così pacificare gli animi dei cittadini divisi in fazioni, in guisa che le famiglie de’ Bergolini come quelle de’Raspanti giuraronsi amicizia con le più sacrosante promesse di unirsi insieme a difesa della patria. Prova la più solenne di quanto possa l’odio di una popolazione, allorché da una sua vicina stimasi soperchiata!
    Frattanto essendo tornati a Firenze gli ambasciatori spediti dal governo al re di Francia, e sentito che non si voleva da quel monarca, né ricevere né proteggere i Pisani, cresceva sempre più fiducia nei Fiorentini di aver presto a sottomettere Pisa. E dopo aver richiesto l’ajuto de’Sanesi, del legato di Bologna, del conte Malatesta, e dell’Orsini conte di Sovana, i quali tutti inviarono a Firenze delle genti armate, che marciarono verso Pisa sotto il comando generale di Bertoldo Orsini.
    Per le quali cose, e per altre anche più violente misure, non rimanendo ai Pisani quasi più speranza di salute fuorché nella difesa, dettero ordine che fosse fornita di vettovaglie la città col far provvista di grano dalla Sicilia in maggior copia del consueto, e col praticare ogni diligenza possibile in assoldar genti atte alla difesa, essendo nel resto la città stimata per sé stessa fortissima, e il popolo deciso a non volere la signoria de’Fiorentini.
    Erano le concitazioni fra i due popoli al massimo grado pervenute, allorché giungessero dalla Sicilia in bocca d’Arno cinque navi cariche di grano. Ma le sette galere pisane che le scortavano, assalite da una squadra di legni genovesi e catalani al soldo de’Fiorentini, furono poi da un vento procelloso gettate verso il golfo della Spezia, mentre le cinque navi di granaglie rompevano negli scogli della Meloria. Non fu dai fiorentini trascurata alcuna diligenza per vincere il nemico, guardando Arno di sotto e di sopra Pisa, onde impedire che arrivasse alla città
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    bloccata qualsiasi soccorso, nel tempo stesso che altre milizie mobili scorrevano per il contado pisano a impadronirsi dei castelli.
    Frattanto i Dieci di Balia avendo conosciuto che per insignorirsi di Pisa era necessaria chiudere la città per la via del fiume, inviarono al campo (marzo 1406) due de’ loro colleghi Maso degli Albizzi e Gino Capponi, i quali deliberarono che il grosso dell’esercito si accampasse a S. Piero in Grado.
    Stavano nel campo de’Fiorentini sotto Pisa due arditi e valorosio generali, Muzio attendolo detto Sforza, ed il Tartaglia, nel tempo che si costruivano sulle ripe dell’Arno due bastie con un ponte di legno, il quale doveva attraversare il fiume. Ma i Pisani profittando di una piena che accadde nel marzo di quell’anno medesimo, mandarono a seconda della corrente varie grosse travi, le quali col loro urto ruppero il ponte, sicché la bastia della ripa destra del fiume restò separata dall’esercito senza gente che la difendesse. Allora l’Attendolo ed il Tartaglia coraggiosamente passarono l’Arno con pochi uomini scelti, al cui valore riescì di conservare l’isolata incompleta bastia.
    Non per questo la Signoria di Firenze mostravasi soddisfatta che l’assedio di Pisa convertito in blocco procedesse cotanto lentamente, comecchè per la strettezza delle vettovaglie avesse cagione di sperare che i Pisani non fossero per fare lunga resistenza. Che però richiamò dal campo Maso degli Albizzi e Gino Capponi, e vi mandò per nuovi commissarii Vieri Guadagni e Jacopo Gianfigliazzi. Costoro bramando mostrarsi più attivi dei loro predecessori, incoraggiando le truppe con tutte le possibili allettative, ordinarono un assalto alla città.
    I soldati, benché non l’intendessero a questo modo, essendo la città forte di mura e il popolo unito a difenderla infino alla morte, nondimeno stimolati da tante generose promesse, accettarono l’invito; e la notte che seguiva il giorno 9 di giugno (1406) in sul primo sonno si accostarono alla città dalla parte meridionale nel quartiere di Chinsica per dar l’assalto al bastione di Stampace ,
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    fra le mura di S. Egidio e la porta a Mare. Al primo segnale delle sentinelle accorsero da ogni parte su quelle mura i Pisani, uomini e donne, e nel cimento che ne conseguì gli assalitori furono con tal impeto e coraggio dal bastione respinti da far comprendere quanta rabbia e dispetto i Pisani contro i Fiorentini conservassero.
    Vista da questi la difficoltà di aver Pisa per assalto, i Dieci comandarono che si seguitasse a stringerla per assedio, e tosto rimandarono al campo il commissario Gino Capponi, quello che fin dal principio della guerra aveva dimostrato maggiore intelligenza e vigore. Una delle prime cure del Capponi fu di riappacificare due valenti capitani dell’esercito, Muzio Attendolo Sforza ed il Tartaglia, persuadendo lo Sforza ad accamparsi con le sue squadre dalla parte opposta dell’Arno sopra Pisa, donde poteva danneggiare grandemente le raccolte, e in ogni occasione ricevere soccorso dal quartiere generale di Vico Pisano, mentre il rimanente dell’esercito per stringere meglio la città si era postato nel lato sinistro dell’Arno dirimpetto a Culignola, 3 miglia toscane a un circa sopra Pisa.
    Che sebbene la stagione estiva del 1406 avesse reso insalubri e guaste le campagne de’contorni di Pisa, non fu peraltro rallentato l’assedio, per modo che dentro la città cresceva ogni giorno la fame.
    Nel tempo che gli assediati, privi di speranza di ogn’estero soccorso, soffrivano con grande esasperazione ogni sorta di privazioni della vita piuttosto che assoggettarsi a’ nemici da tanto tempo odiati, pure Giovanni Gambacorti, vedendo la mancanza assoluta dei viveri da sostenere più a lungo la città, insinuava ai suoi la necessità di capitolare cogli assedianti. Frattanto per mezzo di un cittadino pisano, Bindo delle Brache, Giovanni Gambacorti aprì trattative segrete col commissario Capponi, comecchè le condizioni principali si riferissero a vantaggio del capitano e signore di Pisa e della sua famiglia. Infatti la segretezza con cui cotesta capitolazione fu maneggiata, l’essere stati i Gambacorti sempre amici dei Fiorentini, ed il premio di 50,000
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    fiorini d’oro che ricevette dal Comune di Firenze il mezzano Bindo delle Brache, diedero motivo di accrescere il sospetto a carico del capitano generale del popolo pisano, come se egli fosse un traditore della patria, Ratificate le condizioni dalla Signoria di Firenze, e consegnati gli ostaggi, la mattina del 9 ottobre 1406 i Pisani dovettero trangugiare il calice della schiavitù. Gino Capponi, uno dei Dieci che ebbe la parte più importante in cotesto acquisto, nel prender possesso di Pisa spiegò vigilanza, risolutezza e vigore, minacciando di far impiccare ognuno che ardisse rubare. Infatti egli stesso lasciò scritto, che i soldati entrarono in Pisa con tanta modestia e disciplina, come se eglino avessero avuto a comparire ad una rivista nella città propria. – – (G. CAPPONI Comment. )
    Essendochè il cadere sotto il dominio dei Fiorentini parve ai Pisani cosa molto grave, per quanto nel giro di pochi anni eglino fossero stati tiranneggiati dall’Agnello, dall’Appiano e da Gabbriello Maria Visconti, non saprei dire quanto gli uomini imparziali fossero per lodare cotanta insistenza nei Fiorentini per voler soggiogare un popolo che amava la sua indipendenza. – – Fatto è che i Pisani erano a cotal segno da cruda fame estenuati da non sentire forse a prima vista il peso della loro schiavitù, quando videro che l’ingresso delle truppe nemiche veniva accompagnato da carri di vettovaglie e da pane in tanta dovizia da poter ristorare i loro corpi smunti ed afflitti.

    5. PISA SOTTO IL GOVERNO DI FIRENZE SINO AI GIORNI NOSTRI

    La conquista di un’insigne città dopo una lotta coraggiosa, e per i soccombenti degna di miglior sorte, se da un lato fu dannosa alla dignità e all’amor patrio de’Pisani, altrettanto rallegrò e fu festeggiato con pompe sacre e profane dai Fiorentini, persuasi di non aver fatto maggiore acquisto eglino che nel commercio fondavano la loro potenza. Ed in vero, se le ricchezze dei Fiorentini non erano state mai tanto copiose quanto
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    all’epoca della conquista di Pisa, se la Signoria di Firenze dopo la compra di Livorno (anno 1421) procurò di diventare una potenza marittima; se a tale scopo essa destinò Pisa a residenza di un general di galere e del magistrato de’consoli di mare, i Fiorentini però non poterono mai giungere a mettere insieme tanti legni da guerra e tanta gente da montarli per vincere, o almeno per stare a fronte delle due superstiti repubbliche marittime dell’Italia. – Vedere LIVORNO.
    È altresì vero che la conquista di Pisa aumentò immensamente la riputazione politica della Repubblica fiorentina, fino da quando con la sua mediazione procurò di togliere uno scisma nella chiesa tentando di pacificare, sebbene con poco successo, due antipapi in un concilio aperto nel 1408 nella città di Pisa.
    Ma la guerra nella quale innanzi tutto a cagione di Lucca s’impegnarono i Fiorentini, dové far montare in qualche speranza il popolo pisano di liberarsi dall’odiato giogo. Infatti appena si seppe a Firenze che Niccolò Piccinino nella primavera del 1431 era giunto di Lombardia in Lunigiana con numerosi armati, e che di là penetrato nelle vicinanze di Pisa erasi in pochi giorni impadronito della bastia di Nodica in Val di Serchio, della rocca della Verruca e de’castelli di Calci e di S. Maria al Trebbio nel Monte Pisano, i reggitori della Repubblica Fiorentina ebbero ragione di temere che la città di Pisa cadesse nelle mani del loro nemico, tanto più che l’aspra maniera con cui il suo popolo era tenuto dal governo, ne forniva sufficiente ragione.
    Fondati i Dieci di Balìa nella politica trista, ma pur troppo vera, che nemico naturale di rado è fedele, e venuti in cognizione di una congiura che maneggiavasi dai Pisani per dare la città in mano al Piccinino, furono progettati dei provvedimenti crudeli anziché onesti. Tale sarebbe quello raccontato dal Poggio nella sua istoria fiorentina (Lib. VI.), di chiamare a Firenze quasi tutta la nobiltà pisana. Tale
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    l’ordine anche più grave da frate Andrea Billi milanese e da Pietro Giustiniano veneto nelle loro memorie storiche raccontato, dove dal Giustiniano si cita un ferocissimo editto del governo di Firenze, in cui si comandava che, innanzi di finir di consumare una candela accesa, tutti i cittadini dai 15 ai 60 anni dovessero partire da Pisa; editto reso anco più incredibile dal frate milanese, poiché senza verecondia al santo ministero faceva complice ed esecutore di cotanto orrendo comando il fiorentino Giuliano de’Ricci, allora arcivescovo di Pisa, che finse qual furibondo andare per le strade, entrare nelle domestiche abitazioni e strappare senza misericordia i figli di braccio alle madri, i fratelli dalle sorelle, col dire loro le più ingiuriose parole: abi proditor Pisanae !!!
    Comecché qualcuno prestasse fede al caliginoso racconto di un uomo, che non solo azzardava scrivere male di un arcivescovo illustre e pio, ma anche con poco rispetto di un Bernardino da Siena, insigne per santità, con tuttociò non si potrebbe negare che a quell’epoca i Fiorentini non andassero esenti da una tal quale amarezza ed odio verso i Pisani. Che ciò sia vero, lo dice per tutti una lettera, resa ormai troppo pubblica dalla celebrità di un romanzo istorico (Luisa Strozzi), dove al capitolo XXVI, intitolato Pisa , l’autore discorrendo della situazione di questa città al secolo XV annunzia cosa incredibile come quella che i Fiorentini davano ai loro commissarj segrete istruzioni tendenti a rendere sempre più inferma e desolata la città e campagna di Pisa. E per chi ne dubitasse, ivi si riporta in nota un infame periodo di lettera scritta da Firenze dai Dieci di Balìa, nel di 24 gennajo 1431 (stile fiorentino).
    Io dubitando, come ognuno dubiterebbe, di tanta malignità apertamente da quel magistrato di guerra dichiarata, volli convincermene ricercando nell’archivio delle Riformagioni di Firenze la filza III de’Dieci di Balìa nel detto romanzo citata. Che sé la lettera non è in data del 24, sivvero
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    del 14 gennajo 1431, né in quella filza e neanche nel citato archivio, trovasi però in quello segreto Mediceo unita al carteggio dell’anno 1431 al 1432 di Averardo de’Medici allora commissario in Pisa.
    I Dieci di Balìa, i di cui nomi si possono leggere nella storia dell’Ammirato, dopo aver in detta lettera discorso sopra affari relativi alla guerra di Lucca, fra i quali uno era quello di procurare ad ogni modo di riconquistare e di fare atterrare il castel lucchese di Ruoti verso Compito, termina con le parole seguenti:
    “Qui si tiene per tutti che il principale e più vivo modo che dar si possa alla sicurtà di cotesta città sia di votarla di cittadini pisani; e noi n’abbiamo tante volte scritto costà al capitano del popolo, che ne siamo stanchi; et rispondeci ora l’ultimo, essere impedito dalla gente dell’arme e non avere il favore del capitano ( loro ). Vogliamo che ne sia con lui ed intenda bene ogni cosa, et diale modo con usare ogni crudeltà ed ogni asprezza . Abbiamo fede in te, et confortianti a darvi esecuzione prestissima, che cosa più grata a tutto questo popolo non si potrebbe fare. Data Florentiae die 14 Januarii, hora XV .”
    Chi fosse poi quel capitano delle genti d’armi che contrariava gli ordini dei Dieci ricusando condiscendere ai barbari suggerimenti di quel magistrato sanguinario, ce lo diede a conoscere l’Ammirato nella sua storia fiorentina, quando al Lib. XX dice, che il Cutignola, uno de’comandanti pei Fiorentini alla guerra di Lucca, nell’ultimo gonfalonierato di quell’anno (gennajo e febbrajo 1431 stile fiorentino) si ridusse con le sue genti d’arme alle stanze a Pisa; nel qual tempo passarono quietamente le cose.
    Ma la tremenda istruzione inculcata dai Dieci al commissario di Pisa dové rimanersi senza effetto, sia perché gli annalisti pisani non ne fecero menzione veruna, sia perché altre lettere, dopo quella del 14 gennajo 1431, scritte dai Dieci di Balìa al
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    commissario Averardo de’Medici, non dicono più parola rispetto a provvedimenti presi o da prendersi contro i Pisani ( loc. cit. ); sia finalmente perché uno storico fiorentino degno di fede e contemporaneo, quale si fu Domenico Boninsegni, ne avvisava, che intorno a quel medesimo tempo giunsono in Porto Pisano, per ordine dato ai mercanti dal Comune di Firenze, tre navi cariche di grano e orzo (1700 moggia) con altre vettovaglie, lo che fu mantenimento di Pisa in quel tempo di carestia; e parve che tutto il paese ne risorgesse. – (D. BONINSEGNI, Stor. fior. all’ann. 1432. )
    Che nei primi anni della conquista fatta di un popolo con grandissime spese ed ostacoli, se questo cade in sospetto di tenere qualche aderenza al nemico, non sia per essere dai vincitori tiranneggiato ed oppresso, né io né altri lo negherà, poiché di simili casi la storia di tutti i secoli e di tutti i paesi fornisce anche alla nostra età tristi esempj; ma dopo assicurata alla repubblica fiorentina la conquista di Pisa, e specialmente dopo terminata la guerra di Lucca (1439), che si continuassero a mandare da Firenze ai governatori di Pisa istruzioni contrarie al pubblico ben essere ed alla salubrità dell’aria, questo è ciò che a me non sembra dimostrato.
    Né tampoco direi che dasse a consimili accuse un certo appiglio il preambolo di una provvisione dell’aprile 1475, quando la Signoria di Firenze affidò al magistrato dei consoli di mare la cura de’fossi, canali, ponti e strade di Pisa e della sua troppo uliginosa campagna, tosto che in quella provvisione vi si trova l’ordine di scegliere persone del paese come più capaci di conoscerne i bisogni e di suggerire i rimedj più opportuni.
    All’Articolo COMUNITA’ DI PISA qui appresso si troveranno prove indubitate dello stato palustre di Pisa e de’ suoi contorni nei secoli XII, XIII e XIV per le cause medesime dei ristagnamenti d’acque. Arroge che non mancano documenti atti a
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    dimostrare, che innanzi la riformagione del 1475 il governo di Firenze cercò di porre qualche riparo a cotesti difetti del suolo. Fra le varie provvisioni dalla Signoria deliberante a sollievo de’Pisani citerò quella del 23 dicembre 1419, che esentava da ogni imposta reale e personale tutti i forestieri (eccettuati i Fiorentini) insieme alle loro merci per 20 anni purché si recassero ad abitare familiarmente in Pisa. – (PAGNINI, della Decima Tom. IV. Pag. 45.)
    Tali sono i decreti della repubblica fiorentina che ordinavano di restaurare e aver cura del Bagno di Monte Pisano e di quello a Acqua (23 agosto 1454, e 31 marzo 1460); tale la provvisione del 31 marzo 1463, che assegnava 800 fiorini per ripulire la bocca d’Arno, altre per costruire la cittadella nuova e rassettare la vecchia con le sue torri. Tali furono gli ordini del 29 giugno 1468, e 16 febbrajo 1471 per fabbricare la cittadella nuova, l’arsenale (tersana) onde mettervi delle galere allora fatte, o in costruzione, ecc. – (GAYE, Carteggio inedito d’Artisti , Volume I Appendice II.)
    Vero è che dopo poco la pace di molti anni succeduta a una lunga guerra per causa di Lucca, il commercio e le ricchezze dei Fiorentini si accrebbero in ogni parte d’Europa, nelle coste d’Affrica e dell’Asia, con tale e tanto profitto che, al dire del Pignotti, tolta Venezia, nel secolo XV Firenze si riguardava la più ricca città d’Italia, dove circolavano non meno di due milioni di fiorini d’oro, ossia di gigliati, in denaro contante.
    Che se il governo della Repubblica Fiorentina fece in quel secolo troppo poco a benefizio della città di Pisa e de’ suoi abitanti, trascurando specialmente il nettamento ed iscavazione de’fossi e canali, acciocché non peggiorasse la campagna insieme con l’aria, è altresì vero che lo scolo dell’acque, il bonificamento de’paduli, il tenere asciutte il più possibile quelle campagne, a giudizio di molti e fra questi il celebre Antonio Cocchi,
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    non potrebbe produrre il desiderato effetto del miglioramento dell’aria se non dopo il corso di molti anni . E quantunque lo storico Flavio Blondo scrivesse: che Pisa 40 anni dopo la sua schiavitù e sottomissione ai Fiorentini era ridotta spopolata, ed esinanita di ogni sorta di lavori e di risorse, con tuttociò non devesi passare sotto silenzio un fatto giornaliero che succede tuttora in Pisa ad onta della somma sorveglianza ed abilità degl’ingegneri, e di tante spese fatte intorno alle sue mura settentrionali, sia con l’approfondare i fossi, sia col rialzare i campi contigui, sia col fabbricare pozzi e cisterne, perché vediamo e meglio di noi lo veggono i Pisani, che non solo le acque piovane, ma le infiltrazioni di quelle perenni, penetrano e scorrono pochi palmi sotto la superficie del suolo, in guisa da formare il tormento degli idraulici anco ne’luoghi che son bassi e meno depressi della città.
    Non si può altronde senza mancare alla verità omettere un altro fatto, quello cioè che i beni dei ribelli della città e contado pisano nel secolo XV servivano, anziché a lavori idraulici necessarissimi per Pisa e i suoi dintorni, a pagare le spese delle fortificazioni ivi ordinate. Lo che risulta da alcune provvisioni della Signoria di Firenze del 1430 e del 1444, con le quali si dava ordine agli uffiziali della città e territorio pisano di far costruire due fortezze, una alla Porta del Parlascio di Pisa , e l’altra nel castel di Vico Pisano . – Ciò non ostante venne più tardi a mitigare cotanta asprezza un’altra deliberazione governativa dell’anno dell’anno 1472, con la quale si procurò ristabilire in Pisa il ginnasio nell’antico suo splendore, allorché la Signoria nominò quattro uffiziali dello studio fiorentino e pisano, preseduti dal promotore di sì utile misura, da Lorenzo de’Medici detto il Magnifico . Fu allora che a tal fine assegnaronsi sul tesoro della Repubblica l’annua somma di 6000 fiorini; fu allora che
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    la Signoria di Firenze impetrò ed ottenne dal Pontefice Sisto IV mediante bolla data lì 12 gennajo del 1475, la concessione di altri 5000 ducati d’oro a carico dei benefizii ecclesiastici del dominio fiorentino; e tuttociò ad oggetto di supplire a più decorosi stipendj da darsi ai professori che da varie parti d’Italia si conducevano allo studio pisano. – Che il governo di Firenze per tal via cercasse di giovare e di popolare di gente onorata la città di Pisa, lo dicono abbastanza lì statuti dagli uffiziali dello studio nel 1478 pubblicati, coi quali si prescriveva a tutti coloro che volessero adire ad impieghi pubblici nel dominio fiorentino, a quelli che bramassero laurearsi in dottori per esercitare la medicina, o trattar le cause nel foro, e ad altri nazionali l’obbligo di recarsi all’università di Pisa sotto pena di fiorini 500 per coloro che andassero a studio fuori di Stato. Finalmente lo dice il palazzo della Sapienza che sino da quel tempo d’ordine della Signoria di Firenze si edificava in Pisa, affinché si potessero riunire in uno solo, apposito e decente locale le scuole di tutte le facoltà. – (FABRONI, in vita Laurent. et in Histor. Accad. Pis. P. II.)
    Anco nell’archivio diplomatico di Firenze esistono varj istrumenti di quell’epoca proprj a far meglio conoscere le premure del governo fiorentino nel provvedere di buoni soggetti lo studio pisano.
    Tale è un contratto del 19 maggio 1477 fatto in Pavia, col quale il procuratore degli uffiziali dello studio di Firenze e di Pisa stabilì le condizioni per condurre all’università pisana maestro Lazzero del fu Francesco Dataro di Piacenza dottore di medicina, che allora leggeva nello studio di Pavia, con l’assegno di 500 fiorini d’oro l’anno e coll’ esentare da qualunque gabella gli oggetti di uso proprio. Tale è un altro contratto concluso dal procuratore stesso il 24 maggio 1477 nella città di Casale in Piemonte per condurre a leggere il giuscanonico nello studio di
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    Pisa col salario di fiorini 400 d’oro l’anno il dottor Giorgio del fu nobil Arrighetto Nati da Asti. Altra simile misura fu presa dai riformatori dello studio nel giorno 14 maggio del 1480, per chiamare a Pisa in lettore di medicina maestro Girolamo della Torre di Verona, che allora professava nell’università di Padova. Né meno degli altri importante mi sembra un mandato di procura scritto in Roma lì 8 maggio del 1482 a nome del celebre medico maestro Pier Leoni figlio di Leonardo da Spoleto, (quello che poi ebbe la sventura di medicare nell’ultima malattia Lorenzo de’Medici). La qual procura fu inviata a Firenze a Tommaso Soderini, affinché in nome dello stesso Pier Leoni concludesse con gli uffiziali dello studio i patti per una cattedra di medicina nell’università di Pisa. Finalmente rammenterò un altro istrumento del 9 luglio 1490, col quale i riformatori dello studio predetto nell’atto che Giovanni da Milosen in Francia prendeva la laurea dottorale in Pisa fu nominato lettore di giuscivile pei giorni festivi all’università pisana. – (ARCH. DIPL. FIOR. Carte dell’Arch. Gen. di Firenze. )
    In questo mezzo tempo però i Fiorentini non tralasciavano di prendere misure di difesa nella città di Pisa, tostochè ordinarono la costruzione della cittadella nuova. Alla quale fortezza appellano varie provvisioni della Signoria: una fra le altre del 29 giugno 1468 che assegnava 1500 fiorini d’oro per l’erezione di detta opera, mentre con provvisione del 16 febbrajo 1471 ( stile fior. ) que’Signori eleggevano in capomaestro della cittadella nuova predetta maestro Lorenzo di maestro Domenico fiorentino. – (GAYE, Carteggio di Artisti inedito, Volume I. Appendice II )
    Le quali misure dovettero vieppiù dal governo sollecitarsi dopo scoppiata la congiura de’Pazzi, nella quale malamente figurò un Francesco Salviati fiorentino allora arcivescovo di Pisa (anno 1478).
    Contuttociò le cose passarono quiete per fino a che non scese in Toscana alla testa di un numeroso esercito francese (anno 1494) il re Carlo VIII. Allora Piero de’Medici,
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    di natura affatto diversa da quella di Lorenzo suo padre, partorì la rovina di sé, de’suoi e di Pisa. Imperocchè, spaventato dal pericolo che poco innanzi aveva temerariamente disprezzato, consentì di suo mero arbitrio a fare consegnare nelle mani de’capitani del re francese le fortezze di Sarzana e Sarzanello, di Pietrasanta e Motrone, di Pisa e di Livorno, le quali Carlo VIII si era obbligato per iscritto di restituire ai Fiorentini dopo la conquista del regno di Napoli.
    In questo modo per la temerità e l’imprudenza di un cittadino la Repubblica di Firenze restò priva degli antemurali del suo dominio; ed i Pisani stanchi e indispettiti di soggiacere ad un governo che li teneva in durissima schiavitù, animati anche segretamente da Lodovico il Moro signor di Milano, sollecitati e pressoché inebriati dal piacere di vedersi in mezzo a soldatesca straniera nemica de’Fiorentini, i Pisani, io diceva, ricorsero popolarmente a Carlo VIII per essere rimessi in libertà, querelandosi gravemente del barbaro modo con cui dai Fiorentini erano governati. – – Uno storico fra i più distinti, quale si era Francesco Guicciardini, discorrendo del ricorso che i Pisani ebbero a Carlo VIII, dice, che nel racconto delle ingiurie ricevute dai Fiorentini, il loro asserto veniva confermato da alcuni cortigiani di quel monarca, sicché il re disse di esser contento che i Pisani ritornassero liberi. Alla qual risposta il popolo di Pisa, dato piglio alle armi, tosto abbatté dai luoghi pubblici l’insegne de’Fiorentini, rivendicandosi a libertà, non ostante che quel re contrario a sé medesimo, o ignorando quali gravi cose concedesse, mentre da una parte dichiarava i Pisani liberi consegnando loro la città della vecchia, dall’altro lato ordinava che restassero in Pisa gli uffiziali de’ Fiorentini, ritenendo per sé la cittadella nuova. E qui lo storico prenominato a ragione rimproverava l’imprudenza del governo di Firenze, il quale avrebbe potuto facilmente impedire le cose testé raccontate; tostochè i Fiorentini sospettosissimi in ogni tempo della fede dei Pisani, eglino che si
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    aspettavano addosso una guerra di tanto pericolo, non chiamarono a casa loro per ritenerli in ostaggio i cittadini principali di Pisa.
    Ma è medesimamente manifesto, come la notte innanzi che i Pisani si sollevassero contro il governo di Firenze, alcuni dei caporioni della città comunicando al cardinale di S. Pietro in Vincola (poi Papa Giulio II) quello che avevano nell’animo di fare, egli rispondesse loro con gravi parole, dicendo; che considerassero bene essere desiderabile e preziosa cosa la libertà, e tale da meritare di sottomettersi ad ogni pericolo, quando almeno in qualche parte s’ ha speranza verisimile di sostenerla; ma che eglino riguardassero più addentro le conseguenze che cotesta misura in processo di tempo poteva partorire, essendo fallace consiglio il lusingarsi che un re di Francia volesse conservar loro la promessa libertà, perché dai casi accaduti per i tempi passati si poteva facilmente giudicare del futuro, ed esser grande imprudenza l’imprendere a sostenere per speranza incertissime una guerra certa con inimici tanto più potenti di loro, e tanto a Pisa vicini com’erano i Fiorentini, i quali a parer di lui finché avessero spirito non cesserebbero mai di molestarli. – Tali furono le quasi profetiche parole che lo storico Francesco Guicciardini pose in bocca del Cardinale Giuliano della Rovere rispetto alla libertà richiesta e voluta dai Pisani.
    In mezzo a tanta confusione di poteri Carlo VIII col grosso del suo esercito lasciò la città di Pisa avviandosi a Firenze irresoluto circa la forma di governo da darsi a quella popolazione.
    Troppo lungo sarebbe il dire le particolarità che accompagnarono il doloroso periodo della libertà rivendicata dai Pisani, i quali pur troppo si trovarono nel caso previsto del cardinale di S. Pietro in Vincola, talché un eloquente scrittore de’nostri tempi ebbe a proferire una solenne verità: non esservi cioè condizione più deplorabile di quei popoli che liberi una volta caddero sotto la dominazione di una repubblica: peggio poi, se tollerar non potendone il giogo, lo scossero, e che
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    sono costretti a tornarvi colla violenza.
    Reduce il re Carlo dell’impresa di Napoli (anno 1495), innanzi di valicare l’Appennino di Pontremoli, fu pressato dai Fiorentini a dare esecuzione all’obbligo contratto di riconsegnare le fortezze di Sarzana, di Pietrasanta, e di Livorno, ma in special modo premeva loro la restituzione di quelle di Pisa; mentre all’opposto i Pisani scongiuravano quel monarca a voler mantenere la sua parola per non farli ritornare sotto i loro abominati nemici.
    Quindi senza nulla decidere Carlo VIII invitò i sindaci della Repubblica Fiorentina a recarsi ad Asti, e là finalmente il re di Francia consegnò loro il decreto della restituzione delle due cittadelle di Pisa previo un aumento di sussidj da pagarsi alle sue truppe dal governo di Firenze.
    Ma ad onta degli ordini regj ricevuti dagli ambasciatori della Repubblica fiorentina, il comandante francese di Pisa ricusò di cedere loro le fortezze sopraindicate. Atteso però il richiamo dall’Italia dell’armata francese, quello stesso comandante, dopo aver consigliato i Pisani a domandar soccorsi ai Veneziani e al duca di Milano, allora nemici della Repubblica Fiorentina, si obbligò dirimpetto ai sindaci del Comune di Firenze consegnare le due cittadelle di Pisa mediante lo sborso di 14000 fiorini, ammesso il caso che il re di Francia dentro cento giorni non fosse rientrato con le sue genti in Italia.
    Giunti frattanto in Pisa i soccorsi dei Veneziani e del duca di Milano innanzi che scadesse il tempo della consegna delle fortezze da farsi ai Fiorentini, le cose mostraronsi di primo slancio prospere ai Pisani, i quali presero con grande ardire l’offensiva su tutti i punti del loro contado ajutati poco dopo (anno 1496) da altre genti d’armi condotte in Italia dall’Imperatore Massimiliano I. Questo monarca, appena giunto a Pisa, si dispose a intraprendere l’assedio di Livorno che tosto con le forze sue e quelle della lega investì, tanto dalla parte di terra come da quella di mare, ed il cui esito fu già in quest’opera
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    indicato all’ Articolo Livorno.
    Insorta poi discordia fra i capi delle truppe veneziane, milanesi e imperiali, ciascun dei quali sembra che operasse col disegno di impadronirsi di Pisa, disgustato Massimiliano tornò in Germania, il duca di Milano richiamò le sue truppe, essendo i Pisani rimasti con poca soldatesca de’Veneziani, i soli amici che potessero contare contro più potenti nemici. Allora i Fiorentini non solo riacquistarono in breve tempo i castelli del contado pisano, ma di più inviarono un’armata di 18.000 combattenti ad assediare Pisa; dove poco dopo giunsero rinforzi ai Fiorentini da Bologna, da Forlì e da altri luoghi della Romagna. Arroge che non stette molto a sentirsi come i Veneziani allettati dall’oro de’Fiorentini, per trattato dell’aprile 1499 si ritirarono dalla Toscana. Contuttociò i Pisani, avendo deliberato di patire ogni estrema fortuna e la morte istessa, anziché tornare sotto l’odiato giogo dei Fiorentini, si armarono con ogni possibile sforzo a difesa propria. Infatti nei primi sette anni eglino vi riescirono; poiché in un settennio Pisa sostenne mirabilmente tre assedj e altrettanti assalti (1499, 1503 e 1505) nei quali le donne non meno degli uomini mostrarono fermezza, coraggio e valore; in guisa che la Signoria di Firenze essendo entrata in sospetto di qualche intelligenza fra gli assediati e il comandante generale de’Fiorentini, Paolo Vitelli, fece arrestarlo nel campo, e condottolo nel palazzo de’Signori lasciarvi tosto la vita.
    In questo stesso periodo tentarono i Fiorentini niente meno che di deviare per intiero l’Arno da Pisa onde portare in quel popolo maggior desolazione. Scavaronsi a tale oggetto due profondi e larghi canali presso la torre di Fasiano (quattro miglia sopra la città) nelle mira d’introdurvi le acque dell’Arno e di là dirigerle al mare per la via di Coltano e di Calambrone. Al qual uopo venne costruita sul letto del fiume una gran diga, dove erano già state impiegate 8000 opere quando sopraggiunse una piena che rovesciò la diga, colmò i lavori, e fece sì che i
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    Fiorentini dovessero rinunziare ad un progetto troppo azzardato.
    Riferisce poi specialmente al fatto medesimo di voltar l’Arno a Fasiano una lettera dal commissario Francesco Guiducci diretta lì 24 luglio 1503 ai Dieci di Balìa dal campo di Pisa, colla quale informò quel magistrato di guerra di esservi stato con Alessandro degli Albizzi , uno dei Dieci di Balìa, con l’ingegnere Leonardo da Vinci e con altri, fra i quali il governatore; e che veduto il disegno, dopo varie discussioni si concluse, essere quell’opera molto a proposito, o si veramente Arno volgersi qui, o restarvi con un canale , per cui almeno si vieterebbe che le colline dai nemici non potessero essere offese. – – (GAYE, Oper. Cit. Volume II .)
    Non meno importanti a illustrare la storia dell’ultimo assedio di Pisa sono le lettere seguenti: due delle quali scritte dal commissario Antonio Giacomini ai Dieci di Balìa sotto dì a 2 e 3 giugno 1504. In esse si dà avviso qualmente era giunto al campo contro Pisa la mattina stessa del 2 giugno Antonio da Sangallo, il quale di poi fu mandato a Librafratta col governatore per pigliar appunti come s’abbia a conciar cotesto luogo di Librafratta. – – ( Oper. Cit. Volume II.)
    Frattanto essendo ritornato da Roma a Firenze l’architetto Giuliano da Sangallo, fu subito dal gonfaloniere Pier Soderini inviato al campo davanti a Pisa ai commissari, perché non potevano riparare che i Pisani non mettessero dentro per Arno vettovaglie. Giuliano nell’inverno del 1505 disegnò ed alla primavera successiva del ( ERRATA : 1406) 1506 col fratello Antonio diresse la costruzione di un ponte di barche incatenate fra loro, in maniera che gli assediati non potevano ricevere sussistenza, né dalla parte del mare, né dalla parte di terra, per essere stato chiuso il passo alle barche anche di sopra a Pisa. – Tali provvedimenti avendo reso ognor più difficile la provvista delle
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    vettovaglie, delle quali in Pisa si mancava quasi affatto, allora il capo del popolo Giovanni Gambacorti ricorse a un rimedio barbaro, quello cioè di cacciar fuori i vecchi, le donne e altre bocche inutili. Ma codesto atto d’inumanità ne provocò dal lato degli assedianti uno più crudele quando i commissarj fiorentini misero bando che qualunque uomo venisse fuori dalle porte di Pisa fosse impiccato, e alle donne scorciati i panni sopra il ventre e bollate nella gota.
    Nel maggio dell’anno 1508 lo stesso Antonio da Sangallo ritornò al campo, al quale i Dieci di Balìa, gli 11 dello stesso mese, da Firenze dirigevano la seguente lettera. “Nel tempo che staranno le genti nostre in prima in Val di Serchio, di poi dall’altra banda, ristringeraiti un dì col signor Marcantonio a conferire insieme dove si potesse fare una bastia sotto a Librafratta che stessi bene, per poter a questi due luoghi, o a uno di essi tener più stretti i nemici nostri, e vedi innanzi tu parta di farne buon ritratto.” – Rispondeva Antonio da Sangallo ai Dieci di Balìa dal campo in Val di Serchio sotto dì 17 dello stesso mese ed anno dicendo “Sono stato col signor Marcantonio, e dopo molti ragionamenti fatti fra noi, non mi pare che sia proposito far niuna di queste bastie, cioè a Librafratta e ancor alla Badia a S. Savino . Ma siamo cavalcati insieme tutto il Lungarno dalla banda di Val di Serchio insino alla torre che sta in sulla foce (dell’Arno). E perché costà è un luogo elevato da terra circa braccia sei, quivi ci fermeremo a fare la bastia e ‘l ponte . Quando saremo dalla parte di costà dov’è la torre, vedremo et esamineremo più interamente il luogo et di tanto si darà avviso alle VV. SS.”
    Il dì 26 maggio di detto anno scriveva dal campo ai Dieci di Balìa il commissario generale Niccolò Capponi
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    avvisando que’ signori, che “Antonio da Sangallo se ne verrà domattina, e da lui intenderanno quello bisogna fare a Librafratta per potervi tenere più numero di cavalli” – (GAYE, Oper. cit. Volume II.)
    Dopo l’inutilità di tanti tentativi i Fiorentini sospesero per qualche tempo le operazioni militari contro Pisa, ma non sospesero i maneggi politici accompagnati da offerte di oro per aver l’assenso dei re di Francia e di Spagna, i quali cominciavano a risguardare l’impresa de’ Fiorentini contro Pisa come oggetto di speculazione finanziera. Trascorse così circa un anno, nel qual periodo di tempo i Fiorentini, avendo attirato al loro partito anco le repubbliche di Genova e di Lucca, si disposero a bloccare Pisa col sistema usato da Gino Capponi nel 1406, cioè, di chiudere con navi e batterie le foci dell’Arno, del Serchio e del Fiume Morto, e di stabilire tre campi trincerati, cioè, a S. Piero in Grado, per la parte d’Arno, a bocca di Serchio per la parte di mare, a Mezzana e a Ripafratta, per la parte del monte, senza tralasciare d’inviare altre colonne mobili a custodire nelle campagne tutte le vie dalle quali potevasi vettovagliare la città.
    Per tal modo i Pisani stretti da ogni lato, indeboliti da lunga guerra, privi di ogni genere di sussistenza e dalla fame estenuati, dopo aver sostenuto con costanza e coraggio 14 anni e mezzo di guerra, sentirono con gran pena avvicinarsi l’ora fatale di dover cedere alla necessità e darsi per vinti in potere di odiatissimi nemici. Le condizioni della capitolazione furono stabilite nel 4 giugno 1509 alla presenza dei Dieci di Balìa e di Niccolò Machiavelli segretario della Repubblica, ratificate il giorno dopo dalla Signoria. Esse contenevansi in 48 capitoli, nei quali si trattava anche della restituzione ai Pisani fuorusciti, niuno eccettuato, di tutti i loro beni e rendite arretrate, delle franchigie relative al commercio e manifatture pisane e di altre esenzioni di tasse e gabelle che anteriormente
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    al 9 novembre 1494 erano state ai Pisani dal Comune di Firenze concedute. – (DAL BORGO, Docum. Pis. )
    Dopo concluso tutto ciò, l’esercito degli assedianti nel dì 8 giugno del 1509 entrò pacificamente in Pisa, fra quella popolazione taciturna, avvilita ed estenuata. E quantunque i Fiorentini da tanta nimistà e da molte ingiurie fossero esacerbati, pure osservarono religiosamente le fatte promesse, col recare seco pane e vettovaglie a ristorare quel popolo affamato, nel tempo stesso che il vincitore a quel che sembra evitava di suscitare nei Pisani cagioni nuove di rammarico, e conservava loro i consueti magistrati, scelti per altro dalla Signoria di Firenze.
    Ma in questa seconda ed ultima resa di Pisa molte famiglie di nobili, di mercanti e di cittadini distinti anziché sopportare l’avvilimento di una tale schiavitù, emigrarono volontariamente all’estero e specialmente a Napoli e a Palermo, dove tuttora esistono molti discendenti di quelle casate.
    A sentimento dello storico Guicciardini l’Imperatore Massimiliano dové sentire con pena la sottomissione de’Pisani, nella persuasione, o che il dominio di Pisa gli avesse a essere potente istrumento a molte occasioni, o che il consentirla ai Fiorentini gli avesse a fare ottenere da loro quantità non mediocre di danari; in una parola può dirsi che cotesta città in quel tempo fosse l’oggetto dell’avidità di molti potentati.
    Una della prime operazioni fatte dai Fiorentini appena entrati in Pisa fu di sollecitare a Giuliano e ad Antonio da Sangallo il compimento della cittadella nuova, detta poi fortezza alle Piagge . Infatti nel dì 11 settembre 1509 il gonfaloniere perpetuo Pier Soderini scriveva a Pisa a Giuliano da Sangallo nomine D. Antonii , così: Ho letto la vostra alla Signoria della quale ho preso piacere intendendo che voi sollecitate forte cortesia opera (della cittadella). – La Signoria vorrebbe che voi faceste l’altra parte del muro, e lo tiraste su al pari dell’altro con più prestezza che si può. Però fate diligenza di condurre tutto
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    il muro di verso il ponte alla Spina all’altezza di quello dell’altra parte. – (GAYE Oper. Cit. Volume II).
    Con due altre lettere del 20 e 26 settembre del 1509 lo stesso Pier Soderini sollecitava Giuliano da Sangallo a tirar su quel muro presso il ponte alla Spina sull’Arno, come pure di murare la porta che metteva in sul ponte predetto, e l’altra porta, e l’altra porta da entrare in città “ et con sollecitudine (scriveva) tirate su perché il tempo se ne va ”. – Anche nel 1511 Giuliano da Sangallo continuava a dirigere i lavori alla cittadella e alla porta S. Marco, come rilevasi da due lettere dei Dieci di Balìa scritte da Firenze lì 2 gennajo e 13 febbrajo 1510 ad Alamanno Salviati commissario a Pisa; mentre nel 28 dicembre dello stesso anno i Dieci di Balìa scrivevano da Giovanni Battista Bartolini commissario in detta città rispetto alla costruzione della cittadella nuova, il qual commissario aveva detto, che perduta Pisa è perduta ancora la cittadella , e ciò contro il sentimento dell’architetto Giuliano da Sangallo. Che però desiderosi di chiarirne da tanta perplessità, i Dieci inviarono a Pisa Niccolò Machiavelli, il quale nel dì 5 gennajo dell’anno 1511 tornato a Firenze rese conto della sua missione rispetto ai lavori della cittadella nuova a quelli della porta per la quale si riesciva in sul ponte alla Spina , rapporto anco al rivellino fra la porta S. Marco e quella della fortezza , al muro ecc. verso la Porta nuova (di S. Marco). Dopo le quali cose i Dieci scrivevano al detto commissario quanto appresso: “Niccolò (Machiavelli) ancora ci ha riferito in quanta debolezza si trovi la cittadella vecchia, ed avendone parlato con Giuliano da Sangallo, e parendoci il rimedio che ci mette innanzi lungo e dispendioso, ci è solo occorso in
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    questa parte di alleggerire detta cittadella vecchia di tutte quelle cose che fossero di molta importanza, quando venissero in mano de’ Pisani , et però se in detta cittadella si trova artiglieria di più metteretela in cittadella nuova ”. – (GAYE, Oper. cit. Volume II.)
    Queste lettere frattanto manifestano chiaramente la premura del governo di Firenze nel fortificarsi in Pisa per timore di perdere una terza volta la città a cagione di sollevazione degli abitanti, comecchè una buona parte de’ suoi cittadini avesse già espatriato.
    La prova più evidente di tale emigrazione la dimostra una lettera scritta nel dì 31 marzo del 1511 da Alessandro Nasi commissario di Pisa ai Dieci di Balìa, cui diceva: “Ieri furono da me Giuliano da Sangallo e il provveditore della cittadella nuova , e riferirono, come per ordine di chi ha carica dell’entrate della dogana era stato loro dimostrato, ch’ella diminuiva in modo che bisognava scemare i maestri e gli operai alla muraglia.” – (GAYE, Volume cit. )
    Tutto ciò accadeva sotto il gonfalonierato perpetuo di Pier Soderini. Per altro all’occasione dell’esaltamento al pontificato del Cardinale Giovanni de’Medici, Pisa dové risentire un qualche sollievo nel ravvivamento della decaduta sua università, a sussidio della quale Leone X destinò le decime ecclesiastiche di tutto il dominio fiorentino. Quindi per opera specialmente di un altro pontefice della stessa prosapia de’Medici (Clemente VII) fu estinta anco la repubblica fiorentina, quando appena di 24 anni era spirata la pisana, siccome dall’opera del duca Cosimo de’Medici può ripetere dopo altri 24 anni la repubblica sanese la sua fine. Sicché in grazia del governo di Firenze e di due individui fiorentini in meno di mezzo secolo caddero l’una dopo l’altra sotto il dominio di una famiglia cittadina le tre più distinte repubbliche della Toscana.
    Due anni dopo la sua caduta Pisa fu scelta, come luogo più confacente
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    ad un concilio, sia per la comodità che offriva a molti prelati che dovevano recarvisi dalla Francia e dalla Spagna, sia per la confidenza che il re di Francia e l’Imperatore Massimiliano, promotori di quel concilio, avevano ne’Fiorentini ed in Pier Soderini, allora gonfaloniere perpetuo della Repubblica. Dall’altro canto il Pontefice Giulio II dopo avere intimato per l’anno dopo un concilio generale in S. Giovanni Laterano a Roma, dichiarava questo di Pisa un conciliabolo, sicché interdisse i Fiorentini nel cui dominio era stato permesso e favorito. Quindi lo stesso Pontefice strinse lega col re Cattolico e coi Veneziani, i capitoli della quale trattavano principalmente della conservazione dell’unione della chiesa, dell’abbattimento del concilio pisano e de’ suoi difensori. Ed attribuendo gran colpa di ciò al governo di Firenze, non pareva alla lega che si potesse tenere migliore e più pronta via, a voler condur la cosa ad effetto, di quella di rimuovere il gonfaloniere perpetuo dal governo di Firenze e d’introdurvi di nuovo l’espulsa casa de’Medici. Della quale essendo allora capo il cardinal Giovanni, successore poscia a Giulio II nel papato, non si dubitava che questo porporato non agognasse l’ultima ora di vita al governo repubblicano di Firenze per rimettervi in potere la sua famiglia.
    Negli ultimi istanti della Repubblica Fiorentina Pisa dové accogliere fra le sue mura il prode guerriero fiesolano, Francesco Ferrucci, per accozzarvi un piccolo esercito che quasi per intiero perì alla battaglia di Gavinana. I Pisani in quell’emergente soggiacquero a severe misure militari e si trovarono in pericolo di veder impiccare i cittadini più facoltosi, o di dover perire della morte stessa del conte Ugolino di Donoratico, se a richiesta del comandante non somministravano denaro per pagare i soldati, vettovaglie e materiale per provvedere il suo esercito. Né a queste sole misure, benché violente, s’arrestava il Ferrucci, poiché memore della congiura stata poco innanzi scoperta in Pisa, a causa della quale perdé la vita il complice Jacopo Corsi capitano del governo, eseguivasi dal fiesolano
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    quello che altre volte fu semplicemente dai Dieci di Balìa progettato, l’allontanamento da Pisa di tutti i cittadini capaci di portar arme, oltre i molti de’ più distinti che per sicurezza erano stati chiamati a Firenze. Sennonché due giorni dopo la partita dell’esercito del Ferrucci, i Pisani dovettero non senza giubilo sentire la notizia della battaglia di Gavinana, la quale decise della sorte di Firenze parificandola, se non peggio, a quella di Pisa, e quindi sottoponendo entrambe le città coi loro contadi al dominio assoluto di un solo padrone, spettante a famiglia già di Firenze cittadina.
    Sebbene il duca Alessandro de’Medici governasse con pari tirannide Fiorentini e Pisani, e si mostrasse per tutto di vita anziché no licenziosa e vituperevole, non ostante i Pisani, per l’odio che nutrivano contro Firenze, accolsero con smodato plauso il duca Alessandro fino al punto di qualificarlo con adulatoria iscrizione al suo ingresso in città, il Salvatore di Pisa .
    Pure i Pisani al pari de’ Fiorentini non ebbero ragione da lodarsi del nuovo signore, sotto del quale si vide il magistrato comunitativo di Pisa fare un umiliante decreto sotto il dì 6 dicembre del 1535, che diceva, come in mancanza di uno studio nella loro città, dové risolversi a raccogliere l’annua somma di cento ducati, 50 dei quali forniti dall’opera del Duomo, 25 dalla Pia Casa della Misericordia, e 25 dalla Comunità di Pisa, per poter mantenere quattro giovani pisani a studiare legge o medicina in un pubblico ginnasio forestiero; sul riflesso, dice il decreto: “che la città di Pisa, oltre i danni infiniti occorsogli, e per la malignità de’ tempi dai Pisani patiti, era mancante quasi del tutto, e del continuo mancava di uomini e massime di letterati e bene istruiti in qualche virtù. E conoscendo di tale difetto esserne polissima cagione la povertà grande di que’ pochi cittadini che oggi vi restano, inabili non che altro a nutrire i proprj figli anzi che a indirizzarli
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    in virtù, e a tenerli a studio fuori della città, come nelle altre è solito farsi, perciò ecc.” – (DAL BORGO, Diplomi pisani. )
    Tale era il deperimento di fortuna e di soggetti nella città di Pisa, allorachè fu innalzato al trono Cosimo I de’ Medici, principe di eminenti qualità e di una politica raffinata fornito, in guisa che in mezzo ai più grandi ostacoli seppe progredire di grandezza coll’indorare ai sudditi le catene che indossavano. – Pos. sono infatti i Pisani fra i popoli a Cosimo I soggetti dirsi de’ primi che risentissero dalle sue leggi, ordini e provvedimenti economici, solidi vantaggi e felici resultamenti.
    Avvegnachè una delle prime cure di Cosimo fu la ripristinazione dell’abbandonata università pisana (anno 1543), alla quale assegnò rendite stabili e nuove, riordinò i suoi statuti, eresse e accreditò varie cattedre chiamando dall’estero celebri professori, ampliò il locale della Sapienza per il convitto, e concedè agli esteri privilegj e immunità.
    A questi aggiunse altri provvedimenti per richiamare a Pisa de’ bravi maestri, e dei numerosi studenti; cui susseguirono nel 1547 ordini diretti a migliorare l’aria con l’istituzione dell’ Uffizio denominato de’ Fossi , al quale Cosimo I aumentò le risorse con assegnare ingerenze più estese di quelle che nei tempi trascorsi su tale rapporto ai Consoli del Mare fossero state accordate.
    In quale stato poi di spopolamento fosse la città di Pisa alla metà del secolo XVI lo dirà il C ensimento posto in calce del presente articolo a confronto di tre altri di epoche assai posteriori. – Vedere anche il Censimento della Popolazione della COMUNITà DI PISA.
    La terza operazione, con cui Cosimo I procurò di favorire i Pisani fu quella di stabilire la residenza del nuovo ordine cavalleresco di S. Stefano e P. M., da esso nel 1561 fondato, e ciò in vista di procurare decoro e concorso maggiore alla
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    città, di accrescere sicurezza al commercio marittimo de’ sudditi, ed una maggiore stabilità al suo trono.
    Succeduto al Granduca Cosimo il figlio primogenito Francesco I, Pisa ricadde nel languore; lo che a parere dello storico del Granducato fu in gran parte prodotto della politica degl’inquisitori, la quale sembrava diretta principalmente ad abbattere e forse anche a distruggere nella Toscana le due università di Pisa e di Siena. Avvegnachè, oltre l’odio che gl’inquisitori fomentavano fra i professori di quei ginnasii, eglino poterono imporre nell’animo di Francesco I tanto da ottenere un regio exequatur per consegnare nelle forze del Papa (anno 1582) tre professori dello studio pisano. – Con tutto ciò il secondo Granduca rispetto all’ Uffizio dei Fossi di Pisa proseguì le operazioni ed ordini lasciati dal di lui padre, aggiungendovi qualche provvedimento creduto più confacente allo scopo.
    Ma eccoci all’eroe della dinastia Medicea, eccoci al successore di Francesco I, a quell’animo invitto di Ferdinando I, il quale mostrò costanza imperterrita nelle maggiori calamità dello stato, a colui che ebbe il contento di vedere il primo in Toscana la gloria del principe collegata al benessere de’sudditi; ed i Pisani finché starà in piedi la loro maravigliosa cattedrale benediranno la memoria di Ferdinando I per il suo gran cuore di averne riparato sollecitamente la perdita a cagione di un incendio notturno (nel 24 ottobre 1595) consimile a quello che ai giorni nostri in gran parte distrusse la basilica di S. Paolo fuori di Roma.
    Per le cure di Ferdinando I vennero anche allacciate le copiose polle d’acqua saluberrima nel poggio di Asciano, e dato principio ai lunghi acquedotti che per cinque miglia di cammino conducono quelle acque sopra archi a dissetare i Pisani.
    Per opera di Ferdinando I fu edificato in Pisa il collegio che conserva il suo nome, già destinato a ricevervi i giovani che inviavansi allo studio pisano dalle città e terre del Granducato.
    Per lui fu innalzata col disegno
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    del Buontalenti la Loggia di Banchi sulla piazza meridionale del ponte di Mezzo; alla quale Loggia posteriormente venne sovrapposta la fabbrica dell’ Uffizio de’Fossi .
    Fu per suo ordine edificato nel Lungarno di Pisa il palazzo granducale, e fu suo l’indulto famoso del 10 giugno 1593 a favore degl’individui di qualunque nazione in favore di coloro che si recassero a stabilire domicilio a Livorno e a Pisa.
    Fu per volere di Ferdinando I che venne allo studio pisano quell’Ostilio la cui scuola nel 1592 frequentò il giovinetto Galileo. – Fu per ordine di quel Granduca aperto il Fosso, o Canale de’Navicelli ad oggetto di rendere più spedito e più sicuro il trasporto delle merci fra Pisa e Livorno senza che escissero come per l’addietro per bocca d’Arno in mare. – Per esso finalmente i Pisani furono in festa quando vennero depositati nella chiesa dei cavalieri di S. Stefano i trofei riportati alla conquista della città di Bona nell’Affrica (1607) donde recarono bandiere, cannoni e un migliajo e mezzo di schiavi.
    Il Granduca Cosimo II figlio di Ferdinando I, appena escito dalla minor età, governò i suoi sudditi camminando scrupolosamente sulle paterne tracce, e recando a somma sua cura il mantenere in credito l’università di Pisa, ed il bonificamento delle vicine campagne.
    Ma tutto cominciò a declinare appena avvenuta la sua morte nella fresca età di 32 anni (1621). Essendochè, rimasta la Toscana sotto la reggenza di due granduchesse, lo stato deteriorò a segno che si ridusse uno spettacolo di miserie, e la trascuratezza degli spurghi de’fossi fece in Pisa accrescere i danni della peste che per due volte (anni 1630 e 1633) apportò un doppio esterminio. In mezzo a tanta calamità prese le redini del governo Ferdinando II figlio primogenito di Cosimo II e fratello del protettore degli scienziati, del fondatore dell’accademia del Cimento, il cardinale Leopoldo, nome sempre caro a tutti i Toscani.
    La città
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    di Pisa pertanto, che sino dai tempi di Cosimo I era stata destinata a residenza invernale della corte granducale, sotto Granduca Ferdinando II dové risentire un qualche sollievo, quando nella sua università recavano lustro un Chimentelli, un Marchetti ed un Borelli.
    Eppure chi lo crederebbe? Che dove professavano cotesti uomini, dove risiedeva un cardinal Leopoldo de’Medici, dove viveva il sommo Galileo, stato maestro nelle scienze allo stesso Ferdinando II, un Pontefice avesse portato a tal segno l’indiscretezza da esigere che quel divino ingegno nell’età sua settuagenaria si dovesse mandare in Roma per trofeo dell’ipocrita ignoranza e della nera malignità? – (GALLUZZI Stor. Del Granducato ).
    Morì Ferdinado II lasciando alla Toscana in Cosimo III suo primogenito un verme divoratore di ogni prosperità, nel fratello cardinale un moderatore zelante, fino a che visse, dell’università pisana. Frattanto è opinione di molti che uno dei colpi fatali fosse portato ai Pisani dagli scrupoli di Cosimo III allorché negò agli Ugonotti, cacciati dalla Francia per la revoca dell’editto di Nantes, il permesso di venire a stabilirsi in uno de’subborghi di Pisa, disposti a bonificare e rendere più fertili le sue campagne, a montare fabbriche e manifatture di drappi, di seterie ecc. Lo che si negava nel tempo che in Livorno e in Pisa si accordavano privilegj alla nazione ebraica.
    Ciò non ostante Cosimo III nutrendo qualche passione per la storia naturale ebbe il merito di accrescere l’orto botanico di Pisa e di molte piante esotiche e rare, di non pochi oggetti minerali e fossili il museo contiguo; e fu sotto il lungo regno di Cosimo III che lo studio pisano ebbe un bel novero di professori distinti, fra i quali un Magalotti, un Dempstero, un Bernardo Averani, un Redi, un Noris, un Gianetti, per tacere di tanti altri e per non aggiungere l’elogio fatto allo stesso Cosimo III dal Montfaucon che lo ritrovò peritissimo nello studio delle scienze divine.
    Sotto il più breve ma
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    più agitato regno del Granduca Giovan Gastone il più che vi sarà da avvertire per Pisa, credo sia quello di trovarsi insieme nello studio pisano un Valsecchi, un Grandi, un Gualtieri, un Pompeo Neri, un Giuseppe Averani, i di cui nomi bastano a rendere illustre qualunque più celebre università.
    Terminata nel 1737 la casa granducale Medicea, apparve per fortuna della Toscana un astro più splendente e una luce più benefica colla dinastia Austro-Lorena felicemente regnante. – Il Granduca Francesco II di questo nome, e primo come Imperatore, portò fra noi e lasciò nella sua successione per istinto magnanimo di prosapia una serie di opere di giustizia, di moderata libertà, d’ordine, di cristiane virtù, di amorevolezza, di decoro e di crescente prosperità.
    Infatti sino dai primi anni del Granduca Francesco II la città di Pisa migliorò non solo nell’amministrazione governativa, ma ancora nei comodi pubblici e nel suo materiale, sia che si riguardino le Terme pisane di nuove e più comode fabbriche adornate; sia che uno rammenti che a lui si deve la continuazione del magnifico Lungarno di Pisa alla destra del fiume fra il ponte di Mezzo , e la piazza di S. Matteo ; e sia che si volga l’occhio al nobile impulso che mercé di lui fu dato all’agraria e specialmente alle campagne pisane col sistema utilissimo di affittare e dividere fra i privati le vaste e malsane tenute della Corona nella pianura meridionale di Pisa.
    Succeduto nel granducato a Francesco II il suo secondogenito Pietro Leopoldo, senza pericolo di adulare dirsi può, che non vi fu mai paese, che avesse più grandi obblighi al suo al suo principe, quanto la Toscana a Pietro Leopoldo. E Pisa, dove l’Augusta e numerosa famiglia di quell’Augustissimo passava la stagione invernale, fu una delle città la quale durante i 25 anni del suo glorioso governo e preferenza d’ogn’altra risentì il profitto delle benefiche cure sparse su di essa a larga mano per
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    migliorare colle sorti pubbliche le private. Quindi ben si addiceva ai Pisani il pensiero di far scolpire da abile mano in dimensioni gigantesche e innalzare nel centro di una gran piazza il meritato simulacro a tale sovrano con il seguente veridico elogio: A PIETRO LEOPOLDO QUARANT’ANNI DOPO LA SUA MORTE.
    Chiamato nel 1791 Leopoldo I a salire sul trono imperiale e reale, i destini alla Toscana propizi lasciarono il di lui secondogenito nato in Pisa nel 1769, Ferdinando III, Principe sagace, clemente e moderato, che governò i Toscani in due periodi diversi: il primo circondato da disturbi politici che l’obbligarono nel marzo del 1799 a ritirarsi in Germania, lasciando la Toscana in mano ai Francesi, che presto venderono e sett’anni dopo ritolsero alla Spagna ed all’Infante di Parma per unire il piccolo regno al grande Impero, finché caduto il colosso che lo sosteneva (anno 1814), il Granduca Ferdinando III tornò in Toscana desideratissimo dai suoi sudditi e sempre mai contornato dall’amore di ogni ceto, d’ogni colore, di ogni età; ma troppo presto rapito da invida morte, non intiero però, avendo lasciato nell’Augusto suo figlio riunite insieme le paterne ed avite virtù. Sotto il governo del Granduca Leopoldo II Pisa ha ottenuto grandi benefizi, sia dai provvedimenti legislativi come dalle opere pubbliche da Esso ordinate col lodevolissimo fine di migliorare le condizioni morali, fisiche ed economiche del paese e de’ suoi abitanti. – Fra le varie migliorie citerò una più regolare direzione data alle acque, la costruzione di nuovi ponti, l’apertura di nuove strade, la rettificazione delle vecchie, tanto regie come provinciali e comunicative. Una di queste, la strada ferrata Leopolda , il cui primo tronco è già in costruzione, deve avvicinare di tempo se non di spazio la città di Pisa al porto di Livorno, siccome ravvicinerà egualmente Pisa e Lucca l’altra strada ferrata che sta progettandosi da un’altra società, senza dire della nuova e più estesa montatura dell’Università pisana.

    Personaggi celebri
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    pisani in fatto di scienze, lettere, arti e politica

    Una lunga lista fornirebbe questa città di uomini superiori ai contemporanei nelle scienze, nelle lettere, nelle arti ed in politica se si dovessero tutti annoverare; onde mi restringerò ai pisani sommi in fatto di arti, lettere, scienze ecc. senza dire di quei molti celebri per dottrine divine, per virtù cristiane e santità.
    La serie incomincia nel secolo VIII da Pietro Diacono che fu maestro di belle lettere sotto Carlomagno in Pavia e poscia in Parigi, dove pure si distinse nel secolo X un maestro di teologia, Bernardo da Pisa ; mentre nel secolo XI senza dubbio tocca a Pisa l’architetto Buschetto , colui che diresse come autore, e come operajo presiedé alla costruzione del magnifico tempio della Primaziale. E fu sul cadere dello stesso secolo che Pisa ebbe in pastore un Daiberto d’animo grande e di singolare valore.
    Nel secolo XII Pisa ebbe la gloria di dare al mondo due insigni giureconsulti in Bulgaro e in Burgundio , oltre un famoso matematico in Leonardo Fibonacci, che introdusse il primo in Europa il sistema delle cifre arabiche e le operazioni di algebra scritte in apposito trattato. – Nel medesimo secolo Pisa vede nascere e fiorire due sommi architetti in Diotisalvi e in Bonanno , il primo che fu autore del bellissimo battistero pisano e l’altro il fondatore del meraviglioso campanile. Lascio di aggiungere il glorioso S. Ranieri, l’arcivescovo Pietro Morioni, il cardinal Guido da Caprona, il Pontefice Eugenio III ed altri insigni pisani del secolo XII tutti celebri per cristiane virtù.
    Anche nel secolo XIII Pisa fruttò alle belle arti italiane più che ogni altra città, tosto che qua ebbe i natali un Niccola che fu il maestro e il restauratore del buon gusto nella scultura, il vero caposcuola del medio evo, e pel di cui
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    merito comparvero nel secolo successivo molti distinti allievi in diversi luoghi della Toscana.
    Né solamente Pisa diede nel secolo XIII in Niccola un sommo scultore e architetto, ma ancora in Giunta Pisano , il primo pittore italiano di distinzione.
    Il qual Giunta figlio di Giuntino non fia da confondersi con altro Giunta pittore coetaneo da me scoperto fra le carte dell’opera di S. Iacopo di Pistoja, siccome fu indicato sino dal 1835 all’articolo FABIANA nella Valle dell’Ombrone Pistojese. Avvegnachè il Giunta pittore pistojese era figlio di Guidotto da Piteccio , il quale, se può dirsi coetaneo del celebre Giunta Pisano , visse però sempre oscuro nella sua patria, dove lo ritrovo qualche anno dopo la morte di Giunta Pisano . – Vedere PITECCIO.
    Toccano al secolo XIV li scultori e architetti pisani, Giovanni figlio di Niccola Pisano, Fra Guglielmo Agnelli e Andrea Pisano , tutti allievi distinti dello stesso caposcuola Niccola, per virtù dei quali sorsero alcuni altri distinti scultori e architetti, siccome furono Tommaso e Nino figli entrambi del suddetto Andrea Pisano .
    Né alle sole belle arti si limita il novero degli uomini celebri pisani nei secoli XIII e XIV, mentre nelle lettere figurarono in Pisa un Domenico Cavalea, un Bartolommeo da S. Concordio, un B. Giordano e un Ranieri, comecché questi due fossero nativi del castel di Rivalto, contado pisano. – In politica e giurisprudenza figurarono più tardi in Pisa Michele di Lante e Pietro suo figlio, sebbene oriundi da Vico Pisano, siccome era oriundo da Buti il letterato Francesco di Bartolo che sotto il governo di Piero Gambacorti commentando spiegò la divina commedia nello studio pisano.
    Ma l’uomo del secolo XIII che fra tutti i Pisani si rendesse il più famigerato dalla penna inarrivabile di un
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    sommo poeta fu il conte Ugolino della Gherardesca, noto per ingegno, per valore e per politica, ma più noto per la sventurata sua morte assai peggiore di quella che era toccata a Napoli al conte Gherardo suo zio.
    Né a dimenticare la crudeltà usata verso il conte Ugolino bastò la generosità con la quale i Pisani dopo 26 anni innalzarono al grado stesso di potestà i parenti di lui, cioè nel 1316 il conte Gherardo Novello, poi il Conte Ranieri suo zio, il conte Bonifazio Novello e finalmente il conte Ranieri nipote del primo; i quali tutti ottenerono dal popolo pisano i sommi onori, avendoli eletti per capi quasi assoluti della loro repubblica.
    Fra i politici pisani del secolo XIV notissimi sono Andrea, Piero e Giovanni Gambacorti, Jacopo d’Appiano e Giovanni d’Agnello, mentre come letterato, politico e dotto i Pisani fanno suo il Pontefice Niccolò V, al secolo Tommaso Parentucelli, perché di padre pisano e nato in Pisa nell’anno 1389 da padre medico, Bartolommeo, nel tempo che leggeva nello studio pisano.
    La città di Pisa nei secoli posteriori diede molti artisti e scienziati, ma nessuno arrivò a pareggiare il merito de vecchi maestri di sopra nominati, se devesi eccettuare Galileo, il quale sebbene figlio di un nobile decaduto fiorentino e di una dama pesciatina, venne alla luce del giorno in Pisa nel 18 febbrajo 1564, colui che doveva vedere assai più lungi di ogni altrui vivente della sua e di qualunque altra età.
    Chi volesse poi conoscere una più lunga serie de’pisani distinti legga il catalogo cronologico posto in calce al Volume III della Descrizione storica e artistica di Pisa di Ranieri Grassi .

    PRINCIPALI EDIFIZI DI PISA

    Fra tutte le altre città della Toscana Pisa può dirsi la più ricca di memorie e di avanzi di fabbriche che ci richiamano ai primi secoli del romano impero; sia che si osservino i ruderi delle
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    sue Terme delle quali sussiste intiero il Sudatorio in un locale che quanto prima dallo zelante corpo decurionale di Pisa sarà acquistato per farvi intorno opportune perlustrazioni e ripari; sia che si rintraccino i nascosti fondamenti dell’Anfiteatro, del quale restò il nome ad una porta della città, ora chiusa, la porta del Parlascio ; sia che si esamini il vestibulo di un tempio pagano tuttora in posto dove fu la chiesa di S. Felice, senza dire di tante colonne di graniti e di marmi orientali, delle numerose basi e capitelli che le adornavano. Ma soprattutto qualificano l’importanza di Pisa romana i molti sarcofagi e le iscrizioni superstiti, fra le quali superiormente insigni sono quelle dei due Cesari, Cajo e Lucio, figli adottivi di Augusto, illustrate dal Noris nell’opera Cenotaphia pisanae , che insieme a tanti altri frammenti antichi sparsi quà e là veggonsi ora riuniti nel bel Camposanto di Pisa. – Ma se questa città e tuttora la più doviziosa di monumenti antichi, essa con maggiore diritto é da qualificarsi la culla dove risorsero mercé de’suoi figli le arti belle per l’Italia, e dove si ammirano riuniti in un solo punto della città quattro edifizi dei primi secoli dopo il mille, ciascuno de’ quali farebbe onore alla stessa Roma; intendo dire del Duomo , del Battistero , del Campanile e del Camposanto .
    Duomo di Pisa . – Quando uno vede la ricca e sublime facciata di questo tempio, e la trova distinta in cinque ordini di colonne con intagli squisiti di marmo; quando uno entra in chiesa e la vede scompartita in cinque navate sorrette da 58 colonne di granito, e di marmi fini con tale sveltezza di forme e squisitezza di lavoro, e quando specialmente uno pensa all’epoca in cui cotesto gran tempio fu edificato, quanto tempo vi s’impiegò per compirlo, quale artista nazionale lo disegnò e
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    lo diresse, non può fare a meno di stupire del coraggio, del valore e della potenza del popolo pietoso che lo innalzò, del merito originale dell’architetto che nella seconda metà del secolo XI lo disegnò, vale a dire in un’epoca nella quale i Pisani annunziarono i primi l’alba foriera alle belle arti da lunga età abbrutite, e quasi spente in Italia.
    Che l’architetto fosse nativo pisano e non come altri supposero dell’isole greche, lo dichiara per tutti un istrumento della Primaziale, rogato in Ripafratta nel di 2 dicembre dell’anno 1105 ( stile pisano ), nel quale Buschetto figlio del fu Giovanni giudice é designato fra i 4 operai dell’opera del Duomo di Pisa, i di cui personaggi appellavansi Uberto , Leone , Signoretto e Buschetto . – (ARCH. DIPL. FIOR.. Carte della Primaziale di Pisa ).
    Né solo il novero degli artisti pisani di quella età é da limitarsi a Buschetto , tostoché contemporaneamente al duomo in Pisa si edificava la grandiosa chiesa di S. Paolo in Ripa d’Arno, la cui facciata sorprende tuttora per la squisitezza, la varietà e la quantità dei lavori di scultura e di ornato di cui é fornita; e ciò nel tempo medesimo che s’innalzavano le chiesa di S. Michele in Borgo, di S. Margherita, di S. Matteo ec., per non dire di quella di S. Piero in Grado fuori di Pisa; dondeché convien concludere che tanti lavori in un così breve periodo dovevano eseguirsi da molte mani e dirigersi da più d’un maestro d’architettura e scultura.
    Io non starò a intrattenere il lettore intorno al sublime edifizio del duomo di Pisa, poiché non vi è Guida, non vi è libro di belle arti italiane in cui non si trovi descritto e che non dia del suo interno e dell’esterno il disegno.
    Meritano tuttavia sopra ogn’altra Guida di essere raccomandate quelle della Pisa illustrata del
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    Morrona
    , e la descrizione storica e artistica di Pisa di recente pubblicata dal Grassi .
    Dirò bensì che all’erezione della Primaziale contribuirono non tanto le ricche spoglie tolte dai Pisani ai Saraceni in Palermo, come ancora la munificenza dell’imperatore Arrigo IV e della potente marchese di Toscana, la contessa Matilde. – È un tempio a guisa di croce latina con più ordini di colonne e sovrapposte gallerie, le quali formano una specie di loggiato intorno alla navata maggiore, che restò compito nel breve periodo di 56 anni. – La sua lunghezza interna è di braccia toscane 162 e 1/2, la larghezza della crociata interna arriva a braccia 55 e 1/4, mentre l’altezza della stessa navata ammonta a braccia toscane 57 e 1/2. Aggiungerò altresì, qualmente la facciata della Primaziale era adorna di tre porte di bronzo storiate, state fuse e distrutte dall’incendio del 25 ottobre 1595, le quali furono rifatte nel principio del secolo XVII sui disegni di Giovanni Bologna. Finalmente rammenterò che fu dall’oscillazione del lampadario di bronzo sospeso in mezzo a cotesta chiesa donde Galileo trovò la scoperta e dimostrò l’isocronismo nel moto dei pendoli.
    Battistero di Pisa . – Non era che di pochi lustri compiuta cotesta Primaziale, quando i Pisani risolverono di erigere dirimpetto alla sua facciata una grandiosa rotonda con cupola per servire di battistero. Il qual edifizio per maestria e magnificenza di lavoro doveva sorpassare quanti altri in simil genere dai popoli cristiani erano stati fino allora a S. Giovanni Battista innalzati.
    Fu dato l’incarico ad un architetto nazionale, Diotisalvi , che nell’agosto del 1152 ( stile comune ), ne gettò i fondamenti, a quello stesso Diotisalvi che disegnò la chiesa di S. Sepolcro in Chinsica nel quartiere dell’Oltrarno di Pisa.
    Se ignorasi l’epoca in cui il Battistero pisano fu terminato, è noto peraltro che la fabbrica dove sospendersi (non saprei dire a che punto) per l’esorbitanti spese
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    che esigeva; alle quali però fu supplito mediante un volontario tributo de’cittadini.
    Questa rotonda che si alza su di un basamento di tre scalini è repartita esternamente in tre ordini, nel primo de’quali girano 20 colonne, sui di cui capitelli voltano archi tondi intagliatissimi di marmo bianco. È cosa meravigliosa a dire come tutto quest’ordine fu eseguito nella prima metà del mese d’ottobre dell’anno 1156, siccome fu scritto in un documento che dicesi del tempo.
    Nel secondo ordine si contano 60 colonne più piccole, staccate dalla parete per formare intorno un peristilio con capitelli e archi semicircolari, alternati da triangoli scorniciati di marmo lunense, ciascuno de’quali sorregge sulla punta superiore una statuina e nel centro una mezza figura più grande, mentre nell’intervallo degli archi sorgono altrettanti tabernacoli fiancheggiati da due colonnine e terminati da tre sottili piramidi adorne di ribeschi e di delicatissimi intagli, il tutto di marmo di Carrara. Il terz’ordine è scompartito in 18 pilastri alternanti con 20 finestre; sui quali sorgono de’ tabernacoli con tre colonnine che sorreggono altrettante piramidi, mentre sovrappone alle venti finestre un numero eguale di triangoli di marmo aventi in mezzo dei rosoni. – Da questo terz’ordine staccasi la gran cupola formata a guisa di una pera che termina in un cupolino, sulla cui cima sorge una statuetta di bronzo rappresentante S. Giovanni Battista.
    La circonferenza esterna del Battistero, compreso l’imbasamento, è di braccia toscane 239; sopra l’imbasamento è di braccia toscane 195; l’altezza totale della fabbrica, eccettuata la figura del Battista sulla cima del cupolino, ascende a braccia toscane 94.
    Sebbene quattro porte scompartite in croce diano accesso al Battistero, una sola resta aperta (e non sempre), ed è quella dirimpetto alla facciata del duomo, la quale è anche la più adorna di colonne, di bassorilievi, di lavori di ornato e di statue. L’interno del tempio ha nude pareti, divise in due ordini di architettura, il primo de’ quali è scompartito in 12 arcate a pieno sesto sostenute
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    da otto grandi colonne e da quattro pilastri staccati dal muro. Altro simile peristilio circonda la parte superiore del tempio, sopra il quale si alza la parete interna della cupola.
    Nel mezzo della rotonda sorge il fonte battesimale di forma ottagonale intagliato di marmi; ma l’opera che richiama gli amatori del bello è il portentoso pulpito di Niccola Pisano. Questa composizione del secolo XIII, di forma esagona, della circonferenza di 14 braccia tutta di marmo statuario, è sorretta da nove colonne, alcune della quali premono il dorso ad animali feroci, o a figure umane insieme aggruppate. Dai capitelli delle sei colonne che formano le parti prominenti dell’opera esagona staccansi altrettanti archi, ciascuno dei quali è ornato di tre piccoli archetti con figurine scolpite in alto rilievo, mentre negli scompartimenti attornianti il parapetto veggonsi lavorate magistralmente 5 storie rappresentanti la natività del Salvatore, l’adorazione dei Magi, la presentazione al Tempio, la Crocifissione ed il Giudizio universale.
    Quando Pisa non avesse altro da mostrare che il pulpito di Niccola consideratolo rispetto all’epoca in cui fu eseguito, si dirà sempre essere questo il più felice slancio fatto dalla scultura nel suo risorgere in Italia; si dirà inoltre che il pulpito del Battistero pisano e quello del duomo di Siena meritano all’autore non ché alla sua patria il primato nelle tre arti sorelle, tosto che in Pisa nacquero e fiorirono quasi contemporaneamente un Niccola, un Giunta, un Buonanno.
    Campanile pendente di Pisa . – Questa gran torre cilindrica fabbricata di marmo bianco e fasciata da 207 colonne, che sorreggono sette logge circolari; questa torre che a buon diritto è considerata fra i quattro più insigni edifizi pisani nel medio evo, ha promosso sempre mai lo studio non meno che la curiosità di ogni classe di persone per la sua maravigliosa pendenza di braccia 7 e 1/2 in un’altezza di braccia 93; talché di prima giunta a chi vi passa vicino sembra che ad ogni istante sia per rovinare;
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    né saprei dire se fu ancora vinta la lite più volte messa in campo sulla pendenza del campanile di Pisa; di crederla dovuta al caso piuttosto che all’arte; sicché può dirsi di questa ciò che della torre mozza di Bologna diceva il sommo poeta nel Canto XXXI del suo Inferno:

    Quale pare a riguardar la Carisenda
        Sotto ’ l chinato, quando un nuvol vada
        Sovr’essa sì ch’ella ‘n contrario penda.

    Lascerò volentieri a giudici competenti la decisione sulla sua pendenza qualora non fosse decisa in ultima istanza, e solo mi limiterò a far poche parole degli artisti che la costruirono, resa anche più celebre dal divino Galileo, quando egli dalla caduta de’gravi, cui per la sua pendenza la torre si presta, basò all’età di 25 anni i fondamenti della dinamica.
    Questo campanile per opera dell’architetto pisano Bonanno ebbe il suo principio nell’agosto del 1174 ( stile comune ), cioè 21 anni dopo la fondazione del battistero, e appena 76 anni dopo consacrata la Primaziale, ma s’ignora l’epoca in cui restò terminato. Rispetto al suo primo architetto tutti convengono che fosse un maestro Bonanno cittadino pisano, ma non tutti ammettono che l’opera fosse incominciata pendente, per arte piuttosto che in seguito lo divenisse per avvallamento del suolo. Che se Bonanno fu solo a incominciarla altri maestri succederono a proseguire e a completare cotanta mole. Quando non lo dicessero i cronisti pisani e il Vasari, lo fa conoscere un documento inedito. I più diedero per compagno a Bonanno un Guglielmo d’Inspruck, o secondo altri un Giovanni Ennipontano tedesco, aggiungendovi anco un terzo artista in Tommaso figlio dello scultore Andrea Pisano, come quello che intorno alla metà del secolo XIV edificava nella torre pendente l’ultimo ordine delle campane.
    Che il campanile del duomo di Pisa continuasse a lavorarsi dopo la morte di Bonanno suo primo autore, e innanzi che nascesse Tommaso figlio d’Andrea Pisano, lo dichiara la protesta fatta nel
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    27 dicembre dell’anno 1233 ( stile comune ) da Benenato operajo dell’Opera del duomo di Pisa, quando egli nell’entrare in carica giurò di attendere alla riparazione della chiesa maggiore, e alla edificazione del suo campanile secondo la possibilità e i mezzi della stessa Opera. – (ARCH. DIPL. FIOR. Carte della Primaziale ).
    E siccome tale promessa cadde 60 anni dopo principiata la torre in discorso, fia cosa facile a credere che l’edifizio stesso continuasse a fabbricarsi dopo il 1233 non più dal primo autore, sivvero da altri architetti, come furono maestro Guglielmo d’Inspruck o Giovanni Ennipontano tedesco, innanzi che nel secolo XIV un altro maestro nazionale, Tommaso d’Andrea Pisano, compisse l’opera.

    Dimensioni diverse del Campanile pendente di Pisa.

    Altezza del Campanile pendente, braccia 93 e 1/3
    Circonferenza esterna alla base, braccia 83 e 2/7
    Diametro interno del cilindro,
    all’ingresso del campanile, braccia 12 e 3/5
    Diametro interno nel restante
    del cilindro, braccia 13 e 1/4
    Inclinazione esterna, braccia 7 e 2/3
    Declinazione interna dalla linea perpendicolare, braccia 5 e 5/6

    Larghezze varie del muro.

    Alla sua base sopra terra, braccia 7
    Al second’ordine, braccia 4 e 2/3
    Al terz’ordine, braccia 4 e 1/2
    A tutti gli ordini superiori al terzo, braccia 4 e 1/4

    Le 15 colonne del prim’ordine, alte braccia 13 e 1/2 sono addossate alla muraglia; le 30 colonne di ciascuno de’ sei ordini superiori (180 fra tutte) sono distaccate dal muro in guisa da formare altrettanti peristili passeggiabili. Si sale sino al settimo ordine per una scala di 293 gradini di marmo bianco, praticata nella grossezza del muro, al quale essa gira intorno a spirale.
    L’8.vo ed ultimo ordine, circondato da 12 colonne con sei finestre grandi e sei piccole per le campane, è di un cerchio più ristretto degli altri, talché assai più largo è il suo peristilio difeso
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    da una ringhiera. Una scaletta di 37 scalini pure di marmo bianco conduce alla sommità della terrazza del Campanile, anch’essa riparata intorno da un terrazzino di ferro al pari di quello dell’ordine sottostante delle campane.
    Camposanto pisano . – Se le tre fabbriche testé designate dimostrano a chiare note l’opulenza; la grandezza d’animo e il valore dei Pisani sino dai primi secoli dopo il mille, questa del Camposanto, destinata a conservare le ceneri de’cittadini più benemeriti della patria, a costituire il Panteon degli uomini più illustri pisani; quest’opera principiata nel secolo XIII si lascia indietro tutte le altre di simil fatta. – Non credo vi sia persona, la quale all’entrare in cotesto silenzioso recinto della morte non si senta rapita da una specie di estasi sublime, e a un tempo stesso da profonda ammirazione nel contemplare l’originalità, la simmetria, l’alto scopo dell’opera, le varie bellezze artistiche e le tante rarità archeologiche delle quali trovasi decorata. Dondeché il Prof. Rosini ebbe ragione a riferire, che il Camposanto di Pisa è il testimonio dell’architettura nel suo rinascimento, oltre che esso offre nelle sue grandiose pareti la storia della pittura nei secoli XIV e XV, dovendolo anche riguardare qual galleria di bassorilievi antichi nei numerosi sarcofagi ivi trasportati; molti de’ quali servirono di modello e di eccitamento a Niccola, a Giovanni e ad Andrea, tre scultori pisani superiori a tutti i loro contemporanei, che possono dirsi i veri precursori di Donatello, del Ghiberti e del Buonarroti.
    Per due porte s’apre l’ingresso all’edifizio, una delle quali sopra l’architrave è terminata da una tabernacolo di marmo con sei statue lavorate da Giovanni Pisano; l’architetto della fabbrica. Questa opera però quantunque fossero stati gettati i fondamenti nel 1278 secondo un iscrizione interna, non sembra che restasse compita prima dell’anno 1464.
    Già ho detto di sopra che la Repubblica pisana fino al 1200 aveva ideato di edificare un camposanto urbano degno di ricevere la terra portata dal monte Calvario;
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    ma la sua esecuzione restò per allora nel desiderio, comecché si sappia essere stato cinque lustri innanzi il 1200 dal potestà di Pisa progettato agli Anziani del Comune l’erezione di un camposanto presso la Primaziale, al qual uopo egli proponeva di chiedere al capitolo ed all’arcivescovo una porzione di orto del palazzo arcivescovile per fabbricarvelo.
    Rispetto a quello che ora si ammira presso la chiesa Primaziale, nulla di più semplice e di più austero poteva immaginarsi dell’esterna sua architettura, nulla di più nobile e di maggiore armonia della interna sua struttura, costà dove si veggono riunite leggerezza, uniformità, buon gusto e delicatezza di lavoro, tanto nel pavimento a disegno, come ne’pilastri e nei finestroni, i quali ultimi, uno a contatto dell’altro, sono adorni di colonnine a spirale sostenenti graziosi archetti di stile gotico italiano, e che girano intorno al claustro interno rettangolare. Eccone le varie misure interne.

    La sua lunghezza, braccia 217
    La larghezza, braccia 72
    L’altezza dal piano alla soffitta, braccia 24
    Il giro totale, braccia 578
    La larghezza de’corridori, braccia 18

    Imponente quanto bella e semplice è la gran tettoia a cavalletti che sorregge la lacunare difeso da lastre di piombo. Ma soprattutto mirabili sono le pitture dei vecchi maestri che da capo a fondo ricuoprono le interne pareti, massime dove lavorarono Giotto, Orgagna e Benozzo Gozzoli fiorentini, Spinello aretino, Simone Memmi e Pietro Laurati sanesi. Le quali pitture furono con giudizio artistico descritte dal Prof. Rosini in un opuscolo più volte ristampato unitamente all’indicazione de’monumenti di scultura che per cura del Prof. Carlo Lasinio, zelantissimo conservatore, adornano a guisa di un’insigne galleria questo sacro edifizio.
    Chiesa di S. Paolo a Ripa d’Arno. – Fra le più belle chiese antiche che figurano in Pisa dopo i quattro monumenti qui sopra descritti, viene immediatamente questa di S. Paolo a Ripa
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    d’Arno. Imperocché la sua architettura tanto interna quanto esterna ci richiama al secolo XI. Infatti essa era già uffiziata, e l’annesso monastero nel principio del secolo XII abitato dai monaci Vallombrosani, siccome lo dimostrava il Pontefice Pasquale II in una bolla del 9 febbrajo 1115 a favore della Congregazione di Vallombrosa; alla quale appartennero la chiesa di S. Paolo a Ripa d’Arno ed il monastero con i molti suoi beni fino all’anno 1565.
    Cotesta chiesa, vasta anzi che no, disposta in croce latina, è ripartita in tre navate con colonne di granito orientale e capitelli variati di marmo, su cui posano archi a sesto intero, mentre le pareti, state già ornate di antiche pitture da Buffalmacco, da Cimabue, da Simone Memmi e da altri venerati maestri, furono ricoperte e deturpate con più pennellate di calcina da imbianchini.
    Nell’interna facciata dalla parte destra entrando esiste un’iscrizione onorevole che i pisani misero al sepolcro del celebre loro concittadino Burgundio, morto lì 30 ottobre del 1194 ( stile pisano ), mentre il sarcofago che racchiudeva le sue ossa è rimasto abbandonato fuori della porta di fianco di cotesta chiesa.
    Ma il più bel lavoro apparisce meglio che altrove nella facciata stata scompartita sino dalla sua origine in quattro ordini nella parte di mezzo e in due ordini nelle sue fiancate.
    A ben considerare la varietà de’membri architettonici ivi esistenti; la forma e varietà degli archi, alcuni de’ quali a sesto intero ed altri a sesto semi acuto; a contemplare la diversità del disegno del lavoro, dove più dove meno squisito, sia negli ornati, come nelle cornici, ne’fogliami e ne’capitelli, a riguardare cotanta bizzarria e varietà ne’bassorilievi; tutto induce a credere che molti e di vario merito siano stati gli artisti che in cotesta facciata contemporaneamente si adoperavano quando ancora le arti belle profondi sonni fuori di Pisa dormivano.
    Chiesa della Spina . – Questa chiesina è un gioiello che fa graziosa mostra di sé appena
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    si passeggia nei grandiosi Lungarni di Pisa, giacché ti sembra di vedere quasi un modellino di un gran chiesone qual’è il duomo di Milano, per le tante gugliette, tabernacoli, statuine, ed altri minuti e squisiti lavori di marmo che da cima a fondo ornano l’esterna fabbrica e specialmente la sommità della facciata e delle sue pareti laterali.
    Un oratorio anche più piccolo esisteva costì quando nel 1323 la stessa chiesina, per deliberazione degli Anziani di Pisa suoi patroni, fu ingrandita con estenderne i suoi fondamenti fino alle logge de’Gualandi per una lunghezza di 18 pertiche. Allora essa chiesa appellavasi di S. Maria del Ponte nuovo , perché ivi presso esisteva un ponte, portato via da una piena dell’Arno nel secolo XIV avanzato.
    Qualche tempo dopo caduto il Ponte nuovo la stessa chesina prese il titolo di S. Maria della Spina per esservi stato riposto un frammento della Corona di spine del SS. Redentore.
    Bisogna convenire col Morrona dicendo che questa chiesuola è il più bel monumento che fino ai giorni nostri si conservi in Italia in simil genere di architettura, la quale ripetuta assai più in grande si ammira nel magnifico duomo di Milano eretto dal duca Giovanni Galeazzo Visconti nel tempo che fu signore di Pisa, dove da gran tempo innanzi esistevano due bellissimi esemplari, come sono il Battistero e la chiesa della Spina.
    Lascio la descrizione dettagliata di quest’ultima e di tante altre chiese meritevoli di essere contemplate in questa città, come quella di S. Niccola per l’arte con cui è costruita la scala di quel campanile, la chiesa di S. Francesco per la sua forma svelta e l’arco arditissimo di 30 braccia di corda che si alza nell’interna crociata, non che per l’alto suo campanile, la metà del quale posa sopra due mensoloni sporgendi in un angolo del cappellone a destra della chiesa medesima, per i due grandiosi ed uniformi loggiati dell’annesso claustro per
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    essere qui i sepolcri delle famiglie più cospicue di Pisa. Così lascerò le chiese di S. Michele in Borgo, di S. Caterina, e tante altre del medio evo, perché la loro descrizione non è da richiedersi in quest’opera né da me, tostoché ognuno che il voglia può esserne istruito dal viaggio pittorico della Toscana del Fontani , dalla Pisa illustrata del Morrona e dalla descrizione artistica di Pisa del Grassi , tutti libri raccomandabili a chi brama conoscere meglio le opere di arti e gli edifizi più belle di questa insigne città.
    Altri edifizi più segnalati di Pisa . – Non si può lasciare questa città senza rammentare i suoi impareggiabili Lungarni, i tre ponti che li attraversano, alcuni palazzi che li fiancheggiano, il luogo dove fu l’arsenale delle galere, la cittadella vecchia ecc. Quindi aggiungere una parola sulle sontuose fabbriche che adornano la piazza de’Cavalieri, sulle pubbliche fonti di Pisa che ricevono dai lunghi acquedotti di Asciano acque saluberrime per tutta la città.
    Ponti di Pisa . – Un ponte solo, quello di mezzo , anticamente cavalcava l’Arno dentro Pisa, che a similitudine del ponte vecchio di Firenze sosteneva ed era fiancheggiato da botteghe di proprietà del Comune. Si disse anche questo di Pisa Ponte vecchio dopo costruito il secondo ponte all’ingresso orientale dell’Arno; il qual ponte coincide all’epoca della vittoria riportata dai Ghibellini nei campi di Montaperto. Si vuole che del secondo ponte facesse gettare le pile il ricco Ugone da Fasiano arcivescovo di Nicosia, fondatore del priorato di Nicosia nella valle di Calci. Presso al ponte stesso fu più tardi edificata dai Fiorentini la Cittadella nuova , stata atterrata sul declinare del millesettecento, dopo aver dato al ponte il nome che porta tuttora di Ponte alla fortezza .
    A questo al pari che all’altro ponte vecchio ne’tempi
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    della repubblica pisana presedeva un personaggio distinto della città, sotto il titolo di pontonario , il quale amministrava i beni e riscuoteva l’entrate assegnate in dote a ciascuno di quei ponti, siccome apparisce da varie provvisioni degli Anziani, e dagli statuti del Comune di Pisa dell’anno 1286.
    Comecché la Cittadella nuova di Pisa fosse compita da Giuliano di Sangallo che ne diresse i lavori fra il 1509 e 1512, essa peraltro era in costruzione molti anni prima, poiché la Signoria di Firenze con provvisione del dì 8 novembre 1465 ordinò agli uffiziali del Canale di spendere tutti i denari che riscuotevano di gabella nella riparazione della rocca vecchia e di quella nuova di Livorno, e nelle torri fatte nel Porto Pisano e in quella della foce d’Arno; e di poi che dovessero far compiere la Cittadella nuova di Pisa con le sue torri in modo da poterla ben difendere e guardare .
    Arroge a ciò un’altra provvisione della Signoria del 16 febbrajo 1471 ( stile fiorentino ) colla quale fu nominato maestro Lorenzo figlio di maestro Domenico da Firenze in capo maestro della Cittadella nuova di Pisa per provvedere e assistere agli edifizj che ivi erano da farsi. – (GAYE, Carteggio inedito di Artisti. Volume I. Appendice II).
    Ma la notizia da non omettersi è che poco dopo costruito il Ponte nuovo della Spina venne a farsi a traverso dell’Arno, e quasi nel centro della città un terzo ponte sotto la chiesa, che poi si disse della Spina ; il quale pur esso fu appellato Ponte nuovo . Infatti negli statuti pisani del 1286 al Lib. IV rubrica undici si rammentano entrambi, cioè, il Ponte nuovo della Spina e l’altro Ponte nuovo che sino d’allora esisteva dirimpetto alla Via maggiore di S. Maria, e l’altra di S.
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    Antonio nell’Oltrarno.
    A qual epoca poi si fabbricasse l’ultimo ponte di Pisa, quello cioè fra la Cittadella vecchia e la Porta a mare , non potrei accertarlo, quando non corrispondesse al ponte che nel 1331 fu edificato sotto il capitanato del Conte Fazio della Gherardesca, mentre Arrigo Dandolo di Venezia esercitava l’uffizio di potestà di Pisa. Al che gioverebbero le parole del Vasari dove dice, che il Ponte a mare un secolo dopo la sua costruzione venne restaurato da Filippo di Brunellesco per ordine della Signoria di Firenze.
    Forse fu in quella circostanza che i provveditori del Comune di Pisa pel Comune di Firenze con provvisione del 10 aprile 1408 deliberarono di comprare dalle monache di Tutti i Santi, venute dal subborgo di Pisa ad abitare nel monastero e chiesa di S. Vito, tutti i mattoni dell’antica loro chiesa, monastero e case che furono atterrate e distrutte in tempo dell’assedio, per servire quei mattoni alla fabbrica dei fortilizj della Cittadella che si edificava dentro Pisa. – (ARCH. FIOR. DIPL. Carte del Mon. di S. Lorenzo alla Rivolta ).
    Il Ponte vecchio o di mezzo , famoso per il giuoco denominato del Ponte , perché sopra di esso eseguivasi ogni triennio una lotta che era più guerra che un giuoco non solo è il più antico ponte, ma ancora il più largo di tutti. Esso riposa sopra tre soli archi, mentre quello superiore della Fortezza ne ha quattro e il Ponte a mare cinque. – Si vuole che il Ponte vecchio fosse eretto la prima volta nell’anno 1040, poi rifatto nel 1261 con botteghe di legno sopra, finché quelle taberne nel 1382 vennero disfatte quando il ponte per ordine di Piero Gambacorti fu restaurato e abbellito. Ma nel 1635 essendo caduto in Arno, fu riedificato nel 1640 con inusitato
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    ardire ad un solo arco, il quale rovinò appena fu liberato dall’armatura (1 gennajo 1644). Finalmente il ponte attuale di marmo devesi alla munificenza del Granduca Ferdinando II che ne affidò l’esecuzione all’ingegnere dell’Uffizio de’Fossi Francesco Nave.
    E specialmente sul Ponte di mezzo dove chi passa resta sorpreso alla vista dei bellissimi Lungarni pisani, e più ancora quando da cotesto ponte si contempla la triennale luminara di Pisa nella notte del 16 al 17 giugno. Fanno al medesimo un bel corredo, alla coscia meridionale, le grandiose Logge di Banchi, le quali stanno in mezzo all’antico palazzo de’Gambacorti, ridotto ad uso di dogana, alla pubblica torre ed al palazzo del governo, stato con magnificenza riedificato sopra due antichi palazzi, municipale e pretorio, col disegno del valente architetto pisano Alessandro Gherardesca; mentre dirimpetto alla coscia settentrionale dello stesso ponte apresi la principale strada di Pisa, quella del Borgo con i suoi portici, e presentasi ad esso di fronte col palazzo del Casino la piazza più animata di Pisa, la quale fino dal secolo XIII portava il nome del Ponte, dove anco allora si adunavano gli oziosi artigiani ed il minuto popolo, siccome lo dichiarano gli statuti del Comune di Pisa del 1286 al Lib. IV rubrica 30. De Salariis magistrorum etc. in cui si legge: Et quando habent laborerium (gli artigiani) non debeant ire ad Pontem veterem .
    Edifizj pubblici intorno alla piaza de’Cavalieri . – Dopo la piazza del Duomo, dopo i Lungarni di Pisa, per bellezza e per magnificenza viene la piazza de’Cavalieri, artisticamente e storicamente descritta dal Morrona e dal Grassi. Quest’ultimo autore non solo ha rappresentato in disegno la piazza moderna, ma ancora quella più antica degli Anziani colla Torre della Fame , già de’Gualandi alle Sette vie , torre infausta perché servì di carcere e di tomba al conte Ugolino di Donoratico, a due figli e a
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    due nipoti.
    È fama che la torre predetta esistesse accosto all’arco sotto cui passa la strada che guida al Duomo, attualmente disfatta ed incorporata nel palazzotto dell’orologio. Dicevasi delle Sette vie , forse dal numero delle strade che facevano capo in questa piazza; giacché può dirsi costà il centro della vecchia città di Pisa, l’antico suo foro, fra le fabbriche maggiori degli uffizi pubblici dov’era il palazzo degli Anziani. Quest’ultimo però al tempo del conte Ugolino apparteneva alla casa di Oddone del Pace e consorti , tostochè più d’un istrumento dell’archivio Arcivescovile pisano dell’anno 1280 fu rogato in Pisa in domo Oddonis Pacis et consortum, in qua morantur Antiani populi pisani . Quindi non saprei spiegare come Vasari poté attribuire l’architettura del palazzo degli Anziani a Niccola Pisano, tosto che quest’artista morì nel 1275. Comunque sia è certo, che Vasari fu l’autore del palazzo Conventuale de’Cavalieri di S. Stefano, rifatto su quello degli Anziani, o di Oddone del Pace. Da cotesta residenza però era alquanto discosto il palazzo del Potestà, quello dove furono presi nel dì primo luglio del 1288 i cinque infelici individui di casa Gherardesca, poiché il palazzo pretorio trovavasi nella piazza di S. Ambrogio; la qual chiesa serve attualmente per officina di falegname nella piazzetta del Castelletto precisamente dove è attualmente il Monte di Pietà, mentre il palazzo degli Anziani, ossia del Comune di Pisa era nella piazza di S. Sebastiano delle fabbriche maggiori , nel luogo della qual chiesa fu fondata per ordine di Cosimo I quella conventuale de’Cavalieri di S. Stefano papa e martire.
    Rispetto ai pregi di quest’ultimo tempio, ed alle artistiche sue rarità ne parlarono a lungo il Vasari, il Baldinucci e più di corto i due autori pisani testé nominati, cui si deve ancora al descrizione speciale degli altri edifizi destinati al servizio di quell’ordine cavalleresco, che mostrano la grandezza dell’oggetto e la magnificenza di chi
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    li ordinò.
    Palazzo de’Granduchi, ed altri edificj pubblici di Ferdinando I . – Se Cosimo I fissò in Pisa la sede dell’ordine militare de’Cavalieri di S. Stefano coll’innalzare nella piazza di questo nome superbi palazzi e una chiesa sontuosa, il di lui figlio e successore, Ferdinando I, non solo incoraggiò il commercio de’Pisani ristabilendo fiere e mercati, ma abbellì la città di sontuosi edifizj e di monumenti insigni. Citerò fra questi il grandioso collegio che tuttora mantiene il suo nome, i varj palazzi e la chiesa che fece terminare nella piazza de’Cavalieri, la Loggia di Banchi o de’Mercanti ed il palazzo granducale. Per ordine di Ferdinando I fu aperto il fosso de’Navicelli fra Pisa e Livorno, furono incominciati gli acquedotti che portano alla città salubri acque dalle sorgenti di Asciano, talché i Pisani riconoscenti innalzarono a Ferdinando I un monumento sulla ripa destra dell’Arno dirimpetto allo sbocco di via S. Maria, consistente in un gruppo di marmo rappresentante la città medesime sotto l’allegoria della fecondità nell’atto di essere sollevata dal Granduca suo benefattore. – Mossi da un simile scopo i Pisani moderni hanno provocato un appello agli uomini sensibili toscani ed Europei, i quali devoti e riconoscenti corsero per contribuire volenterosi alla spesa di una statua colossale di marmo da scolpirsi dall’abile artista Pampaloni e quindi innalzarsi, come è accaduto nel 1833, in una delle più grandi piazze di Pisa col semplice, nobile e veridico titolo, come è questo: AL GRANDUCA PIETRO LEOPOLDO I QUARANT’ANNI DOPO LA SUA MORTE.
    Sebbene debbasi a Cosimo I l’idea ed il principio dell’arsenale Mediceo eseguito col disegno del Bontalenti nel Lungarno settentrionale pure un grande arsenale ivi esisteva fino dai tempi presso la chiesa di S. Vito, e quello che ora si vede fu terminato dal Granduca Ferdinando I, nell’anno 1588, primo del suo governo. Sopra sei o sette pilastri che sorreggono le arcate, in origine aperte, si leggono tuttora le memorie di alcuni fatti
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    gloriosi spettanti ai Cavalieri di S. Stefano.
    Dissi quest’arsenale fabbricato nel luogo dove fu quello più antico per lo stesso uso dai Pisani chiamato Tersana , mentre Targioni al Tomo II de’ suoi Viaggi pag. 53, fra i ricordi da lui trovati in un codice a Pisa lesse il seguente: Al 29 maggio 1541, Cosimo I diede ordine di assettare le Tersonaje ( Tersana ) a S. Vito dicendosi di voler fare le galere, e nel 1548 fu messa in mare la prima galera.
    Infatti negli statuti de’ consoli della Repubblica Pisana del 1162 trattasi del sindacato da darsi ai consoli vecchi, ai camarlinghi, ai vigili del Comune, agli operai e maestri de’muri, al custode della guardia di S. Vito, ed ai consoli del mare , i quali ultimi a quel tempo erano obbligati di far costruire ogn’anno venti galere.
    A questa Tersana (arsenale delle galere di Pisa) appella una provvisione de’Signori di Firenze del dì 8 novembre 1465 che ordinava agli uffiziali del Canale di far acconciare la cittadella vecchia di Pisa e le sue torri ad uso di Arsana o arsenale , soggiungendo ivi: e questo debbano aver fatto dentro l’anno 1467 .
    I quali lavori non essendo rimasti compiti al termine prescritto, con altra provvisione del 30 settembre 1468 fu ordinato, di dar compimento all’ Arsana di Pisa affinché in essa si conservino le galere . Dalla qual provvisione si rileva che erano stati fatti nove archi dell’Arsenale per mettervi al coperto altrettante galere, oltre dieci legni sottili già terminati, mentre il lavoro di altre quattro galere era molto avanzato; le quali cose fu decretato che restassero compite dentro il mese di luglio 1469. – (GAYE, Carteggio inedito di Artisti Tomo I Appendice II).
    Fra le opere di architettura non deve passarsi sotto silenzio la
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    gran fabbrica del Sostegno innalzata presso la coscia sinistra del Ponte a Mare, là dove entrano i navicelli nel fosso artificiale per trasportare le merci a Livorno e viceversa, opera ordinata dal Granduca Pietro Leopoldo insieme con la ricostruzione della tettoja affinché le barche vi stassero al coperto.
    Ma innanzi di escire dai Lungarni di Pisa, fra i palazzi che l’adornano, e che specialmente richiamano la curiosità del viaggiatore, non va lasciato il palazzo Medici presso S. Matteo, ora del conte Pieracchi, prima abitazione di Cosimo I, dove gli storici dicono che accadesse la morte di don Garzia per mano dello stesso suo padre e dove alloggiò Carlo VIII re di Francia. Né debbono tacersi per merito architettonico il palazzo Lanfranchi, ora Toscanelli, e quello delle stanze Civiche al caffè dell’Ussero per gusto di stile del secolo XV. Contasi pure fra le curiosità il palazzo di marmo de’Lanfreducci, ora Upezzinghi, fatto colla direzione di Cosimo Pagliani, dove sopra l’arco della porta maggiore havvi un pezzo di catena, e nell’architrave scolpita a lettere cubitali la parola «ALLA GIORNATA». Rispetto alla catena è noto solamente che nel palazzo suddetto fu incorporata la chiesa di S. Biagio alle Catene di padronato della famiglia Lanfreducci. In quanto poi al motto ALLA GIORNATA non vi è tradizione né memoria alcuna che ne indichi la ragione.
    Non lascerò di accennare il grandioso palazzo arcivescovile riedificato di pianta presso l’antico episcopio sulla fine del secolo XVI dall’arcivescovo Carlo Antonio del Pozzo, accresciuto e decorato due secoli dopo dall’arcivescovo Angelo Franceschi, e sontuosamente addobbato dall’attuale arcivescovo Giovanni Battista Parretti. Mi limiterò soltanto a dire che nelle stanze terrene del suo grandioso cortile, circondato di un loggiato sorretto da colonne di marmo di Carrara, esiste il ricco archivio arcivescovile fornito di quasi 3000 pergamene, a partire dall’anno 720 fino al secolo XV avanzato, tutte cronologicamente disposte e copiate in varj volumi, con più una riunione di molte altre membrane appartenute al
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    monastero di S. Matteo di Pisa, e a più conventi d’altri paesi della Toscana.

    ISTITUTI DI BENEFICENZA

    Pia Casa della Misericordia . – Pisa anche in genere di provvedimenti caritatevoli precedé le più illustri città, se è vero che l’istituzione di cotesta pia Casa risalga all’anno 1053, comecchè non basti a provarlo una copia non molto antica dell’istrumento di sua fondazione, che ivi si tiene in mostra, e che attribuisce la prima fondazione e dotazione della stessa Casa a 12 generosi pisani stati eletti tre per ogni quartiere, segnati coi casati della famiglie, quando la città era ripartita per Porte, e quando non si era ancora introdotto l’uso de’casati.
    Checché sia, giova senza fallo cotest’istituto per far conoscere l’indole pia e caritatevole dei suoi fondatori e lo scopo generoso col quale in origine fu eretto, cioè, pel riscatto degli schiavi e per sovvenire le famiglie vergognose. Ma in progresso di tempo il suo patrimonio essendo stato accresciuto per generosità di nobili pisani, e specialmente per la vistosa donazione fatta nel 1341 dal conte Bonifazio della Gherardesca, la pia Casa della Misericordia poté estendere le sue beneficenze sopra molte altre opere misericordiose, fra le quali quella che tuttora si pratica di dotare proporzionatamente alla nascita e al destino non poche fanciulle spettanti a povere famiglie nobili o cittadine. – Vedere CASTELNUOVO DELLA MISERICORDIA.
    A benefizio pure dei poveri da tre altri generosi cittadini pisani nel secolo XVII furono lasciati considerevoli legati sotto i nomi de’loro fondatori, Mezzanotte , Casiani , e Fancelli , coi frutti de’quali fra le altre cose si dotano ogn’anno circa 80 oneste fanciulle.
    Spedale di S. Chiara, già della Misericordia di S. Spirito . – Molti erano in Pisa ma tutti piccoli gli ospedali annessi a varie chiese innanzi che il Pontefice Alessandro IV nel 1257 accordasse ai Pisani l’assoluzione delle censure a condizione
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    che fondassero un vasto ospedale da doversi terminare nel corso di cinque anni con la spesa di diecimila lire. Dondeché appena eseguita cotesta fabbrica, le si diede il nome di Spedale nuovo di Papa Alessandro, poi della Misericordia di S. Spirito , ed ora dalla sua chiesa, di S. Chiara .
    Vi vollero però circa 80 anni innanzi che lo spedale in discorso restasse ultimato. In seguito il suo patrimonio fu accresciuto da legati pii e dalle rendite di minori spedali riuniti, nonché dai beni di molte chiese e monasteri soppressi. Sul declinare del secolo XVIII furono sottoposti a quello di S. Chiara lo spedale de’ Trovatelli e l’annessa casa di Refugio de’poveri. Ed ora per munificenza del Granduca LEOPOLDO II felicemente regnante, non solo ne è stata aumentata la dote, ma fu ampliata l’infermeria degli uomini, edificata una nuova per le donne, e costruito un comodo teatro anatomico con annesso gabinetto fisico patologico.
    Rispetto allo spedale degl’Innocenti, ossia de’Trovatelli, due ne esistevano in Pisa, uno sotto il titolo di S. Domenico fondato nel 1218 nella via di S. Lorenzo alla Rivolta, l’altro intitolato a S. Spirito nel quartiere di Chinsica, cui venne incorporato il primo per decreto arcivescovile del 26 settembre 1323 ( stile pisano ), finché nel 1421 quest’ultimo fu traslocato vicino alla piazza del Duomo, presso la chiesa di S. Giorgio di Ponte o de’ Tedeschi , dove tuttora risiede.
    La casa poi di Refugio per i poveri fu instituita ed aperta per cura del Granduca Pietro Leopoldo in origine nel soppresso monastero delle Convertite, quindi trasportata nel locale annesso allo spedale dei Trovatelli.
    Non debbo omettere fra i pii stabilimenti di carità due Orfanotrofi, uno pei maschi e l’altro destinato alle femmine, col nome di pia Casa di Carità, i quali furono fondati nel 1686, e sono mantenuti da una generosa società di cittadini. Rammenterò anche la compagnia della Misericordia modellata
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    in gran parte su quella caritatevolissima di Firenze. Accennerò il Monte di Pietà fondato nel 1434 nel locale dove fu il palazzo pretorio della repubblica pisana, in luogo ora denominato il Castelletto . – A questi stabilimenti di pubblica beneficenza si collega una scuola infantile per i poverelli, la quale fu la prima di tutte che si eresse di simil genere in Toscana, cui si potrebbe aggiungere una scuola di reciproco insegnamento ed un istituto pei sordo muti fondato dal Granduca Ferdinando III nel 1817, aumentato e migliorato dall’Augusto suo figlio regnante LEOPOLDO II. Ma cotesti due ultimi istituti si collegano cotanto strettamente con quelli d’istruzione pubblica da doverli piuttosto ammettere nella serie seguente.
    Stabilimenti d’istruzione pubblica – Pisa anche in questo rapporto potrebbe essere l’Atene della Toscana, quante volte si considerino le dovizie che racchiudonsi ne’suoi archivj pubblici, come quello arcivescovile, del capitolo, dell’opera del Duomo, dello spedale, della pia casa di Misericordia, oltre gli archivj di molte famiglie cospicue di Pisa, fra i quali doviziosissimo è quello del Cavaliere Roncioni; e quante volte si contemplino i molti vetusti monumenti di belle arti che costà in maggior numero che altrove si ritrovano; infine quando uno riflette ai comodi che presta Pisa agli studiosi con la sua università per il merito de’professori, per l’abbondanza di libri, di macchine e di esemplari esistenti nella pubblica biblioteca, nell’anfiteatro fisico, nel museo di storia naturale e nell’orto botanico.
    Ammesso che Pisa sino dal secolo XII avesse un pubblico liceo, specialmente per le scuole di diritto umano e divino, ciò non ostante la prima instituzione, piuttosto che la restaurazione della sua università, devesi al conte Bonifazio Novello della Gherardesca nel tempo che reggeva Pisa (dall’anno 1329 al 1341). Imperocché ad intuito di lui furono invitati al nuovo ginnasio i professori più distinti di quel tempo; e fu allora che il concorso di studenti da varie parti di Europa accrebbe gente e celebrità alla città di Pisa, a
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    favore della quale il Pontefice Clemente VI spedì una bolla nel 1345 che approvava e privilegiava cotesto santuario delle scienze. – Ma il ginnasio pisano, oltreché mancava di un locale capace a riunire insieme un maggior numero di scuole, per la fortuna de’tempi andò talmente decadendo, dopo la dedizione di Pisa a Firenze, che i reggitori di quest’ultima città si determinarono di restituire alla prima la sua università. A tale effetto fu creata una deputazione di quattro distinti fiorentini, uno per quartiere, presieduti da Lorenzo de’ Medici, sotto il titolo di uffiziali dello studio fiorentino e pisano, incaricati specialmente di riattivare con decoro l’università di Pisa. A favore della quale i deputati a ciò nominati nel 1478 riformarono gli statuti dell’antico ginnasio, aumentarono i salari ai professori, chiamando a Pisa i più famigerati dottori di quella età; finalmente diedero principio all’edifizio della Sapienza (anno 1493) stato poi nel 1543 grandiosamente da Cosimo I de’ Medici ampliato di comodi, di cattedre, e di onorari. Fu poi sotto i fausti auspici di Leopoldo II che videsi innalzato nel centro del suo cortile il simulacro di marmo del divino Galileo nel giorno medesimo (1 ottobre 1839) che si apriva nella Sapienza pisana il primo congresso degli scienziati in Italia, grazie alla Sapienza e magnanimità di tanto Principe.
    Nulla dirò del Collegio Ferdinando istituito nel 1595 dal primo Granduca di quel nome per raccogliervi 40 studenti pensionati da varie città e terre della Toscana; né tampoco parlerò degli altri due collegj Puteano e Ricci , fondati da due arcivescovi, il primo per mantenere otto alunni del Piemonte, l’altro per altrettanti giovani di Montepulciano che venissero eletti per recarsi a studio in Pisa. – Né tampoco farò menzione di un’accademia poetica sotto il titolo di Colonia Alfea , figlia dell’Arcadia di Roma, giacché la mania de’versi ha ceduto il posto alla mania del romanticismo.
    Accademia di belle arti
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    . – Era troppo giusto che una città come Pisa stata sede primigenia delle Belle arti, alla nostra età avesse uno studio pubblico di disegno. Che sebbene questo nei secoli trapassati mancasse ai Pisani, sebbene l’attuale nato con modesti principj conti pochi anni di vita, pure l’accademia delle Belle arti di Pisa progredisce tanto bene da correre già in seconda linea con i primarj istituti di simil genere che da lungo tempo contano varie città cospicue dell’Italia.
    Industrie manifatturiere della città di Pisa . – I Pisani sotto il felice governo dell’Augusto che regge i destini della Toscana hanno progredito talmente sotto il rapporto degli stabilimenti manifatturieri, che dal 1828 fino al 1841 sono state erette undici fabbriche di tessuti di cotone, lana e seta dove si trovano 348 telaj che lavorano quotidianamente e producono braccia 9.599.000 di drappi di varia qualità, senza dire che una grandiosa stamperia d’indiane all’uso di Svizzera eretta nel 1827 ai Bagni di Pisa stampa da circa 10.000 pezze l’anno; che una manifattura di berretti e una filanda di lana messa in attività nel 1828 a Calci produce circa libbre 80.000 di lavoro; che due fabbriche di Terraglie esistono nel subborgo di Porta alle Piagge, e che una sega a macchina fu eretta nel 1831 dentro Pisa. Solamente giova avvisare che cotesti stabilimenti opificiarj danno lavoro ad un migliajo di persone de’due sessi, e che mettono in giro nel commercio qualche milione di lire per anno.

    CERCHI DIVERSI DELLA CITTA’ DI PISA

    Il giro più antico di questa città può dirsi perduto nei monumenti storici, giacché quello esistito intorno al mille, prima cioè che si racchiudesse in città il quartiere di Oltrarno, ossia di Chinsica , non sembra corrispondere alla situazione geografica dell’Antioca Alfea, né alle memorie superstiti del secolo undecimo, le quali rammentano due luoghi della città vecchia allora fuori delle mura del secondo cerchio
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    di Pisa.
    Fino dalla prima pagina dell’articolo presente dissi, che, se la posizione geografica di Pisa è appena variata da quella de’tempi vetusti, essa è molto diversa oggidì rispetto alla corografia del suolo sul quale riposa. Avvegnaché la situazione attuale di questa città non corrisponde a quella descrittaci da Strabone e da Rutilio Namaziano, quando cioè, l’Arno dalla parte meridionale, e l’ Auxer (il Serchio, o piuttosto l’Oseri) dalla parte settentrionale lambivano le mura innanzi che essi confluissero in un solo letto. Quindi ne conseguiva che Pisa essendo stata fiancheggiata, e quasi circondata da due fiumi, presentare doveva la sua fronte difesa dal lato di ponente e di settentrione onde resistere alle frequenti aggressioni de’Liguri, dai quali, per asserto degli storici antichi, i Pisani erano inquietati. Che nei tempi del romano impero la città medesima fosse situata più verso settentrione e levante, e tutta alla destra dell’Arno, lo dichiarano gli avanzi degli edifizi antichi, ed i nomi restati ai luoghi dove furono l’ anfiteatro ( Parlascio ) leTerme ecc., e più di tutto lo dimostrano due istrumenti pisani scritti nell’11 marzo del 1029, e nel 14 agosto del 1031, nei quali sono rammentati due luoghi, allora rimasti fuori di Pisa, uno de’quali presso la chiesa di S. Lorenzo alla Rivolta, ora piazza di S. Caterina, e l’altro ne’contorni della chiesa di S. Zeno, che si dicevano posti in quell’età nella città vecchia . – (ARCH. DIPL. FIOR. Carte di S. Michele in Borgo ).
    Io non saprei qual fede possa meritare una certa pianta della città di Pisa conforme era nell’anno 853, pubblicata dal Del Borgo nelle sue dissertazioni pisane, e delineata da un maestro Bonanno pisano. Poiché, se l’autore di quella pianta fu, come si suppone, quel Bonanno architetto che fondò nel 1174 il campanile pendente, lo ché vorrebbe dire disegnata quattro buoni secoli dopo, come si poteva riconoscere dopo sì lungo lasso di
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    tempo l’andamento di quelle mura? e se fu disegnata intorno all’anno 853, o lì presso, perché mettervi tante chiese di Pisa che nell’853 non esistevano? come poi potevano scriversi tutti quei nomi in volgare, fra i quali il Gitto d’Arno , il Circo navale , il Templo e le Therme di Hadriano , ecc., in un’età in cui cotesta lingua nostra non era ancora in uso?
    Checché ne sia, è certo però che la città di Pisa, prima del mille non solo era di una più ristretta periferia, ma aveva cambiato alquanto di direzione.
    Lo dice la chiesa di S.Andrea Foris portae , e lo attestano tutte le carte del monastero di S. Michele in Borgo che dal millecentocinquanta collocano la stessa chiesa e monastero fuori di Pisa presso Porta Samuele ; siccome erano fuori di Pisa nel secolo XI le chiese, e monasteri di S. Matteo e di S. Silvestro al pari dell’altra di S. Pietro in Vinculis .
    Che se anche qui non prendo abbaglio, a me non sembra tampoco persuadente l’antico cerchio della città di Pisa descritto nella storia inedita del canonico Roncioni, secondo il quale la Pisa romana sarebbe stata in mezzo ad un triangolo sì ma rovesciato, con la sua punta cioè volta a settentrione e la base sulla sponda destra dell’Arno.
    A seconda del Roncioni, le mura di Pisa passavano dal lato settentrionale fra la porta del Ponte d’Oseri e quella al Parlascio , creduta l’antica Porta Latina . All’incontro dalla parte di levante le mura urbane, a parere di quel canonico, incamminavansi dietro la chiesa di S. Caterina per comprendere nella città il luogo della Rivolta , e di là sino all’Arno, lungo il quale trovavasi la così detta Porta Aurea , nome rimasto poi ad una vicina chiesa (di S.
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    Salvatore). Presso alla via maggiore di S. Maria le mura pisane voltavano la fronte a maestro per dirigersi alla porta del Ponte d’Oseri onde compire il giro della città.
    Ma se l’Arno dentro Pisa non ha mai variato di letto, se il Serchio non deve, come io dubito, credersi l’ Auser di Plinio e di Rutilio, né l’ Esar di Strabone, ma piuttosto una sua diramazione letteralmente tradotta dai Pisani in Oseri , allora cambia affatto la scena.
    Avvegnaché mentre mancano documenti per assicurarci che il Serchio siasi vuotato tutto nell’Arno davanti a Pisa, troppe memorie ci restano dei secoli posteriori al mille, dalle quali chiaramente si rileva che il fiume Oseri , staccato dal Serchio di quà dalla gola di Ripafratta, dirigevasi in Arno sopra, sotto ed anco dentro Pisa, innanzi di avviarsi direttamente in mare. – Vedere appresso COMUNITA’ DI PISA.
    Per ciò che spetta all’antica configurazione di cotesta città, partendo dal fatto incontrastabile della sua posizione, qual era quella d trovarsi fra l’Arno e l’ Auser , mi sembra fuor di dubbio che il suo caseggiato dovesse largheggiare a proporzione che i due fiumi si discostavano dall’angolo dove confluivano. Lo che resta quasi confermato dagli avanzi superstiti di Pisa romana, a partire dal vestibulo di un tempio pagano appoggiato alle mura della profanata chiesa cattolica di S. Felice; lo dicono le terme, l’anfiteatro, il distrutto circo e palazzo dei Cesari verso il Duomo, le colonne di marmi orientali, i capitelli, le iscrizioni, i sarcofagi numerosi stati dissepolti dentro Pisa per lo più alla destra dell’Arno e a qualche distanza dallo stesso fiume. Sicché bramando tentare degli scavi di un interesse archeologico in cotesto suolo classico, di molte braccia rialzato dal terreno di trasporto, converrebbe meglio intraprenderli dalla parte settentrionale di Pisa, fra la porta murata di S. Zeno e l’altra pur chiusa del Leone dietro
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    il Duomo, qualora le acque d’infiltrazione non ne accrescessero le difficoltà.
    Rispetto poi al secondo cerchio di Pisa, come fu quello intorno al mille, giova avvertire, che allora la città in discorso repartivasi non per Quartieri , ma per Porte , dal Ponte che fu sull’ Oseri , e questo abbracciava una parte della città coi subborghi occidentali e settentrionali; mentre i subborghi orientali ed una minor porzione della città verso levante appartenevano al Terziere che si disse di Forisportae , stato più tardi rinchiuso nel terzo cerchio, siccome lo fu il Treziere di Chinsica che comprendeva i borghi di Oltrarno rimasti rinchiusi nell’ultimo cerchio della città.
    Che dalla parte orientale del borgo di S. Michele al secolo XI fosse fuori di Pisa, oltre le carte di quella badia, lo prova un istrumento del 25 giugno 1051 ( stile pisano ) pubblicato dal Muratori, il quale fu rogato fuori della città di Pisa nel Borgo presso la chiesa di S. Felice.
    Dalla parte meridionale le mura passavano presso la Porta Aurea dopo che lo stesso fiume aveva rasentato la chiesa e Monastero di S. Matteo. In quanto al giro dirimpetto a maestro dove correva un ramo del Serchio ( Auxer ), sembra che le mura del secondo cerchio lasciassero fuori la chiesa di S. Niccola, dove fu poi aperta la Porta a Mare . Lo che giova a dimostrarlo non solo il documento del 1103 citato agl’Articoli OSERI e PIOMBINO, ma un altro del 26 settembre 1147 ( stile pisano ) scritto in Pisa in Porta maris , presso la chiesa di S. Niccola, mentre diverse membrane della Certosa di Calci del 1051, 1061 e 1112 rammentano la chiesa di S. Vito situata allora nel borgo di Porta a Mare . – ( Carte
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    della Certosa di Calci
    ).
    Sicché intorno al mille, vale a dire, all’epoca del secondo cerchio si doveva entrare in Pisa per quattro porte principali: la 1.a dalla parte di settentrione per Porta del Ponte ; la 2.a verso levante per la Porta Samuele ; la 3.a dirimpetto a ostro per la Porta Aurea ; e la 4.a verso ponente per la Porta a Mare .
    Tale a un dipresso esser doveva il secondo giro delle mura di Pisa, quando i di lei abitanti erano saliti a tanta gloria da innalzare e compire nel breve corso di 56 anni due portentose chiese, il Duomo e S. Paolo in Ripa d’Arno, e ciò poco innanzi che si gettassero i fondamenti di un magnifico battistero contemporaneamente ad un più vasto giro di mura urbane.
    Di quest’ultimo cerchio e dell’epoca approssimativa in cui fu incominciato ne abbiamo una dimostrazione sicura negli statuti de’consoli del Comune di Pisa pubblicati nel dì primo gennajo del 1162, dai quali si rileva, che sino d’allora si edificavano i muri anche dalla parte di Oltrarno, o di Chinsica, per rinchiudere quel quartiere in città.
    Da quelli statuti si scuopre altresì il modo allora praticato per il censimento de’beni ed il movimento della popolazione di Pisa da doverlo rifare (almeno per la popolazione) ogni anno.
    Frattanto uniformandomi io al maggior numero degli scrittori pisani, che segnano al 1152 il cominciamento del terzo giro delle sue mura sotto il consolato, o piuttosto sotto la presidenza del console Cocco Griffi, dirò, come, a partire dalla sponda destra dell’Arno, dalla parte occidentale presso la Cittadella vecchia, le mura urbane dirigevansi alla Porta Degazia (della Dogana) attualmente chiusa, dalla quale si sbarcava in Arno e si andava al mare lungo la ripa destra del fiume. – Dalla Porta Degazia le mura, giunte alla torre dell’angolo, voltavano faccia da ostro a ponente sino passata la
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    Porta al Leone , nel qual tragitto esistevano, e tuttora si veggono sei postierle tutte chiuse, siccome fu murata quella del Leone , dopo che il governo Mediceo fece aprire l’altra sua vicina col nome di Porta Nuova , o di S. Maria.
    Passata la Porta al Leone le mura voltando la fronte da ponente a settentrione dirigevansi alla Porta S. Zeno , ed in questo lato esistevano due porte appellate Porta del Ponte , e Porta al Parlascio , oltre due postierle, attualmente chiuse; in luogo delle quali lo stesso governo Mediceo fece aprire la Porta a Lucca .
    Dal lato poi orientale le mura continuano fino all’Arno avendo in cotesta linea, non solo la Porta S. Zeno , ma la Porta della Pace , talvolta appellata di S. Francesco dalla chiesa e convento costruiti lì d’appresso dal principio del secolo XIII, e la Porta Calcesana , pur essa murata, oltre quella alle Piagge , l’unica che resti aperta.
    Dalla parte poi d’Oltrarno, ossia nel quartiere di Chinsica, stando al cronista pisano Michele da Vico (MURAT. In Script. R. Ital. T.VI.) il principio delle mura a barbacani dovrebbe portarsi all’anno 1158, sebbene la prima porta di S. Martino in Chinsica, ossia di S. Marco, non si edificasse che un secolo dopo, cioè nell’anno 1253, mentre era potestà di Pisa Bonaccorso da Padule . Un tal vero è confermato dall’iscrizione che restò murata con la stessa porta dentro la Cittadella nuova, quando nel 1512 fu aperta la porta attuale di S. Marco alquanto più discosta dall’Arno col disegno di Giuliano da Sangallo. – Di costà le mura voltando ad angolo quasi retto da levante a ostro giungevano al bastione di Stampace davanti al fosso o canale de’Navicelli, lasciando chiuse
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    in questo tragitto due antiche porte, dirimpetto alle vie di S. Antonio, e di S. Egidio, o del Carmine. – Al bastione di Stampace , noto per l’assedio del 1509, voltando faccia da ostro a ponente le mura arrivavano sino alla ripa sinistra dell’Arno, presso la quale era la porta di Ripa d’Arno , chiamata più tardi la Porta a Mare .
    Tale era frattanto il cerchio terzo della città di Pisa, corrispondente al giro attuale, stato da me percorso dentro e fuori delle mura, costantemente accompagnato dal signor Rodolfo Castinelli ingegnere ispettore del Compartimento di Pisa. Il quale cerchio di figura quadrilatera percorre 4 miglia e quasi due terzi, compreso l’alveo dell’Arno sotto e sopra la città. Vi si entra per sole cinque porte, di 20 che erano, tre delle quali alla destra, e due alla sinistra del fiume predetto; cioè, dal lato destro la Porta Nuova , o di S. Maria, presso la Porta al Leone dirimpetto al Duomo , la Porta a Lucca , accosto alla soppressa Porta al Parlascio e la Porta alle Piagge . Le due dell’Oltrarno sono, la Porta S. Marco , ossia Fiorentina , e la Porta a Mare , oltre l’accesso al Fosso de’Navicelli.
    Peraltro che a questo terzo cerchio fosse dato principio molto prima dell’anno 1153 lo assicurano varj strumenti autentici degli archivi pisani, uno dei quali dell’anno 1140 (5 ottobre) dichiara la via maggiore di S. Maria situata dentro Pisa, per lasciare molti altri documenti della badia di S. Michele in Borgo, la quale verso la metà del secolo XII non era più fuori di città. – (ANNAL. CAMALD. Tomo II. e III.)
    Che se il terzo cerchio di Pisa fu incominciato prima del 1152, non ne consegue peraltro che restasse terminato nello stesso secolo XII, mentre nel
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    Breve del conte Ugolino del 1286 al Libro IV nella rubrica 4. trattasi di compire i muri della città dalla parte di Chinsica e di restaurare la porzione già terminata. Così alla rubrica 9. Dello stesso libro si fa parola di uno spazio libero da lasciarsi dentro e fuori delle mura nel quartiere di Chinsica e di contrassegnarlo con termini di pietra per distinguere il confine dal pomerio o carbonaja della città.
    Né tampoco è da tacersi qualmente le mura dalla parte orientale e settentrionale di Pisa furono, se non costruite tutte di pianta, al certo continuate ad alzarsi di pietra concia del Monte Pisano, di una grossezza di quattro braccia a un circa. Le quali mura edificavansi nel secolo XIV con nuove porte e munivansi di merli a feritoja, e non biforcati che solevano distinguere la parte ghibellina, ma a guisa de’Guelfi, con fossi e bastioni per cura de’capitani di Pisa, il conte Gaddo da Donoratico, ed il conte Ranieri suo nipote.
    Di una torre innalzata per difesa della stessa città fra la Porta a Lucca e la Porta al Parlascio fa menzione una lapide stata ivi murata, che la dice: fatta l’anno 1321 del mese d’aprile al tempo del magnifico e potente signor Gherardo conte di Donoratico capitano generale del Comune e popolo pisano, essendo capo maestro Jacopo di Ridolfo, ed operajo Bindo del Bagno.
    Spettano al conte Ranieri, nel tempo che era capitano generale di Pisa, dei lavori anco più estesi, tanto rispetto alle porte come alle mura state edificate nella parte settentrionale ed orientale della stessa città.
    A reminescenza delle quali opere citerò un’iscrizione stata murata accosto alla Porta al Leone , dove sotto l’arme gentilizia della famiglia Gherardesca si legge: Anno 1342. – Tempore magnifici et potentis viri Domini Ranerii Novelli hoc opus factum fuit.
    Rispetto all’epoca delle mura orientali lo dimostra una deliberazione del primo luglio 1346,
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    con la quale gli Anziani dichiararono il medesimo conte Ranieri padrone de’muri e fortificazioni della città di Pisa, a partire dalla Porta al Parlascio fino alla porta Calcesana , per la ragione ch’egli aveva somministrato diecimila fiorini d’oro per innalzarle.
    Anco una carta dello spedale di S. Chiara di Pisa del primo marzo 1330 rammenta un operajo della fabbrica de’ muri della città in messer Giovanni di Filippo Bucci. Il qual Bucci nel 1346 fece un pagamento a Cecco di Lemmo capomaestro de’ muri stati fatti d’ordine dal potente uomo Ranieri Novello conte di Donoratico, capitano generale di Pisa e onorabile capitano di Lucca. – (ARCH. DELLO SPEDALE DI S. CHIARA DI PISA).
    In quanto a strade urbane, questa città attualmente conta molte vie ampie e quasi tutte lastricate di pietra serena, mentre quelle antiche che scuopronsi fondando nuove case, erano coperte di mattoni per costa, senza dire delle strade che con largo marciapiede adornano i suoi inimitabili Lungarni.
    Né qui si deve omettere una pratica di civiltà usata in Pisa sino dal secolo XIII, rinnovata per tutta Italia nel secolo in cui viviamo; intendo dire dell’uso da lungo tempo abbandonato dell’illuminazione notturna delle strade. Basta leggere la rubrica 1. del libro IV del Breve Comunis Pisani , scritto nell’anno 1286, per concludere che Pisa fino d’allora praticava e forse fu la prima città d’Italia a introdurre il lodevole sistema d’illuminare di notte, non solo le strade più frequentate, ma ancora il ponte vecchio, le vie minori ed i così detti chiassi o vicoli, e di assegnare a ciascuna via un numero respettivo di lampioni e di guardie notturne, previo il modo di repartirne fra il Comune e gli abitanti la spesa. Toccherò del clima e delle acque di Pisa all’Articolo che segue qui appresso della sua Comunità.

    CENSIMENTO della popolazione della Città di PISA a quattro epoche diverse, divisa per famiglie (1)
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    ANNO 1551: Impuberi maschi -; femmine -; adulti maschi -, femmine -; coniugati dei due sessi -; ecclesiastici dei due sessi -; acattolici dei due sessi -; numero delle famiglie 1636; totalità della popolazione 8571.
    ANNO 1745: Impuberi maschi 1535; femmine 1513; adulti maschi 2104, femmine 2776; coniugati dei due sessi 3331; ecclesiastici dei due sessi 958; acattolici dei due sessi 59; numero delle famiglie 2589; totalità della popolazione 12406.
    ANNO 1833: Impuberi maschi 2378; femmine 2231; adulti maschi 3760, femmine 4263; coniugati dei due sessi 6507; ecclesiastici dei due sessi 644; acattolici dei due sessi 515; numero delle famiglie 4733; totalità della popolazione 20298.
    ANNO 1840: Impuberi maschi 2603; femmine 2484; adulti maschi 3595, femmine 4655; coniugati dei due sessi 7039; ecclesiastici dei due sessi 627; acattolici dei due sessi 667; numero delle famiglie 4570; totalità della popolazione 21670.

    (1) N. B. In questo Censimento sono escluse 4 parrocchie suburbane de’Terzieri.

    COMUNITA’ DI PISA

    La superfice territoriale di questa Comunità, compresi quadrati 591,88 occupati dall’arca interna di Pisa, a tenore delle disposizioni sovrane del 1833, fu calcolata nel suo totale di 58973 quadrati agrarj, dei quali 2115 quadrati spettano a corsi d’acqua ed a pubbliche strade. In cotesto spazio abitava nel 1833 una popolazione di 37227 persone, la quale ripartitamente corrisponde a circa 527 abitanti per ogni miglio quadrato di suolo imponibile.
    Il territorio della Comunità di Pisa è per la maggior parte in pianura, mentre dal lato di libeccio termina col lido del mare fra la bocca di Calambrone e quella di Fiume Morto . Dalla parte di ostro ha per confine la Comunità di Colle Salvetti , da prima mediante la fossa di Calambrone , poi per la Fossa Nuova , e finalmente per la Fossa Chiara . Dirimpetto poi a scirocco si tocca con la
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    Comunità di Cascina mediante il Fosso Torale sino alla strada livornese che attraversa la Regia fiorentina a Navacchio. Ma costà sottentra il territorio di Cascina fino all’Arno dove attualmente si costruisce un ponte di pietra a tre arcate avente la testata destra nel territorio comunitativo di Vico Pisano, presso la confluenza del torrente Zambra di Calci . Dondeché il territorio della Comunità di Pisa non si ritrova che al ponte della Zambra sulla strada provincialeVicarese. Costà di fronte a levante si rientra in una porzione staccata della Comunità di Pisa, che abbraccia cinque popoli del pievanato di Calci, a partire dal ponte suddetto sino alla sommità più alta del Monte Pisano, denominata del Monte Serra . – Vedere CALCI.
    Sulla cima del monte lascia a levante il territorio della Comunità di Vico Pisano e trova dirimpetto a grecale quello della Comunità di Capannori spettante al Ducato di Lucca. Di conserva con questa percorre mezzo miglio lungo la giogana; sulla quale dopo voltata la faccia a maestro si tocca col territorio comunitativo de’Bagni di S. Giuliano riscendendo insieme per uno sprone meridionale sino al ponte predetto della Zambra , dopo lasciata al suo levante la Certosa di calci, mentre a ponente seguita a fronteggiare con la Comunità de’Bagni, che stacca il territorio di Calci da quello unito della Comunità di Pisa; il quale si ritrova sulla ripa destra dell’Arno, fra Cisanello e Ghezzano, due miglia circa a ponente della città.
    Costà la superfice territoriale della Comunità di Pisa fronteggia sempre con quella de’ Bagni, da primo dirimpetto a grecale, mediante la Fossa di Maltraverso , perfino a che volta la fronte a settentrione, quindi la ripiega a maestro e finalmente a ponente mediante il Fosso di Scorno , e di là pel Fiume Morto ritorna al lido del mare.
    La pianura di Pisa dalla parte di grecale
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    fra il Serchio e la Seressa, ha per confine il Monte Pisano. Dirimpetto a settentrione e maestrale, alla destra del Serchio, è limitata dai poggi di Filettole, di Balbano e dal Monte di Quiesa (propagine australe dell’Alpe Apuana). Da levante a scirocco la stessa pianura è circoscritta dalla fiumana Cascina e dalle così dette Colline Pisane. Finalmente fra scirocco e ostro ha davanti i Monti Livornesi, i quali ultimi si perdono gradatamente sotto la pianura innanzi di arrivare al Ponte della Tora, in guisa che lasciano libero ai venti di ponente il passaggio sopra la città di Pisa.
    In conseguenza di ciò se il clima di Pisa in generale è più tiepido che nelle interne provincie della Toscana, l’aria però in molti mesi dell’anno suol esservi maggiormente agitata dal soffio impetuoso del libeccio.
    La posizione accennata dei monti che da tre lati circoscrivono la pianura pisana, e più che altro il piccolissimo declive della sua campagna, la qualità polverulenta e mobile dello strato superiore del suolo, le arene marine ivi depositate, che a guisa di tomboli o dighe s’incontrano a molta distanza dal littorale; tuttociò fa sì che nella campagna pisana i corsi d’acqua siano pigri, frequenti i paduli, l’atmosfera umida, e tutta cotesta contrada bisognosa di un’industria costante e intelligente per regolare le escavazioni, le arginature de’fossi e dei molti canali, dai quali perfino intorno alle mura della città trovasi in più sensi retata.
    Tale è la costituzione naturale della campagna di Pisa e del suo clima, dopo che la situazione materiale della città fu variata dall’antica; sia per non essere più circondata da due fiumi; sia perché il mare si è vistosamente da essa allontanato; sia finalmente per il progressivo interrimento del suolo su cui riposa.
    Già si è detto, che a partire dall’età di Strabone e anco da quella di Aristotile, o di chi fu autore dell’opera de Mirabilibus , fino almeno alla discesa de’Goti in
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    Italia, la città di Pisa giaceva sulla confluenza di due fiumi, l’Arno e l’ Auser ; il primo alla sua destra, il secondo alla sua sinistra, in guisa che la natura più che l’arte difendeva la vecchia città da tre lati, rimanendo essa allo scoperto, oppure difesa dall’arte verso il lato di levante.
    Sembra però, siccome di sopra fu avvertito, essere tuttora indeciso, se il fiume Auser , che influiva in Arno davanti a Pisa dopo aver lambito le sue mura dalla parte di settentrione e di libeccio, fosse il Serchio intero, o piuttosto un grosso ramo, chiamato dai latini Auser , da noi Oseri , Osoli e Ozzori . Tali dubbiezze vengono indirettamente avvalorate dal silenzio degli storici, dei geografi e di tutti coloro che, ad eccezione di Strabone e di Rutilio, né prima né dopo di loro dissero qual fosse mai innanzi il mille l’andamento del Serchio nell’ultima sua sezione, cioè, se tributario dell’Arno, o direttamente del mare. Altronde che il Serchio fosse tributario dell’Arno piuttosto che un fiume avente foce in mare, oltre le autorità di sopra citate, lo dà quasi a conoscere in modo negativo Tolomeo nella sua geografia, dove si descrivono gli sbocchi dei fiumi nel mare toscano senza esservi indicata la foce del Serchio. Lo darebbe anco a dividere la naturale direzione che un dì tenere doveva cotesto fiume dopo aver trapassato la gola di Ripafratta, mentre adesso da ostro voltando faccia a ponente piegasi quasi ad angolo retto per dirigersi, prima a occidente, poscia a libeccio innanzi di vuotarsi nel mare a una distanza di circa 5 miglia dalla bocca d’Arno.
    La qual mutazione d’alveo del Serchio (seppure avvenne) dubito che fosse di una porzione del fiume, in modo da restare all’alveo antico ed al ramo minore il nome di Auser , tradotto in Oseri , Osoli e Ozzori ,
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    mentre il ramo maggiore, ossia quello più occidentale, fu distinto col nome di Serchio; e ciò ad esempio del tronco principale dello stesso fiume, che sino dal secolo VII, se non prima, riscontravasi nella pianura superiore di Lucca, quando esso tripartito scendeva alla destra e alla sinistra della città, nella cui pianura in tre rami suddiviso si mantenne anco all’età dello storico G. Villani. – Vedere LUCCA Comunità , OZZORI, e SERCHIO.
    Così nella pianura fra Ripafratta e Pisa il nome stesso d’ Oseri divenne comune a più d’ un canale, da cui ebbe e ritiene il vocabolo la contrada di Val d’Oseri . Sul qual proposito giova pure avvertire che nel Breve del Comune pisano dell’anno 1286, al libro III de Operibus , si parla di un ramo dell’ Oseri che allora sboccava direttamente in mare, senza che ivi sia fatta menzione alcuna del Fiume Morto ; mentre altri documenti citano l’alveo del vecchio Serchio dopo che questo fiume (forse l’ Oseri ) era separato dall’Arno.
    All’ Articolo FOSSO DE’BAGNI DI S. GIULIANO, uniformandomi io a quanto fu scritto da valenti autori relativamente alla costruzione di quel canale che porta l’acqua ai mulini di Pisa, ne feci autore Lorenzo de’Medici detto il Magnifico , aggiungendo che Cosimo I lo compì, o piuttosto che lo rese più utile al servigio delle mulina, siccome lo dimostra un’iscrizione in marmo posta sulla facciata dell’edificio delle Mulina dentro Pisa: Publicae utilitati providens Cosmus Med. Floren. Et Sen. Dux II. A. D. MDLXVIII.
    Ma il Breve del Comune pisano del 1286 chiaramente dimostra che un ramo dell’ Oseri sin d’allora passava dai Bagni di S. Giuliano e che esso era navigabile dalle scafe innanzi di sboccare in Arno presso le mura orientali di Pisa.
    Arroge che negli statuti
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    fatti d’ordine della Signoria di Firenze pe’Consoli del Mare, sotto dì 31 luglio 1475 rispetto ai fossi, ponti, fiumi, e vie di Pisa e del suo contado, alla rubrica 10, dove si descrive il corso de’fossi principali di maggiore utilità per mantenerli netti, si rammenta pel primo il Fosso , ovvero fiume d’Osoli, il quale nasce al Bagno a Monte Pisano; 2°. il Fosso detto Martraverso che nasce in Osoli alla strada vecchia, et ritorna in detto Osoli al ponte della Tavola, ovvero alla strada del Pero ; il fosso di Scorno che comincia dal ponte alla Tavola ovvero alla destra di via del Pero e seguita sino al Fiume Morto ; 4 ° i Fossi doppi che cominciano al condotto del Bagno e seguitando mettono in detto Osoli ; 5°. Il fosso detto Marmigljajo, che comincia in detto Osoli al ponte Scornato dal canto di S. Zeno, e seguitando ritorna in Osoli alla strada del Pero ; 6°. Il fosso detto Lavato, il quale è ramo d’Osoli et comincia al ponte Scornato dal canto di S. Zeno e ritorna in detto Osoli al canto al Lione ecc.
    Inoltre ala rubrica 34 delli statuti medesimi dell’Uffizio de’Fossi di Pisa è registrata una provvisione della Signoria di Firenze, dalla quale si rivela che un ramo dell’Oseri fino d’allora dirigevasi alla Porta alle Piagge dov’era un mulino fatto da un messer Lionello, che dice: item veduto come messer Lionello ha fatto uno mulino alla Porta alle Piagge di Pisa, al quale conduce l’acqua dell’Osoli pel fosso existente presso le mura di Pisa etc.
    Quindi è che il Cocchi nel suo libro dei Bagni di Pisa avvisava i lettori, che coteste ed altre simili opere, benché fossero state fatte con diligenza grande né più floridi tempi della repubblica pisana e mantenute
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    in stato forse non dissimile dal presente, pure tale fu nei secoli XIV e XV la varietà della fortuna di Pisa che, avendo i lavori delle acque sofferta lunga e grande negligenza, giustamente si deve a Cosimo e a Ferdinando I la lode del miglioramento rispetto alla salubrità del suo territorio.
    Per altro io aggiungerò che anche nei secoli anteriori al XIV Pisa cola sua campagna, era soggetta a frequenti alluvioni e ristagni perniciosi alla salute. Né mi limiterò al cronista pisano, il quale lasciò scritto che da mezzo settembre al 12 novembre del 1167 ( stile comune ) vi furono a Pisa nove inondazioni massime del fiume Arno, le cui acque allagarono con tale impeto la sua campagna meridionale, che ruppero il Ponte a Stagno; mi appoggerò piuttosto allo statuto del 1162 intitolato Breve usus e a quello del Comune di Pisa del 1286, il quale obbligava i potestà prima di entrare in carica di tenere a regola d’arte le cateratte delle chiaviche della città, e specialmente quelle del quartiere Oltrarno ( Chinsica ) per farle chiudere all’occasione dell’escrescenze del fiume; come pure di rialzare la strada del borgo di porta S. Marco fino verso le ville di Fasiano e di Putignano nel modo com’era stata cominciata, e di costruire lungo l’Arno un contrargine di difesa nel comunello di Fasiano.
    Lo statuto poi del Breve usus voleva che i capitani del Val d’Arno facessero aprire le vie carraje e tutte le fosse per dare sfogo nei tempi di piene alle acque dell’Arno, acciocché queste non traboccassero dalle spallette dentro la città.
    Fra i doveri dei potestà di Pisa eravi anco quello di fare alzare gli argini dalla parte di settentrione dove fosse d’uopo nel fiume Oseri , di rivuotarne tutti gli anni il letto affinché le sue acque non avessero a spandersi e a recar danno a quelle campagne. – (BREV. COMUN. PIS. Ann.
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    1286. Lib. IV. Rubr . 5. 15. 19. 48 e 67.)
    La stessa cura era prescritta per la Fossa Cuccia , per la Fossa di Martraverso e per la Fossa Vicinaja , o di Vicascio , e quella di Scorno ecc. fra il Monte Pisano e l’Arno, tributarie tutte del Fiume Morto , mentre nel secolo XII la Fossa Cuccia dirigevasi in mare per il fiume Oseri . Negli statuti pisani del 1286, rispetto ai canali di scolo posti alla sinistra dell’Arno, si ordina ai potestà ed ai capitani di Pisa di sorvegliare i lavori delle fosse di Fasiano , del Zannone , di Crespina , della Fossa nuova del Gonfo e di tutte le altre che influivano nella Fossa Vecchia di Carisio e nello Stagno . Inoltre dovevano obbligarsi di far vuotare il Fosso Rinonico con diversi altri fossi minori, dogaje e nugolaje di quella pianura meridionale. Finalmente alla rubrica 22 del Libro IV dello stesso Breve del Comune pisano, il potestà e il capitano del popolo provvedevano affinché dall’arbitro pubblico (ingegnere) si restaurassero e si mantenessero in regola i pozzi comuni e gli abbeveratoi tanto di città come del contado.
    Che poi sino dal mille si trovassero paduli intorno e perfino dentro alla città di Pisa, lo dichiarano vari documenti superstiti, fra i quali mi limiterò a tre scritti nel luglio dell’anno 730, nel maggio del 1085 e nel 24 luglio del 1099, tutti dell’Arch. Arciv. Pis., come quelli che citano de’ paduli presso Pisa. Citerò inoltre un diploma del 1139 dell’Imperatore Corrado II, col quale donò alla Primaziale il padule delle Prata (d’Arsula) posto nel suburbio settentrionale della città; finalmente rammenterò il nomignolo di una chiesa attualmente soppressa dentro
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    Pisa, S. Pietro in Padule , senza dire dell’antica via di Padusoleri , situata presso a poco la via dell’Orto e del Padule presso il Duomo che rammentasi nel 28 settembre del 1249 in un istrumento spettante alla Primaziale.
    Che se a tanti esempi di data piuttosto vecchia aggiungasi il continuo interrimento della pianura pisana colmata dalle torbe di grossi fiumi e da altri corsi d’acqua, ed accresciuta da una serie di tomboli spinti e poi abbandonati dalle procelle su di una spiaggia inclinatissima, non dovrà più recar meraviglia il progressivo rialzamento del suolo di Pisa.
    Infatti se uno immagina il livello di codesta città nella via di S. Felice fra il Borgo e la Piazza de’Cavalieri, come quando fu edificato il tempio pagano, di cui restano in posto due colonne di porfido orientale con i loro capitelli di marmo scolpiti a figure e a fogliami sul gusto introdotto dall’Imperatore Adriano, i pavimento del cui vestibolo trovasi attualmente oltre 4 braccia sotto il lastrico della strada; se nello scavo del terreno che il Gonfaloniere della Comunità di Pisa si degnò a mia istanza ordinare nei giorni 24 e 25 febbrajo del 1842, di fianco alle antiche terme e perfino dentro al superstite sudatorio, finché in un punto oggidì superiore di braccia 8 e soldi 2 al livello del mare fuori del Sudario fu spinto lo scavo fino a braccia 4 e 1/2 sotto la superficie; se a quel livello fu trovata l’acqua d’infiltrazione sotto uno strato di rozzo smalto ( forse l’antico pavimento delle Terme ); se i lastrici nelle vie di Pisa del medio evo fatti di mattoni per coltello e si scuoprono nel rifare i fondamenti delle case e palazzi nei lungarni e nell’interna città si ritrovano dalle braccia 3 e 1/2 alle braccia 5 e mezzo sotto la superficie delle strade attuali; questi fatti soli possono servire di criterio per dover concludere, che anche
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    le acque correnti dei fossi e de’fiumi, le quali attraversano la pianura pisana, per quanto il loro letto siasi rialzato, dovendo fare un più lungo cammino prima di giungere al mare rallentarono necessariamente di moto a proporzione che si allontanò la spiaggia. Imperocché se lo sbocco dell’Arno in mare all’età di Strabone, che vuol dire XVIII secoli e mezzo addietro distava solo 20 stadii olimpici dalla città di Pisa, corri pondenti a due miglia geografiche; se la foce medesima dell’Arno nell’anno 1080 era vicina assai alla chiesa di S. Rossore quando essa fu fabbricata sulla ripa destra dell’Arno in luogo ora appellato le Cascine Vecchie , mentre attualmente queste distano 3 buone miglia dal lido del mare; se finalmente per circa 4 miglia la campagna di Pisa verso la spiaggia è coperta di dune e tomboli di rena lasciata dalle traversie del mare, ne conseguita che il corso delle acque terrestri di secolo in secolo impigrì e la campagna di Pisa divenne ognor più uliginosa. Infatti dalle recenti livellazioni risulta, che la soglia della cateratta maestra del Sostegno del fiume Arno fuori della Porta a Mare è un braccio fiorentino più depressa da quelle del Mediterraneo; e dallo spoglio delle altezze delle acque del fiume suddetto, eseguito costantemente dall’Uffizio delle Acque e Strade del Compartimento pisano, dall’anno 1825 a tutto il 1840, apparisce che il pelo dell’Arno nelle massime piene salì a braccia 9 e soldi 10 sopra la soglia del Sostegno, e nelle massime depressioni dello stesso fiume, ad un braccio sopra la soglia, vale a dire al livello stesso del mare. Su qual proposito gioverà aggiungere alcune altezze del terreno stato in vari punti di Pisa livellato dall’Ingegnere ispettore Signor Ridolfo Castinelli in tempo di acque basse del mare:

    Fondo del bacino del Campanile del Duomo, Braccia 0,60
    Cantonata dello Spedale di S. Chiara all’ingresso di via dell’Orto, Braccia 5,60
    Prato del Duomo, alla Fonte,
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    Braccia 4,96
    Terreno di fianco alle Terme pisane, Braccia 8,10
    Negli Orti di fianco a S. Caterina, Braccia 5,21
    Fondo dell’Oseretto fuori di Porta Nuova all’imbocco del fosso Marmigliajo, Braccia 0,32
    Lungarno presso al Ponte di Mezzo, Braccia 8,94

    Lascerò poi ai fisici e agl’idraulici la soluzione del quesito, se fu per le accennate, o piuttosto per altre cause che nella pianura pisana più di una volta cambiarono di cammino il Serchio, l’Oseri, ed anco l’Arno sopra e sotto Pisa?
    Rispetto al fiume Serchio nella sezione pisana, oltre quanto si è detto poco sopra, giova aggiungere qualmente il suo letto è più alto della pianura adiacente, in modo che il corso delle sue acque trovasi racchiuso fra due forti argini che l’ accompagnano fino al mare. Quindi avviene che non solo non possono confluire in esso i fossi e canali della pianura settentrionale e occidentale di Pisa, ma che le acque del Serchio quando traboccano entrano nei fossi di quella stessa pianura. Nella quale circostanza fu pure osservato che le acque debordando dal Serchio dirigonsi comunemente a sinistra piuttosto che verso la sua destra, quasi che cercassero (disse il Cocchi) l’antico loro alveo inondando i campi delle vicinanze di Pisa.
    All’ Articolo FIUME MORTO si disse, che anche questo corpo d’acque un di confluiva nel Serchio innanzi che dal matematico Cistelli gli fosse stato aperto uno sbocco suo proprio in mare tanto più che né il Fiume Morto , né veruna foce di codesto nome trovasi, ch’ io sappia, indicata da alcun documento anteriore al secolo XIV. Sono bensì rammentati diversi sbocchi del vecchio Serchio in Arno quando il fiume Oseri aveva una foce sua propria in mare e innanzi che cotesti due corsi d’acqua fluissero nella Fossa Cuccia . Sta a prova di tutto ciò un diploma
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    del 1160 di Guelfo VI marchese di Toscana, confermato nel 1178 dall’Imperatore Federigo I, e nel 1191 dall’Imperatore Arrigo VI suo figliuolo, a favore del capitolo e chiesa di Pisa dove si parla della selva del Tombolo di S. Rossore compresa nei seguenti confini: A faucibus veteris Sercli usque ad flumen Arnum, et a Fossa Cuccii usque ad mare, sicut eadem fossa in directum respicit versus fluvium Auseris .
    Dirò inoltre che mentre gli statuti del Comune pisano anteriori all’anno 1300 parlano della necessità giornaliera di tener libero il letto dell’ Oseri fino al mare, usque ad fauces Ausers , in tutti gli altri statuti posteriori, incominciando da quelli del 1306, al Libro IV dove trattasi alla rubrica 67: De Ausere mundando et ampliando a Balneo Montis Pisani usque ad fauces fluminis Arni , si rammenta ai potestà ecc. l’obbligo di tener pulita la foce dell’Oseri.
    Un terzo di miglio innanzi che il fosso dell’ Anguillara sbocchi nel Fiume Morto trovasi il così detto Porto delle Conche , distante tre buone miglia dalla riva del mare, dove nel secolo XVII fu scoperto un cippo di marmo lunense con caratteri de’migliori tempi dell’impero trasportato nel vestibolo del palazzo Roncioni in Pisa con l’iscrizione votiva ai Mani di Q. Largennio figlio di Q. Severo edile di Pisa, stato illustrato dal Professor Chimentelli nella sua erudita opera De honore Bisellii .
    Alla foce del Serchio esisteva fino dal secolo XII una torre rammentata all’anno 1171 negli annali lucchesi e negli statuti pisani del 1286, mentre la bocca d’Arno era difesa da due torri. (ivi Libri IV. Rubriche 8 e 59.) – Vedere appresso .
    In quanto al corso dell’Arno nella sezione pisana, lungi dal riandare sulla irresoluta e forse irresolvibile questione messa in campo colle espressioni di Strabone, secondo i quali lo stesso fiume a quell’età
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    avrebbe dovuto correre diviso in tre alvei fra Arezzo e Pisa; lungi dal ridire come cotesto fiume dopo penetrato nel delta pisano fu rimosso nel 1558 dall’antico suo letto fra Bientina e Calcinaja; lungi dal rammentare le variazioni accadute lungo l’alveo medesimo nei contorni di Settimo, dove restarono i nomi di Arno vecchio e Arno morto fino al secolo XII ad alcune località del pievanato di S. Casciano, mi limiterò a dire una parola sulle variazioni del suo corso fra Pisa e il mare artatamente dopo il secolo XV eseguite fino alla nostra età.
    La pendenza di cotesto ultimo tragitto dell’Arno essendo diminuita tanto da diventare, come dissi, nulla tra Pisa e il mare, ne portò la necessità di dover dare al fiume un cammino il più breve possibile, e conseguentemente di levarlo da quello assai tortuoso che faceva nei secoli della repubblica pisana.
    La prima rettificazione fu eseguita anteripormente all’anno 1528 fra Barbaricina e la strada maestra di S. Piero in Grado e Livorno. Dissi anteriormente al 1528, poiché con istrumento del 6 marzo di detto anno la famiglia pisana di Pone vendeva all’opera della Primaziale i pascoli dell’ Arno vecchio , in una località posta attualmente, parte nella campagna di Barbaricana alla destra dell’Arno, e parte alla sinistra del corso attuale di questo fiume.
    Nell’anno 1606 per motuproprio del Granduca Ferdinando I fu abbreviato il corso all’ultimo tronco dell’Arno avviandolo, al mare 2656 braccia più a ponente dell’antica sua foce, quando era provveditore dell’Uffizio dei Fossi Cosimo Pagliani.
    Finalmente la rettificazione più importante, quella che ha liberato Pisa da frequenti alluvioni, è stata eseguita nel secolo XVIII avanzato nel suburbio occidentale, circa mezzo miglio lungi dalla città. Avvegnaché l’Arno formando gomito davanti a Barbaricina, nei tempi di piena tratteneva il corso libero alle acque, le quali straripavano non solo nelle vicine campagne ma ancora traboccavano dalle spallette dei Lungarni e dalle fogne della stessa
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    città.
    L’ingegnere Francesco del Nave nel 1653 fu il primo a proporne la rettificazione, applaudita da Vincenzio Viviani, più tardi da Cornelio Meyer olandese, quindi raccomandata da Eustachio Manfredi e nel 1740 da Tommaso Perelli, fino a che nel 1771 venne eseguita per ordine del Granduca Pietro Leopoldo sulla relazione di Giuseppe Salvetti, assistendo al lavoro due ingegneri dell’Uffizio de’fossi di Pisa, Francesco Bonbicci e Giovan Michele Piazzini, padre del vivente ingegnere Ferdinardo Piazzini, alla cui cortesia debbo le notizie testé pubblicate.
    Per tali opere essendo stato scorcito fra Pisa e il mare il cammino dell’Arno di un miglio all’incirca, ne è conseguito che le sue acque acquistarono in quel tragitto una velocità maggiore, sicché le campagne circostanti restarono meno inondate, e Pisa non fu più sottoposta come prima alle frequenti alluvioni.
    All’ Articolo ARNO (BOCCA D’) dissi, che quando la foce del fiume era circa quattro miglia (geografiche) discosta da Pisa, vi fu costruito un ospizio per soccorso dei passeggeri di mare. Del quale ospizio esistono alcune memorie sino al secolo XII, innanzi cioè che lo stesso locale fosse ridotto ad uso di monastero per vergini recluse con chiesa annessa avente il titolo di S. Croce , poi di S. Bernaro alla Foce d’Arno .
    Egli è certo che la Bocca d’Arno sotto il dominio della repubblica pisana era difesa da due torri, rammentate più volte nei citati statuti pisani del 1286 al Libro IV rubrica 59, e più chiaramente ancora alla rubrica 8 dello stesso libro, dove si fa parola anco del borgo o villa della Foce d’Arno con queste parole : Et idem faciemus (cioè il potestà e il capitano del popolo di Pisa) de Borgo, seu Villa de Fauce Arni, seu de occasantibus et habitantibus apud Faucem Arni inter duas turres, secundum formam Consilorum Pisani Comunis, etc . – La rubrica poi 59 tratta:
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    De via qua itur ed monasterium S. Bernardi reactanda , a spese dei popolani di S. Giovanni de’Gaetani, e di quelli di S. Pietro a Grado.
    Ma coll’ andare de’secoli il viaggio da Pisa a Livorno per Arno essendo divenuto lungo e pericoloso, il Granduca Ferdinando I ordinò la costruzione del fosso, o canale de’Navicelli, a partire dalla riva sinistra del fiume fuori della Porta a mare di Pisa fino al suo termine davanti la fortezza vecchia di Livorno, mentre devasi al Granduca Pietro Leopoldo l’opera del Sostegno per facilitare l’ingresso e l’egresso nel fosso dei Navicelli.
    Fin qui le acque de’fiumi, de’ fossi e de’canali che passavano, e che tuttora attraversano la pianura di Pisa, le quali acque, seppure servono ad irrigare i campi e al comodo di alcune arti e del commercio, non sono però servibili all’uomo per bevere.
    E perché l’insalubrità de’paesi più che da altre cagioni nasce dall’impurità delle acque potabili, gli antichi abitanti di Pisa provvidersi di acque perenni di fontana conducendole in città dal Ponte Pisano per mezzo di acquedotti elevati sopra degli archi, otto dei quali si vedono tuttora in piedi. Di altri pure restano alcune vestigia fra Ripafratta e i Bagni di S. Giuliano in un sito appellato Caldaccoli , località probabilmente corrispondente all’ Acqua longa , dove nell’anno 1003 accadde il primo fatto d’armi fra i Lucchesi e i Pisani. – Vedere CALDACCOLI.
    Stante poi all’universale rovina di tanti edifizj romani, ignorasi di quali acque i Pisani ne’bassi tempi si servissero per bevere, comecchè di pozzi pubblici e di beveratoj per i cavalli si parli ne’loro statuti dei secoli XII e XIII. – Non fia per altro da credere che nel medio evo ottima acqua potabile si adoprasse in Pisa, se fia vero che il maggior numero delle donne avesse nel notabile pollare, cui fece allusione Boccaccio nel suo Novelliere ( Giorno II Novella 10 .), e
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    tostochè dominavano costà i mali dipendenti da debolezza di visceri innanzi che a Pisa si bevesse un’acqua perenne, leggera e salubre condotta sopra archi dal poggio di Asciano con magnificenza regia per cura di Ferdinando I e Cosimo II Granduchi di Toscana. – Vedere ACQUEDOTTI DI PISA.
    Vie antiche del territorio pisano . – Rispetto alle strade antiche che attraversavano la Comunità di Pisa, dopo quella Emilia di Scauro , appellata nel medio evo Via Romea , dopo la Via Regia che diede il nome al paese littoraneo, ora città di Viareggio, dopo che l’antica strada da Pisa per Monte Pisano, e poi quella più moderna che da Ripafratta conduce a Lucca, dopo le strade antiche che da S. Piero in Grado guidavano a Bocca d’Arno e al Porto Pisano, si contavano sino dal secolo XIII nel contado di Pisa molte altre vie, parecchie delle quali sono rammentate nel Breve detto del Conte Ugolino, e specialmente al libro IV. de operibus . Dal che apparisce che fino dal 1286 risedeva in Pisa un ingegnere in capo dei ponti, degli acquedotti e strade tanto per la città come pel suo contado. A quest’ultimo scopo appella fra le altre la rubrica 9. dello stesso libro relativa al mantenimento della Via Calcesana da Pisa alla pieve di Caprona passando per il ponte di Vicascio , mentre la rubrica 15 tratta della maniera di mantenere la strada maestra del val d’Arno, oggi detta Fiorentina, quella Emilia da restaurarsi dall’ operajo generale , da S. Lorenzo in Piazza sino al Malmigliaro. Riguarda specialmente la strada di Porto Pisano la rubrica 17 dello stesso libro, mentre nella seguente si parla del tronco di strada che staccavasi dalla via Emilia per andare Scarlino, e dell’obbligo di ampliare un pezzo della via Emilia presso la torre di S. Vincenzio, facendo diboscare intorno
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    il terreno. Altre rubriche dello stesso libro trattano del modo di mantenere la via delle Colline Pisane , come pure le vie di Val di Serchio , di Bocca d’Arno ed altre strade suburbane.
    Prodotti principali del territorio di Pisa . – Per ciò che riguarda i prodotti del suolo il territorio pisano fu sempre feracissimo; lo che è attestato da Strabone e da Plinio, il primo de’ quali asserì essere la città di Pisa rinomata per l’abbondanza delle grasce e alberi d’alto fusto buoni a fabbricar navi, sicché, dopo avere i Pisani cassato di adoperare questi ultimi per uso della propria marina, spedivano quei legnami a Roma per i sontuosi edifizi e per le grandiose ville di quella gran capitale. – Il vecchio Plinio inoltre segnalò alcune uve pisane assai pregevoli, il suo grano gentile e il suo farro qualificato fra i migliori d’Italia.
    Arroge a ciò qualmente il vicino Monte Pisano ricco di marmi, di acque minerali, e di quelle leggerissime da bevere, fino dai tempi antichi ha fornito a Pisa materiali opportuni alle sue fabbriche, e alla pubblica economia, siccome nei tempi più vicini ai nostri ha dato l’olio il più squisito ed i vini migliori.
    Del resto Pisa non solo provvede dal Monte Pisano marmi per usi architettonici da costruzione, ma ancora pietre da lastricare e da far calcina forte, mentre il terreno della sua pianura, e il bel lettone lasciato per via dall’Arno e dai numerosi fossi e canali della pianura pisana somministrano materia opportuna per ridurla in mattoni, tegoli e vasi di terraglie che danno lavoro a centinaia di famiglie. – Rispetto a ciò che il governo della repubblica pisana ne’suoi statuti del 1286 (Libro I. rubrica 165) ordinò che la terra da fornace non dovesse cavarsi in Pisa troppo vicino all’Arno e alle strade.
    Ma se questa terra di trasporto rende fertili le campagne di Pisa, il
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    suo benefizio però non si estende fino ai tomboli aenosi, i quali si trovano, come fu detto, quasi quattro miglia innanzi di arrivare al lido attuale del mare. In generale la pianura pisana per la natura umida e pianeggiante del suolo è più confacente alle grandi pasture, alle praterie artificiali. – Anche le sementi del mais, dei cereali e delle piante leguminose, quando le annate non siano troppo piovane, vi provano assai bene. – Pochi letami da quei villici si adoperano non tanto a cagione della buontà del terreno, quanto della troppa estensione dei poderi che una sola famiglia di contadini non può sempre nel giro di un anno coltivare per intiero, sicché una parte ne lascia in riposo o a maggese.
    Assai poco confacente sembra codesta pianura alle viti e agli alberi da frutto, perché le prime per quanto rigogliose danno un vino debole e snervato, e gli altri della frutta insipide e acquose. Feracissima però riesce la stessa pianura alle piante di moro gelso, sicché la propagazione di questi alberi fornisce sufficiente indizio alla crescente cultura e allevazione de’bachi da seta, prodotto non indifferente all’industria agraria pisana.
    Ma ciò che costituisce la maggior risorsa agricola di questa contrada sono i pascoli e i boschi; poiché i primi estesissimi somministrano de’ fieni sottili e teneri per allevare e ingrassare molto bestiame grosso e minuto; mentre i boschi occupano tuttora una gran parte della pianura littoranea fra la bocca di Calambrone e la foce del Serchio. Dissi tuttora, essendo che nei tempi antichi la macchi cuopriva quasi tutta la parte marittima pisana fra la Fossa di Carisio e Pietra S.. – Inoltre la foresta della Fagionaja presso le mura occidentali di Pisa stette in piedi fino al cadere del secolo XVIII al pari della macchia di Barbaricina, entrambe atterrate per migliorare l’aria d’ordine del Granduca Pietro Leopoldo.
    Il bosco poi di Stagno era cotanto folto ed esteso che il comune di
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    Pisa fece un’apposita rubrica ne’suoi statuti del 1286 (Libro IV. rubrica 13) affinché i potestà e i capitani del popolo ogn’anno facessero tagliare e ripulire quella macchia, a partire dalla colonna (forse la miliaria illustrata dal Chimentelli) presso la chiesa di S. Piero in Grado sino all’ospedale di S. Leonardo di Stagno in quella latitudine che avessero giudicato conveniente, come pure che fosse estirpata la macchia bassa nel lecceto spettante a detto spedale, affinché non vi si nascondessero i malfattori.
    Rispetto alla vasta pineta che fascia il littorale pisano, sembra che essa vi esistesse fino dai tempi di Rutilio Numaziano il quale, mentre aspettava la bonaccia di mare; si recò col suo ospite da Porto Pisano alla caccia de’cignali nelle vicine selve:

    Otia vicinis terimus novalia sylvis,
       Sectandisque juvat membra movere feris.
    Instrumenta parat venandi villicus hospes,
       Atque olidum doctos nosse cubile canes.
    Funditur insidiis, et rara fraude plagarum,
       Terribilisque cadit fulmine dentis aperi
    Quem Melaeagraeivereantur adire lacerti,
       Qui laxet nodis Amphitryoniadae
    .
          (Itiner. Lib. I. vers . 621-28)

    Ancora oggidì chiunque capiti a Pisa può recarsi ad ammirare l’estesissima pineta delle RR. Cascine che occupa parecchie miglia quadrate fra l’Arno, il Fiume Morto, le Cascine nuove e il lido del mare, là dove vivono migliaia di quadrupedi, fra cignali, cammelli, daini, vacche, cavalli, ecc., sebbene la razza gentile de’cavalli della Corona attualmente sia stata portata nelle vaste praterie della real tenuta di Coltano al mezzo giorno di Pisa.
    In quanto alle industrie manifatturiere della Comunità di Pisa potrà darne un’idea quanto si è detto all’Articolo Industrie manifatturiere della città, cui sarebbero da aggiungere, per la campagna, oltre le moltissime fornaci di mattoni, e di embrici che si spediscono anco all’estero, molti fabbricatori di carri, varii fonditori di campane e ramai, la cui celebrità diede il nome al Borgo delle Campane fra Riglione e il Portone ecc. ecc..

    CENSIMENTO della
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    Popolazione della Comunità di PISA a quattro epoche diverse.

    TERZIERE di S. MARIA
               
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Maria Maggiore, Primaziale;
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: -;
    abitanti anno 1745 n° 687;
    abitanti anno 1833 n° 1345;
    abitanti anno 1840 n° 1518.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Frediano, Prioria;
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Felice e di S. Margherita;
    abitanti anno 1745 n° 400 (S. Frediano), n° 793 (S. Felice), n° 681 (S. Margherita);
    abitanti anno 1833 n° 2014;
    abitanti anno 1840 n° 2145.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Niccola, Prioria;
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Lucia de’Ricucchi e di S. Vito;
    abitanti anno 1745 n° 259 (S. Niccola), n° 212 (S. Lucia), n° 302 (S. Vito);
    abitanti anno 1833 n° 1715;
    abitanti anno 1840 n° 1828.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Sisto, Prioria;
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con l’annesso di S. Sebastiano delle Fabbriche maggiori;
    abitanti anno 1745 n° 302 (S. Sisto), n° 259 (S. Sebastiano);
    abitanti anno 1833 n° 1060;
    abitanti anno 1840 n° 1142.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: Spedale di S. Chiara;
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: già della Misericordia;
    abitanti anno 1745 n° -;
    abitanti anno 1833 n° 207;
    abitanti anno 1840 n° 222.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Stefano extra moenia ;
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: suburbana (1);
    abitanti anno 1745 n° 164;
    abitanti anno 1833 n° 552;
    abitanti anno 1840 n° 662.

    - Totale popolazione anno 1551 del Terziere di S.
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    Maria: abitanti n° 2321

    TERZIERE di S. FRANCESCO

    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Andrea Forisportae ;
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: soppressa nel 1835 e riunita a S. Michele in Borgo;
    abitanti anno 1745 n° 485;
    abitanti anno 1833 n° 947;
    abitanti anno 1840 n° -.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Caterina (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: già S. Lorenzo alla Rivolta;
    abitanti anno 1745 n° 476;
    abitanti anno 1833 n° 989;
    abitanti anno 1840 n° 977.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Cecilia (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Marco in Calcesana e di S. Zenone;
    abitanti anno 1745 n° 587 (S. Cecilia), n° 166 (S. Marco), n° 39 (S. Zenone);
    abitanti anno 1833 n° 1431;
    abitanti anno 1840 n° 2031.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Marta (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Martino alla Pietra e di S. Silvestro;
    abitanti anno 1745 n° 234 (S. Marta), n° 180 (S. Martino), n° 253 (S. Silvestro);
    abitanti anno 1833 n° 1243;
    abitanti anno 1840 n° 1476.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Michele in Borgo (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Andrea Forisportae e di S. Paolo allOrto;
    abitanti anno 1745 n° 195 (S. Michele), n° - (S. Andrea), n° 842 (S. Paolo);
    abitanti anno 1833 n° 942;
    abitanti anno 1840 n° 1023.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Matteo (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente;
    abitanti anno 1745 n° 454;
    abitanti anno 1833 n° 367;
    abitanti anno 1840
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    n° 963.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Pietro in Ischia (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente;
    abitanti anno 1745 n° 193;
    abitanti anno 1833 n° 353;
    abitanti anno 1840 n° 343.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Pietro in Vinculis (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente;
    abitanti anno 1745 n° 149;
    abitanti anno 1833 n° 1332;
    abitanti anno 1840 n° 1404.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Michel de’Scalzi ;
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: suburbana (1);
    abitanti anno 1745 n° 295;
    abitanti anno 1833 n° 1337;
    abitanti anno 1840 n° 1676.

    - Totale popolazione anno 1551 del Terziere di S. Francesco: abitanti n° 3424

    TERZIERE DI CHINSICA

    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Martino in Chinsica (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con l’annesso di S. Andrea in Chinsica;
    abitanti anno 1745 n° 1020 (S. Martino), n° 516 (S. Andrea);
    abitanti anno 1833 n° 1879;
    abitanti anno 1840 n° 1807.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: SS. Cosimo e Damiano (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente;
    abitanti anno 1745 n° -;
    abitanti anno 1833 n° 896;
    abitanti anno 1840 n° 1034.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Cassiano in S. Paolo (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente;
    abitanti anno 1745 n° 652;
    abitanti anno 1833 n° 712;
    abitanti anno 1840 n° 735.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Sebastiano in Chinsica nel Carmine (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con l’annesso di S. Egidio;
    abitanti anno 1745 n° 374 (S. Sebastiano), n° 271 (S.
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    Egidio);
    abitanti anno 1833 n° 963;
    abitanti anno 1840 n° 764.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Maria Maddalena (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente;
    abitanti anno 1745 n° 492;
    abitanti anno 1833 n° 694;
    abitanti anno 1840 n° 812.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Sepolcro (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con l’annesso di S. Cristofano in Chinsica;
    abitanti anno 1745 n° 99 (S. Sepolcro), n° 458 (S. Cristofano);
    abitanti anno 1833 n° 729;
    abitanti anno 1840 n° 894.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Cristina (prioria);
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente;
    abitanti anno 1745 n° 361;
    abitanti anno 1833 n° 480;
    abitanti anno 1840 n° 552.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Giovanni de’Gatani ;
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: suburbana (1);
    abitanti anno 1745 n° 145;
    abitanti anno 1833 n° 1583;
    abitanti anno 1840 n° 2234.
    - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S. Marco alle Cappelle ;
    titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: suburbana (1);
    abitanti anno 1745 n° 1020;
    abitanti anno 1833 n° 2604;
    abitanti anno 1840 n° 2950.

    - Totale popolazione anno 1551 del Terziere di Chinsica: abitanti n° 3689

    -Totale popolazione dei Terzieri anno 1551: abitanti n° 9434
    -Totale popolazione dei Terzieri anno 1745: abitanti n° 14015
    -Totale popolazione dei Terzieri anno 1833: abitanti n° 26374
    -Totale popolazione dei Terzieri anno 1840: abitanti n° 29192

    CHIESE DI CAMPAGNA

    - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Barbaricina;
    titolo delle cure succursali: S. Apollinare
    abitanti anno 1551 n° 1249;  
    abitanti anno 1745 n° 247;
    abitanti anno 1833 n° 1216;
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    /> abitanti anno 1840 n° 1364.
    - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci;
    titolo delle cure succursali: S. Andrea a Lama
    abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Bartolommeo, S. Giovanni Evangelista, S. Michele e S. Salvatore);
    abitanti anno 1745 n° 202;
    abitanti anno 1833 n° 269;
    abitanti anno 1840 n° 342.
    - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci;
    titolo delle cure succursali: S. Bartolommeo a Trecolli
    abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Andrea, S. Giovanni Evangelista, S. Michele e S. Salvatore);
    abitanti anno 1745 n° 142;
    abitanti anno 1833 n° 199;
    abitanti anno 1840 n° 224.
    - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci;
    titolo delle cure succursali: S. Giovanni Evangelista (Pieve)
    abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Andrea, S. Bartolommeo, S. Michele e S. Salvatore);
    abitanti anno 1745 n° 1474;
    abitanti anno 1833 n° 1764;
    abitanti anno 1840 n° 1844.
    - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci;
    titolo delle cure succursali: S. Michele
    abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Andrea, S. Bartolommeo, S. Giovanni Evangelista e S. Salvatore);
    abitanti anno 1745 n° -;
    abitanti anno 1833 n° 1000;
    abitanti anno 1840 n° 1266.
    - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci;
    titolo delle cure succursali: S. Salvatore a Colle
    abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Andrea, S. Bartolommeo, S. Giovanni Evangelista e S. Michele);
    abitanti anno 1745 n° 187;
    abitanti anno 1833 n° 334;
    abitanti anno 1840 n° 327.
    - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Canniccio;
    titolo delle cure succursali: S. Giusto;
    abitanti anno 1551 n° 278;    
    abitanti anno 1745 n° 251;
    abitanti anno 1833 n° 676;
    abitanti anno 1840 n° 377.
    - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Cisanello;
    titolo delle cure succursali: SS. Biagio e Giusto;
    abitanti anno 1551
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    n° 223;    
    abitanti anno 1745 n° 315;
    abitanti anno 1833 n° 386;
    abitanti anno 1840 n° 837.
    - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: In Orticaja;
    titolo delle cure succursali: S. Ermete;
    abitanti anno 1551 n° 118;    
    abitanti anno 1745 n° 213;
    abitanti anno 1833 n° 569;
    abitanti anno 1840 n° 607.
    - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: In Grado;
    titolo delle cure succursali: S. Pietro;
    abitanti anno 1551 n° -;         
    abitanti anno 1745 n° 129;
    abitanti anno 1833 n° 779;
    abitanti anno 1840 n° 801.
    - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Oratojo;
    titolo delle cure succursali: S. Michele;
    abitanti anno 1551 n° 149;    
    abitanti anno 1745 n° 375;
    abitanti anno 1833 n° 778;
    abitanti anno 1840 n° 852.
    - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Putignano;
    titolo delle cure succursali: S. Bartolommeo;
    abitanti anno 1551 n° 147;    
    abitanti anno 1745 n° 485;
    abitanti anno 1833 n° 1410;
    abitanti anno 1840 n° 1578.
    - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Riglione (*);
    titolo delle cure succursali: SS. Ippolito e Cassiano con l’annesso di S. Donato a Montione;
    abitanti anno 1551 n° 124;    
    abitanti anno 1745 n° 592;
    abitanti anno 1833 n° 1332;
    abitanti anno 1840 n° 1367

    - Totale popolazione anno 1551: abitanti n° 11692
    - Totale popolazione anno 1745: abitanti n° 19228

    Entrano nella Comunità di PISA le seguenti frazioni di popolazioni provenienti da altre Comunità limitrofe

    - nome del luogo: Pieve di Caprona, Comunità donde proviene: Vico Pisano, abitanti anno 1833: n° 62, abitanti anno 1840: n° 72
    - nome del luogo: Ghezzano, Comunità donde proviene: Bagni di S. Giuliano, abitanti anno 1833: n° 87, abitanti anno 1840: n° 88
    - nome del luogo: Madonna dell’Acqua, Comunità donde
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    proviene: Bagni di S. Giuliano, abitanti anno 1833: n° 124, abitanti anno 1840: n° 157
    - nome del luogo: Nicosia, Comunità donde proviene: Vico Pisano, abitanti anno 1833: n° 290, abitanti anno 1840: n° 353

    - Totale popolazione anno 1833: abitanti n° 37649
    - Totale popolazione anno 1840: abitanti n° 41648

    N. B. La Parrocchia di Riglione contrassegnata con l’asterisco ( * ) negli anni 1833 e 1840 mandava fuori della Comunità di Pisa: anno 1833 abitanti n° 422, anno 1840 abitanti n° 442

    - RESTAVANO
    anno 1833: abitanti n° 37227
    anno 1840: abitanti n° 41206

    (1) N. B. Nel presente CENSIMENTO DELLA CITTA’ DI PISA sono comprese ancora le quattro parrocchie suburbane de’Terzieri di Città: cioè S. Stefano extra moenia, S. Michele degli Scalzi, S. Marco alle Cappelle, e S. Giovanni al Gatano, già detto dei Gaetani.

    MOVIMENTO della Popolazione della Comunità di PISA dall’Aprile del 1818 a tutto Aprile del 1840.

    - anno 1818
    popolazione: 30,718
    numero dei nati: maschi 594, femmine 528, totale 1112
    numero dei morti: maschi 562, femmine 547, totale 1109
    numero dei matrimoni: 198
    numero dei nati da ignoti genitori: 149
    centenari: 1
    - anno 1819
    popolazione: 30,606
    numero dei nati: maschi 611, femmine 522, totale 1133
    numero dei morti: maschi 605, femmine 506, totale 1111
    numero dei matrimoni: 283
    numero dei nati da ignoti genitori: 146
    centenari: -
    - anno 1820
    popolazione: 31,111
    numero dei nati: maschi 608, femmine 623, totale 1231
    numero dei morti: maschi 551, femmine 495, totale 1046
    numero dei matrimoni: 316
    numero dei nati da ignoti genitori: 162
    centenari: -
    - anno 1821
    popolazione: 31,593
    numero dei nati: maschi 657, femmine 632, totale 1289
    numero dei morti: maschi 611, femmine
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    527, totale 1138
    numero dei matrimoni: 240
    numero dei nati da ignoti genitori: 134
    centenari: 1
    - anno 1822
    popolazione: 32,187
    numero dei nati: maschi 656, femmine 650, totale 1306
    numero dei morti: maschi 454, femmine 467, totale 921
    numero dei matrimoni: 258
    numero dei nati da ignoti genitori: 144
    centenari: -
    - anno 1823
    popolazione: 32,738
    numero dei nati: maschi 616, femmine 632, totale 1248
    numero dei morti: maschi 515, femmine 477, totale 992
    numero dei matrimoni: 226
    numero dei nati da ignoti genitori: 138
    centenari: -
    - anno 1824
    popolazione: 33,056
    numero dei nati: maschi 617, femmine 636, totale 1253
    numero dei morti: maschi 484, femmine 474, totale 958
    numero dei matrimoni: 294
    numero dei nati da ignoti genitori: 132
    centenari: -
    - anno 1825
    popolazione: 33,648
    numero dei nati: maschi 674, femmine 648, totale 1322
    numero dei morti: maschi 533, femmine 554, totale 1087
    numero dei matrimoni: 275
    numero dei nati da ignoti genitori: 143
    centenari: -
    - anno 1826
    popolazione: 34,241
    numero dei nati: maschi 663, femmine 609, totale 1272
    numero dei morti: maschi 531, femmine 536, totale 1067
    numero dei matrimoni: 258
    numero dei nati da ignoti genitori: 112
    centenari: 1
    - anno 1827
    popolazione: 34,663
    numero dei nati: maschi 673, femmine 605, totale 1278
    numero dei morti: maschi 551, femmine 555, totale 1106
    numero dei matrimoni: 237
    numero dei nati da ignoti genitori: 97
    centenari: -
    - anno 1828
    popolazione: 35,145
    numero dei nati: maschi 684, femmine 665, totale 1349
    numero dei morti: maschi 500, femmine 409, totale 909
    numero dei matrimoni: 279
    numero dei nati da ignoti genitori: 113
    centenari: -
    - anno 1829
    popolazione: 35,641
    numero dei nati: maschi 653, femmine 599, totale 1252
    numero dei morti: maschi 572, femmine 519, totale 1091
    numero dei matrimoni: 222
    numero dei nati da ignoti
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    genitori: 91
    centenari: -
    - anno 1830
    popolazione: 36,258
    numero dei nati: maschi 709, femmine 655, totale 1364
    numero dei morti: maschi 646, femmine 564, totale 1210
    numero dei matrimoni: 245
    numero dei nati da ignoti genitori: 110
    centenari: -
    - anno 1831
    popolazione: 36,512
    numero dei nati: maschi 693, femmine 656, totale 1349
    numero dei morti: maschi 597, femmine 545, totale 1142
    numero dei matrimoni: 257
    numero dei nati da ignoti genitori: 97
    centenari: -
    - anno 1832
    popolazione: 37,029
    numero dei nati: maschi 711, femmine 616, totale 1327
    numero dei morti: maschi 517, femmine 489, totale 1006
    numero dei matrimoni: 267
    numero dei nati da ignoti genitori: 111
    centenari: -
    - anno 1833
    popolazione: 37,227
    numero dei nati: maschi 658, femmine 650, totale 1308
    numero dei morti: maschi 610, femmine 561, totale 1171
    numero dei matrimoni: 287
    numero dei nati da ignoti genitori: 80
    centenari: -
    - anno 1834
    popolazione: 37,794
    numero dei nati: maschi 745, femmine 711, totale 1456
    numero dei morti: maschi 650, femmine 585, totale 1235
    numero dei matrimoni: 322
    numero dei nati da ignoti genitori: 105
    centenari: 1
    - anno 1835
    popolazione: 38,270
    numero dei nati: maschi 758, femmine 663, totale 1421
    numero dei morti: maschi 865, femmine 813, totale 1678
    numero dei matrimoni: 262
    numero dei nati da ignoti genitori: 112
    centenari: -
    - anno 1836
    popolazione: 38,322
    numero dei nati: maschi 728, femmine 704, totale 1432
    numero dei morti: maschi 532, femmine 541, totale 1073
    numero dei matrimoni: 289
    numero dei nati da ignoti genitori: 71
    centenari: -
    - anno 1837
    popolazione: 39,105
    numero dei nati: maschi 757, femmine 701, totale 1458
    numero dei morti: maschi 601, femmine 564, totale 1165
    numero dei matrimoni: 266
    numero dei nati da ignoti genitori: 109
    centenari: -
    - anno 1838
    popolazione: 39,959
    numero dei nati:
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    maschi 706, femmine 672, totale 1378
    numero dei morti: maschi 488, femmine 513, totale 1001
    numero dei matrimoni: 265
    numero dei nati da ignoti genitori: 91
    centenari: -
    - anno 1839
    popolazione: 40,715
    numero dei nati: maschi 751, femmine 699, totale 1450
    numero dei morti: maschi 539, femmine 509, totale 1048
    numero dei matrimoni: 281
    numero dei nati da ignoti genitori: 81
    centenari: 1
    - anno 1840
    popolazione: 41,206
    numero dei nati: maschi 738, femmine 731, totale 1469
    numero dei morti: maschi 548, femmine 623, totale 1171
    numero dei matrimoni: 284
    numero dei nati da ignoti genitori: 103
    centenari: -

    DIOCESI DI PISA

    Senza entrare in discussione, se S. Pietro approdasse dove è ora la chiesa di S. Piero a Grado, e se quel principe degli Apostoli instituisse costà molti cittadini pisani nella fede di Cristo rigenerandoli col S. Battesimo; senza assentire che fino d’allora si costituisse per Pisa un diocesano, niuno certamente vorrà negare il fatto che in questa città fu eretta una delle prime sedi vescovili della Toscana. Avvegnachè fra i monumenti superstiti abbiamo quello che ne avvisa, qualmente nel principio del secolo IV i Pisani avevano un vescovo proprio, Gaudenzio, il quale nell’anno 313 insieme con Felice vescovo di Firenze e con molti altri prelati assisté in Roma ad un Concilio sotto il pontefice Melchiade.
    Già il professore pisano Padre Mattei ad istanza dell’arcivescovo Francesco de’conti Guidi di Volterra nel secolo passato diede alla luce una storia della chiesa pisana e de’ suoi prelati, nella quale egli con molto senno raccolse e discusse non solo tutto ciò che era da sapersi rispetto all’origine della religione cristiana in Pisa e all’istituzione meno dubbia del suo vescovato, ma ancora intorno all’epoca in cui la sua chiesa fu decorata delle attribuzioni di metropolitana, ed i suoi arcivescovi di quelle di Primati e legati apostolici nelle isole della Corsica e della Sardegna;
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    per modo che sarebbe un voler portare nottole ad Atene l’intrattenere su di ciò il lettore di questo Dizionario.
    Lo stesso Padre Mattei non omise tampoco di avvertire che fu lo stesso arcivescovo dei conti Guidi quello che mostrò al Muratori la copiosa seri di pergamene del dovizioso archivio arcivescovile di Pisa, mentre devasi allo zelo del di lui antecessore, l’arcivescovo Frosini, la copia esatta di 2585 membrane trascritte in 12 volumi, a partire dall’anno 720 fino al 1447.
    Nemmeno starò a ritornare sul quesito, se la diocesi antica pisana corrispondesse mai al distretto della provincia civile della stessa città, nel modo che questa lo doveva essere sotto l’impero romano, e se la provincia medesima dalla parte del Val d’Arno Inferiore si estendesse fino alla XXXII pietra milliare, siccome lo darebbe a credere l’iscrizione trovata presso Empoli al luogo di Pietrafitta, tanto più che i luoghi d’Empoli, e meglio ancora di Pietrafitta sono molto più di 32 miglia romane da Pisa lontani. – Vedere EMPOLI.
    Che però la provincia ecclesiastica, ossia la diocesi di Pisa, né anche ai tempi antichi, arrivasse fino a Empoli, molti fatti dei secoli anteriori al mille furono rammentati agl’ Articolo EMPOLI, LUCCA e BORGO S. GENESIO, e tali che mi sembrano sufficienti a dimostrarlo.
    All’opposto è noto che la provincia civile pisana dal lato occidentale si estendeva fino al fiume Versilia, quando la sua diocesi non oltrepassava, che si sappia, il lago di Massaciuccoli. Vero è che in un ricordo del secolo XI, attribuito ad Uberto Lanfranchi, arcivescovo e console del Comune di Pisa, furono segnate alcuni pievi che innanzi al 1015 si dissero della diocesi pisana, alcune delle quali, o non sono mai esistite, ossivero furono sempre nella diocesi fiorentina o do quelle di Lucca e di Volterra. – ( Vedere MATTHEI, Oper. cit. Tomo I. capitolo 5. e MEMOR. LUCCH. Tomo IV.)
    Che nei tumulti d’invasioni estere accaduti nei
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    secoli V, VI e VII le diocesi ecclesiastiche al pari delle civili fossero state soggette a diverse mutazioni non lasciano luogo a dubitarne molti fatti conservati dalla storia, fra i quali è notissimo in Toscana quello relativo alla questione nel principio del secolo VIII insorta fra il vescovo di Siena e quello di Arezzo. – Comunque sia la bisogna, è cosa certa però che l’origine della diocesi di Pisa trovasi involta in una impenetrabile oscurità, ad attraversare la quale senza pericolo di sbagliar cammino parve allo stesso Padre Mattei impresa troppo difficile, per non dire impossibile.
    Limitandomi pertanto ad epoche istoriche accessibili dai documenti superstiti, dirò, come tutto concorre a far credere che sino al secolo VII dell’Era Cristiana, il perimetro della diocesi ecclesiastica di Pisa fosse lo stesso di quello che troviamo nel secolo XIII descritto per pivieri con le respettive chiese filiali, eremi, monasteri e spedali, sia in città come in campagna; voglio dire del catalogo di quelle chiese fatto e rogato nel 1277 alla presenza di Ruggero II arcivescovo di Pisa per raccogliere le decime state imposte il terz’anno in sussidio di Terra Santa proporzionatamente alle rendite ed al fiorino estimale di ciascuna chiesa e luogo pio.
    Anche più esteso è l’altro catalogo compilato nel 1372, il di cui originale ho potuto riscontrare nella curia arcivescovile pisana. – È un codice dove furono registrate quattro imposizioni sugli ecclesiastici nell’anno medesimo; la prima del mese di luglio per 300 fiorini d’imprestito richiesto dal Comune di Pisa; la seconda del mese d’agosto per un aumento di fiorini 50 imposti al clero di tutta la diocesi da pagarsi al nunzio apostolico; la terza di fiorini 165 da pagarsi al cardinale gerosolimitano; e la quarta per ordine del legato pontificio, nel marzo dell’anno stesso 1372, (o 1373 stile comune) per la somma di fiorini 350. – Dai quali registri risulta che i beni del clero della diocesi pisana erano accatastati in guisa che avevano un estimo
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    di fiorini 346, soldi sei, e denari tre, che gli estimi più alti erano quelli della mensa arcivescovile, i cui beni trovavansi al catasto per 42 fiorini, l’estimo del capitolo pisano per 50 fiorini, quelli del priorato di Nicosia per 44 fiorini, del priorato in S. Martino in Chinsica per 20 fiorini, del Monastero di Quiesa per fiorini 18, e del Monastero di S. Stefano oltr’Oseri, o extra moenia , per 15 fiorini. Inoltre dalle quattro apposizioni di sopra menzionate apparisce, che all’anno 1372 ogni fiorino d’oro in Pisa correva per lire 3 soldi 9 e denari 6 di quella moneta.
    Da cotesto ultimo registro pertanto risulta che all’anno 1372 esistevano nella diocesi 351 chiese oltre la Primaziale, fra le quali 60 in città con 18 spedali, 26 pievi, 14 priorati, 12 monasteri e 4 eremi.
    Molte però di quelle chiese, spedali e monasteri attualmente più non esistono né in campagna né in città, essendo stati distrutti dal tempo o ridotti ad altro uso.Che se l’estimo del 1372 può dare un’idea sulla proporzione delle entrate di ciascuna chiesa ivi rammentata, non basta però la cognizione della loro imposta a deciderlo. Solo rispetto alla mensa arcivescovile potrebbero dirlo gl’istrumenti scritti fra il secolo VIII e XIII che conservavansi in quell’archivio, molti de’ quali furono pubblicati nelle antichità del Medioevo, onde rilevare quali e quante furono le possessioni quante le castella, le corti ed i fedeli spettanti al patrimonio della mensa pisana. Giovano inoltre quei documenti a conoscere in qual maniera quasi tutto il suolo davanti alla spiaggia di Pisa, stato progressivamente da quinduci e più secoli abbandonato dal mare per le cause di sopra indicate, pervenisse per ragioni di sovranità nella lista civile dei re d’Italia, e come poi in seguito da questi o dai loro ministri fosse donato alla mensa arcivescovile, o alla Primaziale, oppure al di lei capitolo, quando molti marchesi della Toscana, conti, visconti, o altri ricchi e devoti longobardi pisani,
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    pro remedio animae , offerivano alle chiese il dominio diretto di tutta o di una parte delle corti o castella loro, su molte delle quali gli arcivescovi di Pisa esercitarono per qualche secolo giurisdizione temporale e spirituale.
    Peraltro a cotesti piccoli dinastie gerarchi il Comune pisano aveva già scorciato il potere, quando l’arcivescovo Ruggero nel 15 giugno del 1286 ( stile comune ) presentava al pievano di Cascina lettere del pontefice Martino IV, spedite nel 7 maggio da Orvieto, perché quel sacerdote cercasse di ultimare la lite che allora verteva fra la mensa arcivescovile e gli Anziani di Pisa per la giurisdizione temporale de’castelli de’ Meli , di Riparbella, Beliora, Pomaja, Santa Luce, Lorenzana, Colle Alberti, Nugola, Filettole e Avane, Bientina, Usigliano e Colle Montanino.
    Non rammenterò il diritto di pedaggio che il governo della repubblica aveva ceduto agli arcivescovi di Pisa rispetto alla dogana del sale e al ferro dell’isola d’Elba, né come gli Anziani, nel 1208, volendo aderire alle stanze dell’arcivescovo Ruggiero, ordinassero che il pedaggio solito riscuotersi a pro della mensa del Castel del Bosco fosse trasportato a Calcinaja.
    Dirò piuttosto che nel 1464 gli ufiziali del Monte Comune di Firenze per una provvisione della Signoria consegnarono a Filippo di Vieri de’ Medici, allora arcivescovo di Pisa, tanta quantità di terreno boschivo, prativo e padulesco dell’estensione di stiora 3661 quadrate, da prendersi nelle contrade di Barbaricina (presso le RR. Cascine di Pisa), a Cafoggio Reggio, al Marmigliajo , a Cisanello, ecc. luoghi esistenti nel suburbio occidentale di Pisa.
    L’epoca dell’erezione della chiesa di S. Maria Maggiore di Pisa in arcivescovile risale al 1092 mediante una bolla del 21 aprile diretta dal Pontefice Urbano II al vescovo Daimberto, cui già dall’anno innanzi per bolla del 23 maggio 1091 aveva conferito la supremazia metropolitana sull’isola di Corsica. I suddetti privilegii furono confermati
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    dai pontefici Gelasio II e Onorio II. Ma il Pontefice Innocenzo II all’occasione di innalzare in metropolitana la cattedrale di Genova, assegnò a questa tre vescovi suffraganei della Corsica, mentre con la bolla del I maggio 1138 confermava ai metropolitani della chiesa pisana la supremazia sopra tre altri vescovi della stessa isola, aggiungendogli due chiese vescovili nell’isola di Sardegna con quella di Populonia in Terraferma, e dichiarando nel tempo stesso gli arcivescovi di Pisa Primati nel giudicato di Torres. Quindi con bolla del Pontefice Alessandro III (11 aprile 1176) fu concesso loro l’onore di Primati sulle provincie di Cagliari e Alborea. – Ma dopo espulsi i Pisani dal dominio della Sardegna, anche i loro arcivescovi perderono di fatto, se non di diritto, ogni giurisdizione spirituale, restandogli il titolo di Legati apostolici e di Primati nelle prenominate isole.Inoltre nel 1446 il Ponteficie Pio II staccò la diocesi di Massa e Populonia dalla metropolitana di Pisa per darla alla nuova arcivescovile di Siena.
    Ma nel 1778, all’occasione dell’erezione della diocesi di Pontremoli nella Lunigiana granducale, quel vescovo fu dato suffraganeo al metropolitano di Pisa, cui sono stati sottoposti, nel 1806 il nuovo vescovo di Livorno, e nel 1823 quello di Massa Ducale.
    Cangiamenti recenti accaduti nel perimetro della diocesi di Pisa
    . – Nel 1789, per bolla del Ponteficie Pio VI del 18 luglio, furono staccati dalla diocesi di Pisa e dati a quelli di Lucca sette popoli costituenti il pievanato di Massaciuccoli, compresi tutti nel territorio lucchese, invece dei quali la diocesi di Lucca cedé alla pisana la pieve di Ripafratta coi popoli del vicariato di Barga; dipoi nel 1798 la diocesi di Pisa acquistò dalla lucchese i popoli del vicariato di Pietrasanta, spettanti al Granducato, comprevisi anco i due pievanati di Vallecchia e di Seravezza appartenuti alla diocesi di Pontremoli, già di Luni Sarzana. – Sennonché nel 1806 furono smembrati dalla chiesa pisana tutti i popoli della diocesi di Livorno. – Vedere
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    LUCCA e LIVORNO, Diocesi .
    Nello stato attuale la madre chiesa pisana conta 133 parrocchie, 18 delle quali dentro le mura della città, con 33 pivieri.
    Dal Quadro sinottico qui appresso risulta che le 133 parrocchie ivi designate, nell’anno 1551 contavano 37632 abitanti dei quali 9434 abitanti spettavano ai Terzieri e 501 alle otto chiese suburbane. Nel 1745 le 133 parrocchie avevano 62798 abitanti dei quali 14015 erano nei Terzieri, e 4115 nelle 8 chiese suburbane di Pisa. Nel 1833 le 133 cure medesime avevano accresciuto la loro popolazione fino a 122863 abitanti dei quali 26374 alla città (comprese peraltro le quattro chiese suburbane de’ suoi Terzieri), mentre le altre otto chiese del suburbio di Pisa contavano 7460 abitanti. Finalmente nel 1840 tutta la diocesi si componeva di 135123 abitanti, dei quali 19192 nei Terzieri di Pisa, e 7968 abitanti nelle otto chiese suburbane.
    La formazione però de’ pievanati coll’andare del tempo ha sofferto varie vicende, talchè non è possibile determinare l’epoca dell’aggregazione delle chiese parrocchiali da lunga data soppresse o di rute.
    La diocesi pisana, oltre al capitolo maggiore, composto di 27 canonici con 3 dignità e 56 cappellani, ha tre chiese collegiate, una delle quali in città (la Conventuale de’Cavalieri) e due nel distretto cioè, a Pietrasanta, e a Barga. Essa ha un grandioso seminario nel soppresso convento di S. Caterina de’Frati Domenicani, provvisto di maestri e di biblioteca con un collegio annesso.
    Fra gli arcivescovi più celebri non tacerò quel Daiberto che condusse i Pisani alla crociata del gran Goffredo. Quel Pietro Mariconi che fu duce dell’armata navale alla conquista delle isole Baleari, e quell’Ubaldo Lanfranchi, campione di un’altra crociata per riconquistare la santa città di Gerusalemme. Meritano pure di essere rammentati un Federigo Visconti, un Carlo Antonio del Pozzo, ed un Angelo Franceschi, i quali tutti lasciarono di se onorevoli memorie, per tralasciare molti altri arcivescovi insigni per dottrina e per cristiane virtù, senza dire di due altri
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    troppo famigerati nell’istoria pisana e fiorentina a cagione della morte del conte Ugolino e della congiura de’Pazzi.

    QUADRO SINOTTICO dei 33 Pievanati della DIOCESI di PISA con la loro popolazione a quattro epoche diverse.

    PIVIERE MAGGIORE di CITTA’

    - nome del luogo: 1. Pievanato della Primaziale con 4 chiese suburbane

    titolo della chiesa: Terziere di S. Maria
    popolazione anno 1551: abitanti n° 2321, popolazione anno 1745: abitanti n° 4059, popolazione anno 1833: abitanti n° 6893, popolazione anno 1840: abitanti n° 7515;
    titolo della chiesa: Terziere di S. Francesco
    popolazione anno 1551: abitanti n° 3424, popolazione anno 1745: abitanti n° 4539, popolazione anno 1833: abitanti n° 8941, popolazione anno 1840: abitanti n° 9893;
    titolo della chiesa: Terziere di S. Chinsica
    popolazione anno 1551: abitanti n° 3689, popolazione anno 1745: abitanti n° 5408, popolazione anno 1833: abitanti n° 10540, popolazione anno 1840: abitanti n° 11782;
    N° 8 chiese suburbane fuori de’Terzieri, popolazione anno 1551: abitanti n° 501, popolazione anno 1745: abitanti n° 4115, popolazione anno 1833: abitanti n° 7460, popolazione anno 1840: abitanti n° 7968;

    TOTALE deli Abitanti del Pievanato maggiore: anno 1551 n° 9935, anno 1745 n° 18121, anno 1833 n° 33834, anno 1840 n° 37160.

    PIVIERI DI CAMPAGNA

    - nome del luogo: 2. Pievanato di Arena

    titolo della chiesa: Pieve di Arena
    popolazione anno 1551: abitanti n° 131, popolazione anno 1745: abitanti n° 470, popolazione anno 1833: abitanti n° 565, popolazione anno 1840: abitanti n° 631;
    titolo della chiesa: S. Jacopo di Cafaggio reggio con l’annesso di Metato
    popolazione anno 1551: abitanti n° 94, popolazione anno 1745: abitanti n° 172, popolazione anno 1833: abitanti n° 471, popolazione anno 1840: abitanti n° 532;

    - nome del luogo: 3. Pievanato d’Asciano

    titolo della chiesa: Pieve d’Asciano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 148, popolazione anno 1745: abitanti n° 509, popolazione anno 1833:
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    abitanti n° 1396, popolazione anno 1840: abitanti n° 1590;
    titolo della chiesa: S. Jacopo d’Agnano
    popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° 232, popolazione anno 1833: abitanti n° 469, popolazione anno 1840: abitanti n° 479;

    - nome del luogo: 4. Pievanato d’Avane

    titolo della chiesa: Pieve d’Avane senza succursali
    popolazione anno 1551: abitanti n° 223, popolazione anno 1745: abitanti n° 297, popolazione anno 1833: abitanti n° 700, popolazione anno 1840: abitanti n° 738;

    - nome del luogo: 5. Pievanato di Barga

    titolo della chiesa: Collegiata di Barga
    popolazione anno 1745: abitanti n° 1830, popolazione anno 1833: abitanti n° 2510, popolazione anno 1840: abitanti n° 2675;

    titolo della chiesa: S. Maria a Loppia
    popolazione anno 1745: abitanti n° 834, popolazione anno 1833: abitanti n° 1473, popolazione anno 1840: abitanti n° 1633;

    titolo della chiesa: S. Niccola a Castelvecchio
    popolazione anno 1745: abitanti n° 278, popolazione anno 1833: abitanti n° 353, popolazione anno 1840: abitanti n° 410;

    titolo della chiesa: S. Frediano a Sommocologna
    popolazione anno 1745: abitanti n° 582, popolazione anno 1833: abitanti n° 536, popolazione anno 1840: abitanti n° 557;

    titolo della chiesa: S. Pietro a Campo
    popolazione anno 1745: abitanti n° 575, popolazione anno 1833: abitanti n° 792, popolazione anno 1840: abitanti n° 803;

    titolo della chiesa: S. Giusto a Tiglio
    popolazione anno 1745: abitanti n° 635, popolazione anno 1833: abitanti n° 883, popolazione anno 1840: abitanti n° 958;

    titolo della chiesa: S. Michele a Albiano
    popolazione anno 1745: abitanti n° 196, popolazione anno 1833: abitanti n° 243, popolazione anno 1840: abitanti n° 260;

    totale popolazione anno 1551 del Pievanato di Barga: abitanti n° 3895

    - nome del luogo: 6. Pievanato di Bientina

    titolo della chiesa: Pieve di Bientina senza suffraganee
    popolazione anno 1551: abitanti n° 700, popolazione anno
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    1745: abitanti n° 1548, popolazione anno 1833: abitanti n° 2209, popolazione anno 1840: abitanti n° 2337;

    - nome del luogo: 7. Pievanato di Buti

    titolo della chiesa: Pieve di Bientina senza suffraganee
    popolazione anno 1551: abitanti n° 962, popolazione anno 1745: abitanti n° 1598, popolazione anno 1833: abitanti n° 3498, popolazione anno 1840: abitanti n° 3775;

    - nome del luogo: 8. Pievanato di Calci

    titolo della chiesa: Pieve di Calci
    popolazione anno 1745: abitanti n° 1474, popolazione anno 1833: abitanti n° 1764, popolazione anno 1840: abitanti n° 1844;

    titolo della chiesa: S. Bartolommeo a Tracolle
    popolazione anno 1745: abitanti n° 142, popolazione anno 1833: abitanti n° 199, popolazione anno 1840: abitanti n° 224;

    titolo della chiesa: S. Michele a Castel maggiore
    popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 1000, popolazione anno 1840: abitanti n° 1266;

    titolo della chiesa: S. Salvadore a Colle
    popolazione anno 1745: abitanti n° 187, popolazione anno 1833: abitanti n° 334, popolazione anno 1840: abitanti n° 327;

    titolo della chiesa: S. Andrea a Lama o a Zambra
    popolazione anno 1745: abitanti n° 202, popolazione anno 1833: abitanti n° 269, popolazione anno 1840: abitanti n° 343;

    titolo della chiesa: S. Agostino di Nicosia
    popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 463, popolazione anno 1840: abitanti n° 526;

    totale popolazione anno 1551 del Pievanato di Calci: abitanti n° 1249

    - nome del luogo: 9. Pievanato di Calcinaja

    titolo della chiesa: Pieve di Calcinaja con l’annesso di Montecchio
    popolazione anno 1551: abitanti n° 515, popolazione anno 1745: abitanti n° 1142, popolazione anno 1833: abitanti n° 2437, popolazione anno 1840: abitanti n° 2586;

    - nome del luogo: 10. Pievanato di Campo

    titolo della chiesa: Pieve di Campo e annessi
    popolazione anno 1551: abitanti n° 199, popolazione anno 1745: abitanti n°
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    470, popolazione anno 1833: abitanti n° 877, popolazione anno 1840: abitanti n° 631;

    titolo della chiesa: S. Jacopo a Colignola
    popolazione anno 1551: abitanti n° 123, popolazione anno 1745: abitanti n° 302, popolazione anno 1833: abitanti n° 674, popolazione anno 1840: abitanti n° 876;

    titolo della chiesa: S. Giovanni Battista a Ghezzano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 96, popolazione anno 1745: abitanti n° 233, popolazione anno 1833: abitanti n° 485, popolazione anno 1840: abitanti n° 502;

    - nome del luogo: 11. Pievanato di Caprona

    titolo della chiesa: Pieve di Caprona
    popolazione anno 1551: abitanti n° 169, popolazione anno 1745: abitanti n° 195, popolazione anno 1833: abitanti n° 420, popolazione anno 1840: abitanti n° 420;

    titolo della chiesa: S. Salvatore a Uliveto e annessi
    popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° 421, popolazione anno 1833: abitanti n° 801, popolazione anno 1840: abitanti n° 826;

    titolo della chiesa: S. Maria a Mezzana
    popolazione anno 1551: abitanti n° 94, popolazione anno 1745: abitanti n° 298, popolazione anno 1833: abitanti n° 426, popolazione anno 1840: abitanti n° 460;

    - nome del luogo: 12. Pievanato di S. Casciano a Settimo

    titolo della chiesa: Pieve di S. Casciano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 166, popolazione anno 1745: abitanti n° 571, popolazione anno 1833: abitanti n° 841, popolazione anno 1840: abitanti n° 990;

    titolo della chiesa: S. Frediano a Settimo
    popolazione anno 1551: abitanti n° 215, popolazione anno 1745: abitanti n° 252, popolazione anno 1833: abitanti n° 1087, popolazione anno 1840: abitanti n° 1069;

    titolo della chiesa: S. Benedetto a Settimo
    popolazione anno 1551: abitanti n° 193, popolazione anno 1745: abitanti n° 520, popolazione anno 1833: abitanti n° 658, popolazione anno 1840: abitanti n° 767;

    titolo della chiesa: S. Benedetto a Settimo
    popolazione anno 1551: abitanti n° 193, popolazione anno 1745: abitanti
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    n° 520, popolazione anno 1833: abitanti n° 658, popolazione anno 1840: abitanti n° 767;

    titolo della chiesa: S. Michele a Marciana e a Marcianella
    popolazione anno 1551: abitanti n° 205, popolazione anno 1745: abitanti n° 571, popolazione anno 1833: abitanti n° 629, popolazione anno 1840: abitanti n° 636;

    titolo della chiesa: S. Michele a Casciavola
    popolazione anno 1551: abitanti n° 128, popolazione anno 1745: abitanti n° 343, popolazione anno 1833: abitanti n° 942, popolazione anno 1840: abitanti n° 1033;

    titolo della chiesa: S. Maria e Jacopo a Zambra
    popolazione anno 1551: abitanti n° 155, popolazione anno 1745: abitanti n° 488, popolazione anno 1833: abitanti n° 619, popolazione anno 1840: abitanti n° 631;

    titolo della chiesa: S. Giorgio a Bibbiano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 103, popolazione anno 1745: abitanti n° 385, popolazione anno 1833: abitanti n° 650, popolazione anno 1840: abitanti n° 773;

    titolo della chiesa: S. Lorenzo a Pagnatico
    popolazione anno 1551: abitanti n° 259, popolazione anno 1745: abitanti n° 331, popolazione anno 1833: abitanti n° 635, popolazione anno 1840: abitanti n° 637;

    titolo della chiesa: S. Prospero a Via Cava
    popolazione anno 1551: abitanti n° 559, popolazione anno 1745: abitanti n° 629, popolazione anno 1833: abitanti n° 995, popolazione anno 1840: abitanti n° 1087;

    titolo della chiesa: S. Jacopo a Navacchio
    popolazione anno 1551: abitanti n° 114, popolazione anno 1745: abitanti n° 100, popolazione anno 1833: abitanti n° 218, popolazione anno 1840: abitanti n° 247;

    titolo della chiesa: S. Stefano a Macerata
    popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 404, popolazione anno 1840: abitanti n° 453;

    - nome del luogo: 13. Pievanato di Cascina

    titolo della chiesa: Pieve di Cascina
    popolazione anno 1551: abitanti n° 893, popolazione anno 1745: abitanti n° 1757, popolazione anno 1833: abitanti n° 2244, popolazione anno
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    1840: abitanti n° 2482;

    titolo della chiesa: S. Andrea a Pozzale
    popolazione anno 1551: abitanti n° 44, popolazione anno 1745: abitanti n° 550, popolazione anno 1833: abitanti n° 985, popolazione anno 1840: abitanti n° 1125;

    titolo della chiesa: S. Pietro a Latignano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 26, popolazione anno 1745: abitanti n° 542, popolazione anno 1833: abitanti n° 982, popolazione anno 1840: abitanti n° 1049;

    - nome del luogo: 14. Pievanato di Colle Salvetti, già di Vicarello

    titolo della chiesa: Pieve di Colle Salvetti
    popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 509, popolazione anno 1840: abitanti n° 900;

    titolo della chiesa: S. Jacopo a Vicarello
    popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 760, popolazione anno 1840: abitanti n° 973;

    - nome del luogo: 15. Pievanato di Filettole

    titolo della chiesa: Pieve di Filettole senza succursali
    popolazione anno 1551: abitanti n° 208, popolazione anno 1745: abitanti n° 456, popolazione anno 1833: abitanti n° 904, popolazione anno 1840: abitanti n° 967;

    - nome del luogo: 16. Pievanato di S. Giovanni alla Vena

    titolo della chiesa: Pieve di S. Giovanni alla Vena
    popolazione anno 1551: abitanti n° 493, popolazione anno 1745: abitanti n° 772, popolazione anno 1833: abitanti n° 1485, popolazione anno 1840: abitanti n° 1564;
    titolo della chiesa: S. Andrea a Cucigliana
    popolazione anno 1551: abitanti n° 117, popolazione anno 1745: abitanti n° 305, popolazione anno 1833: abitanti n° 475, popolazione anno 1840: abitanti n° 498;
    titolo della chiesa: S. Quirico a Lugnano e annessi
    popolazione anno 1551: abitanti n° 217, popolazione anno 1745: abitanti n° 258, popolazione anno 1833: abitanti n° 440, popolazione anno 1840: abitanti n° 430;

    - nome del luogo: 17. Pievanato di S. Lorenzo alle Corti

    titolo della
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    chiesa: Pieve di S. Lorenzo alle Corti
    popolazione anno 1551: abitanti n° 148, popolazione anno 1745: abitanti n° 377, popolazione anno 1833: abitanti n° 644, popolazione anno 1840: abitanti n° 775;

    titolo della chiesa: SS. Pietro e Giusto a Visignano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 99, popolazione anno 1745: abitanti n° 185, popolazione anno 1833: abitanti n° 405, popolazione anno 1840: abitanti n° 420;
    titolo della chiesa: SS. Andrea e Lucia a Ripoli e Celajano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 204, popolazione anno 1745: abitanti n° 130, popolazione anno 1833: abitanti n° 275, popolazione anno 1840: abitanti n° 281;
    titolo della chiesa: S. Sisto al Pino
    popolazione anno 1551: abitanti n° 134, popolazione anno 1745: abitanti n° 195, popolazione anno 1833: abitanti n° 345, popolazione anno 1840: abitanti n° 370;
    titolo della chiesa: S. Michele a Oratojo
    popolazione anno 1551: abitanti n° 149, popolazione anno 1745: abitanti n° 385, popolazione anno 1833: abitanti n° 778, popolazione anno 1840: abitanti n° 852;
    titolo della chiesa: S. Stefano a Pettori
    popolazione anno 1551: abitanti n° 142, popolazione anno 1745: abitanti n° 358, popolazione anno 1833: abitanti n° 625, popolazione anno 1840: abitanti n° 6 0;
    titolo della chiesa: SS. Ippolito e Casciano a Riglione con l’annesso di S. Donato a Montione
    popolazione anno 1551: abitanti n° 178, popolazione anno 1745: abitanti n° 592, popolazione anno 1833: abitanti n° 1332, popolazione anno 1840: abitanti n° 1667;
    titolo della chiesa: S. Ilario a Titignano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 126, popolazione anno 1745: abitanti n° 312, popolazione anno 1833: abitanti n° 604, popolazione anno 1840: abitanti n° 617;

    - nome del luogo: 18. Pievanato di Lorenzana

    titolo della chiesa: Pieve di Lorenzana con più l’annesso di Postignano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 249, popolazione anno 1745: abitanti n° 575, popolazione anno 1833: abitanti n° 931, popolazione anno 1840: abitanti n° 955;
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    /> titolo della chiesa: S. Michele a Orciano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 98, popolazione anno 1745: abitanti n° 207, popolazione anno 1833: abitanti n° 717, popolazione anno 1840: abitanti n° 787;

    - nome del luogo: 19. Pievanato di S. Luce

    titolo della chiesa: Pieve di S. Luce
    popolazione anno 1551: abitanti n° 616 (con S. Lucia e S. Bartolommeo), popolazione anno 1745: abitanti n° 176, popolazione anno 1833: abitanti n° 397, popolazione anno 1840: abitanti n° 452;

    titolo della chiesa: S. Lucia a S. Luce
    popolazione anno 1551: abitanti n° 616 (con Pieve di S. Luce e S. Bartolommeo), popolazione anno 1745: abitanti n° 257, popolazione anno 1833: abitanti n° 696, popolazione anno 1840: abitanti n° 790;

    titolo della chiesa: S. Bartolommeo a Pastina
    popolazione anno 1551: abitanti n° 616 (con Pieve di S. Luce e S. Lucia), popolazione anno 1745: abitanti n° 155, popolazione anno 1833: abitanti n° 450, popolazione anno 1840: abitanti n° 590;

    - nome del luogo: 20. Pievanato di Pietrasanta

    titolo della chiesa: Collegiata insigne di Pietrasanta
    popolazione anno 1551: abitanti n° 1644, popolazione anno 1745: abitanti n° 761, popolazione anno 1833: abitanti n° 2914, popolazione anno 1840: abitanti n° 3177;

    titolo della chiesa: S. Maria Maddalena e S. Felicita in Val di Castello
    popolazione anno 1551: abitanti n° 474, popolazione anno 1745: abitanti n° 386 (con S. Rocco a Capezzano), popolazione anno 1833: abitanti n° 511, popolazione anno 1840: abitanti n° 583;

    titolo della chiesa: S. Rocco a Capezzano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 118, popolazione anno 1745: abitanti n° 386 (con S. Maria Maddalena e S. Felicita in Val di Castello), popolazione anno 1833: abitanti n° 818, popolazione anno 1840: abitanti n° 877;

    titolo della chiesa: S. Salvadore a Cavriglia, fuori di Pietrasanta
    popolazione anno 1551: abitanti n° 154, popolazione anno 1745: abitanti n° 380, popolazione anno 1833: abitanti
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    n° 1067, popolazione anno 1840: abitanti n° 1215;

    - nome del luogo: 21. Pievanato di Montemagno

    titolo della chiesa: Pieve di Montemagno per grado onorifico
    popolazione anno 1551: abitanti n° 522, popolazione anno 1745: abitanti n° 644, popolazione anno 1833: abitanti n° 755, popolazione anno 1840: abitanti n° 777;

    - nome del luogo: 22. Pievanato di Pomaja

    titolo della chiesa: Pieve di Pomaja senza succursali
    popolazione anno 1551: abitanti n° 118, popolazione anno 1745: abitanti n° 91, popolazione anno 1833: abitanti n° 392, popolazione anno 1840: abitanti n° 369;

    - nome del luogo: 23. Pievanato di Pontedera

    titolo della chiesa: Pieve di Pontedera senza succursali
    popolazione anno 1551: abitanti n° 905, popolazione anno 1745: abitanti n° 2656, popolazione anno 1833: abitanti n° 5302, popolazione anno 1840: abitanti n° 5447;

    - nome del luogo: 24. Pievanato del Ponte a Serchio già di Vecchializia

    titolo della chiesa: Pieve del Ponte a Serchio già di Vecchializia
    popolazione anno 1551: abitanti n° 272, popolazione anno 1745: abitanti n° 378, popolazione anno 1833: abitanti n° 979, popolazione anno 1840: abitanti n° 1115;
    titolo della chiesa: S. Andrea a Pescajola
    popolazione anno 1551: abitanti n° 105, popolazione anno 1745: abitanti n° 126, popolazione anno 1833: abitanti n° 206, popolazione anno 1840: abitanti n° 220;

    - nome del luogo: 25. Pievanato di Pugnano

    titolo della chiesa: Pieve di Pugnano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 112, popolazione anno 1745: abitanti n° 264, popolazione anno 1833: abitanti n° 376, popolazione anno 1840: abitanti n° 441;
    titolo della chiesa: S. Lucia alle Mulina di Quosa
    popolazione anno 1551: abitanti n° 207, popolazione anno 1745: abitanti n° 490, popolazione anno 1833: abitanti n° 818, popolazione anno 1840: abitanti n° 877;
    titolo della chiesa: S. Ippolito a Colognole e Patrignone
    popolazione anno 1551: abitanti n° 233, popolazione anno 1745: abitanti n° 137, popolazione
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    anno 1833: abitanti n° 367, popolazione anno 1840: abitanti n° 414;

    - nome del luogo: 26. Pievanato di Rigoli

    titolo della chiesa: Pieve di Rigoli con l’annesso di Corliano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 242, popolazione anno 1745: abitanti n° 421, popolazione anno 1833: abitanti n° 630, popolazione anno 1840: abitanti n° 676;
    titolo della chiesa: S. Bartolommeo a Orzignano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 72, popolazione anno 1745: abitanti n° 175, popolazione anno 1833: abitanti n° 380, popolazione anno 1840: abitanti n° 448;
    titolo della chiesa: S. Maria a Pappiana
    popolazione anno 1551: abitanti n° 117, popolazione anno 1745: abitanti n° 195, popolazione anno 1833: abitanti n° 488, popolazione anno 1840: abitanti n° 503;
    titolo della chiesa: S. Giovanni a Limite e Corvinaja
    popolazione anno 1551: abitanti n° 172, popolazione anno 1745: abitanti n° 230, popolazione anno 1833: abitanti n° 498, popolazione anno 1840: abitanti n° 543;
    titolo della chiesa: S. Martino a Ulmiano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 79, popolazione anno 1745: abitanti n° 240, popolazione anno 1833: abitanti n° 543, popolazione anno 1840: abitanti n° 639;

    - nome del luogo: 27. Pievanato di Ripafratta

    titolo della chiesa: Pieve di Ripafratta senza succursali
    popolazione anno 1551: abitanti n° 222, popolazione anno 1745: abitanti n° 484, popolazione anno 1833: abitanti n° 692, popolazione anno 1840: abitanti n° 763;

    - nome del luogo: 28. Pievanato di Riparbella

    titolo della chiesa: Pieve di Riparbella
    popolazione anno 1551: abitanti n° 330, popolazione anno 1745: abitanti n° 292, popolazione anno 1833: abitanti n° 1112, popolazione anno 1840: abitanti n° 1253;

    titolo della chiesa: S. Giovanni alla Castellina
    popolazione anno 1551: abitanti n° 490, popolazione anno 1745: abitanti n° 380, popolazione anno 1833: abitanti n° 1284, popolazione anno 1840: abitanti n° 1407;

    - nome del luogo: 29. Pievanato di Seravezza

    titolo della chiesa: Pieve di
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    Seravezza
    popolazione anno 1551: abitanti n° 1581 (con S. Martino alla Cappella), popolazione anno 1745: abitanti n° 1258, popolazione anno 1833: abitanti n° 1871, popolazione anno 1840: abitanti n° 1960;
    titolo della chiesa: S. Martino alla Cappella
    popolazione anno 1551: abitanti n° 1581 (con Pieve di Seravezza), popolazione anno 1745: abitanti n° 653, popolazione anno 1833: abitanti n° 1062, popolazione anno 1840: abitanti n° 1074;
    titolo della chiesa: S. Paolo a Ruosina
    popolazione anno 1551: abitanti n° 235, popolazione anno 1745: abitanti n° 325, popolazione anno 1833: abitanti n° 361, popolazione anno 1840: abitanti n° 428;
    titolo della chiesa: S. Ansano a Basati
    popolazione anno 1551: abitanti n° 173, popolazione anno 1745: abitanti n° 241, popolazione anno 1833: abitanti n° 327, popolazione anno 1840: abitanti n° 376;
    titolo della chiesa: S. Maria Lauretana a Querceta
    popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 2455, popolazione anno 1840: abitanti n° 2817;
    titolo della chiesa: S. Maria a Livigliani
    popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° 363, popolazione anno 1833: abitanti n° 580, popolazione anno 1840: abitanti n° 605;
    titolo della chiesa: S. Clemente a Terrinca
    popolazione anno 1551: abitanti n° 369, popolazione anno 1745: abitanti n° 592, popolazione anno 1833: abitanti n° 818, popolazione anno 1840: abitanti n° 802;

    - nome del luogo: 30. Pievanato di Stazzema

    titolo della chiesa: Pieve di Stazzema
    popolazione anno 1551: abitanti n° 630, popolazione anno 1745: abitanti n° 940, popolazione anno 1833: abitanti n° 898, popolazione anno 1840: abitanti n° 977;
    titolo della chiesa: S. Michele a Farnocchia
    popolazione anno 1551: abitanti n° 330, popolazione anno 1745: abitanti n° 647, popolazione anno 1833: abitanti n° 718, popolazione anno 1840: abitanti n° 746;
    titolo della chiesa: S. Pietro a Retignano
    popolazione anno 1551: abitanti n° 213, popolazione anno 1745: abitanti n° 385, popolazione anno
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    1833: abitanti n° 455, popolazione anno 1840: abitanti n° 519;
    titolo della chiesa: S. Sisto a Pomezzana
    popolazione anno 1551: abitanti n° 234, popolazione anno 1745: abitanti n° 322, popolazione anno 1833: abitanti n° 367, popolazione anno 1840: abitanti n° 381;
    titolo della chiesa: S. Maria al Cardoso
    popolazione anno 1551: abitanti n° 92, popolazione anno 1745: abitanti n° 196, popolazione anno 1833: abitanti n° 344, popolazione anno 1840: abitanti n° 375;
    titolo della chiesa: S. Niccolò al Pruno e Volegno
    popolazione anno 1551: abitanti n° 349, popolazione anno 1745: abitanti n° 495, popolazione anno 1833: abitanti n° 659, popolazione anno 1840: abitanti n° 706;
    titolo della chiesa: S. Antonio all’Alpe di Stazzema
    popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 397, popolazione anno 1840: abitanti n° 419;

    - nome del luogo: 31. Pievanato di Vallecchia

    titolo della chiesa: Pieve di Vallecchia
    popolazione anno 1551: abitanti n° 493, popolazione anno 1745: abitanti n° 1735, popolazione anno 1833: abitanti n° 2914, popolazione anno 1840: abitanti n° 3177;
    titolo della chiesa: S. Antonio a Cerretta
    popolazione anno 1551: abitanti n° 38, popolazione anno 1745: abitanti n° 96, popolazione anno 1833: abitanti n° 115, popolazione anno 1840: abitanti n° 132;

    - nome del luogo: 32. Pievanato di Vecchiano

    titolo della chiesa: Pieve di Vecchiano
    popolazione anno 1745: abitanti n° 409, popolazione anno 1833: abitanti n° 1160, popolazione anno 1840: abitanti n° 1231;
    titolo della chiesa: S. Frediano a Vecchiano
    popolazione anno 1745: abitanti n° 302, popolazione anno 1833: abitanti n° 710, popolazione anno 1840: abitanti n° 859;
    titolo della chiesa: S. Pietro a Malaventre
    popolazione anno 1745: abitanti n° 122, popolazione anno 1833: abitanti n° 798, popolazione anno 1840: abitanti n° 899;
    titolo della chiesa: SS. Simone e Giuda a Nodica
    popolazione anno 1745: abitanti n° 236, popolazione anno 1833:
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    abitanti n° 717, popolazione anno 1840: abitanti n° 744;

    totale popolazione anno 1551 del Pievanato di Vecchiano: abitanti n° 763

    - nome del luogo: 33. Pievanato di Vicopisano

    titolo della chiesa: Pieve di Vico Pisano senza suffraganee
    popolazione anno 1551: abitanti n° 649, popolazione anno 1745: abitanti n° 1076, popolazione anno 1833: abitanti n° 1263, popolazione anno 1840: abitanti n° 1526;

    - TOTALE popolazione dei Pievanati di Campagna anno 1551: abitanti n° 27697
    - TOTALE popolazione dei Pievanati di Campagna anno 1745: abitanti n° 44668
    - TOTALE popolazione dei Pievanati di Campagna anno 1833: abitanti n° 89029
    - TOTALE popolazione dei Pievanati di Campagna anno 1840: abitanti n° 97963

    RICAPITOLAZIONE

    - POPOLAZIONE dei tre Terzieri della Città di PISA comprese 4 chiese suburbane:
    anno 1551 abitanti n° 9434
    anno 1745 abitanti n° 14015
    anno 1833 abitanti n° 26374
    anno 1840 abitanti n° 29192

    - POPOLAZIONE delle 8 parrocchie suburbane fuori dei Terzieri:
    anno 1551 abitanti n° 501
    anno 1745 abitanti n° 4115
    anno 1833 abitanti n° 7460
    anno 1840 abitanti n° 7968

    - POPOLAZIONE dei Pivieri di Campagna:
    anno 1551 abitanti n° 27697
    anno 1745 abitanti n° 44668
    anno 1833 abitanti n° 89029
    anno 1840 abitanti n° 97963

    - TOTALE DEGLI ABITANTI DELLA DIOCESI DI PISA:
    anno 1551 abitanti n° 37632
    anno 1745 abitanti n° 62798
    anno 1833 abitanti n° 122863
    anno 1840 abitanti n° 135123

    COMPARTIMENTO DI PISA

    Il Compartimento pisano in origine abbracciava il perimetro territoriale della sua repubblica, cangiato poi in distretto della fiorentina, compresovi il territorio disunito del Granducato di Toscana che gli fu e che attualmente gli resta aggregato, insieme alle isole del Giglio e di Gorgona ed ai paesi di terraferma con le isole che costituirono il principato di Piombino.
    Da quel perimetro della repubblica conviene però
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    distinguere l’antico suo contado dal distretto, mentre gli abitanti del primo come cittadini pisani godevano di maggiori diritti degli abitanti del secondo, siccome fu avvertito all’ Articolo FIRENZE COMPARTIMENTO.
    Il contado di Pisa dal lato orientale, alla sinistra dell’Arno, terminava come adesso col torrente Ciecinella e rimontando il corso di questo abbracciava la Comunità di Piccioli in Val d’Era. Di là attraversava il fiume Era per abbracciare le Colline superiori e inferiori pisane fino in Val di Tora. Dal lato destro dell’Arno il suo contado terminava col territorio di Vico Pisano sopra a Cintola, mentre le terre del Val d’Arno spettarono un tempo al suo distretto. Dal lato poi settentrionale il contado pisano stendevasi in Val di Serchio, a partire da Filettole sino al mare, e di là lungo il lido verso ostro fino alla Torre S. Vincenzo, comprendendo il territorio di Campiglia.
    All’incontro spettava alla giurisdizione distrettuale della repubblica pisana tutto il littorale dalla Torre S. Vincenzo alla fiumara di Castiglione della Pescaja, siccome vi appartennero le isole dell’Elba, della Pianosa, di Monte Cristo e del Giglio, mentre dalla parte di terraferma fu del distretto pisano fino al 1370 il territorio Sanminiatese, a partire dalla bocca d’Elsa sino alla Chiecinella o Ciecinella , oltre i paesi di Val di Cecina e di Val di Cornia, che furono rammentati nei privilegii concessi agli Anziani di Pisa dagl’Imperatori Federigo I, Arrigo VI, Ottone IV, Federigo II e Carlo IV.
    Se poi si volesse contemplare il Compartimento pisano, ossia il contado e distretto della Repubblica di Pisa, come lo era nel principio del secolo XIV, ne abbiamo una prova in un codice scritto da un tal Vanni di Zeno, e rivisto dal notaro Bernardo. Nel quale fu registrato un breve catalogo, mancante però di data cronica, dell’ Entrate e alcune partite delle Spese spettanti alla Repubblica di Pisa; catalogo che è stato pubblicato nel
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    1839 in Berlino dal Dott. G. Doenninges nella Parte I dell’opera intitolata: Acta Henrici VII imperatoris, etc. (pag. 95 e 96).
    Dal qual sommario pertanto apparirebbe che la repubblica di Pisa intorno al tempo dell’Imperatore Arrigo VII avesse le entrate seguenti.

    RENDITE ANNUE DEL DISTRETTO PISANO

    Dal regno Calaritano in Sardegna ( ritraeva ), Fiorini d’oro 70000
    Da regno di Gallura ivi, Fiorini d’oro 20000
    Dalle Condannagioni, nei detti due regni, Fiorini d’oro 10000
    Dall’Isola d’Elba, al netto di spese , Fiorini d’oro 50000
    Dai castelli di Castiglione della Pescaja e dell’Abbadia del Fango, al netto, Fiorini d’oro 12000
    Dal castello di Piombino, fra sale e diritti al netto , Fiorini d’oro 6000

    Sommano l’Entrate annue del Distretto Pisano, Fiorini d’oro 168000

    RENDITE ANNUE DELLA CITTA’ E CONTADO DI PISA

    Dalle gabelle della città e dalla dogana della porta Degazia di Pisa, comprese le gabelle del Contado, circa lire 150,000 di moneta pisana detratte le spese, corrispondenti allora a Fiorini 48400
    Dalle condannagioni de’giudici nella città e contado di Pisa, un’anno per l’altro Fiorini 30000
    Sommano l’Entrate annue della città e contado di Pisa, Fiorini 78400
    Totale dell’Entrate, Fiorini d’oro 246400

    SPESE ANNUE DEL DISTRETTO PISANO

    Nel regno Calaritano per lo stipendio di 25 uomini a cavallo fissi, a ragione di otto fiorini al mese per uno, Fiorini 2400
    Nel regno medesimo per 120 soldati a piedi per custodia de’castelli che ivi teneva fissi il Comune di Pisa collo stipendio mensuale di lire 6 monete pisane per cadauno, importavano in un anno lire 8649 pari a fiorini d’oro
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    Nel regno di Gallura per lo stipendio di 25 uomini a cavallo fissi, a otto fiorini il mese per cadauno, Fiorini d’oro 2400
    Nel regno medesimo per 50 soldati a piedi fissi per la custodia de’castelli, importavano lire 3600, pari a Fiorini d’oro 1161
    Sommano le Spese annue dell’Isola di Sardegna, Fiorini d’oro 8765

    SPESE ANNUE DELLA CITTA’ E CONTADO DI PISA
    Per l’annuo stipendio del Potestà e del Capitano del popolo lire 10000, pari a Fiorini d’oro 3225
    Per lo stipendio di 370 pedoni che il Comune teneva fissi a custodia de’castelli del suo contado, a lire tre soldi 10 il mese per ciascuno , sommano in un anno, Fiorini d’oro 17144
    Somma delle Spese annue della città e contado di Pisa, Fiorini 20369
    Totale delle Spese di un anno 29134

    Frattanto l’autore del codice avvisò che il Comune di Pisa manteneva a seconda del bisogno, ora poche, e ora molte truppe a stipendio, ma di queste partite dichiarò a chi diresse cotesto conteggio di non ne voler dare ragione alcuna.
    Similmente non volle rendere ragione perché gli Anziani di Pisa, potendo essere serviti con assai minori impiegati di quelli che tenevano, né salariassero assai più del bisogno, sed fiunt (soggiunge egli) causa dandi eis lucrum et eos ditandi .
    Ognuno peraltro a prima vista si accorge che se l’Entrate annue della Repubblica pisana, scritte da messer Vanni di Zeno, sembrano mancanti di molte partite, assai più mozza apparisce l’Escita, quante volte uno riflette alle spese vistosissime ché quel Comune doveva fare nell’armamento di 20 galere l’anno, nelle fortificazione de’porti e dei castelli, nelle spedizione e nel mantenimento di ministri all’estero, negli abbellimenti della città, nelle strade, ponti, canali, fosse, ecc. ecc.
    Forse non tutti si
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    accorgeranno che quel conteggio non può appartenere ai tempi dell’Imperatore Arrigo VII, né all’epoca in cui la Sardegna era occupata (almeno in parte) dalle armi del Comune di Pisa. Avvegnachè i pisani nel 1325 perderono quell’isola per intiero, senza più riaverla, quando cioè la moneta del fiorino d’oro non si conteggiava in alcun paese della Toscana per lire 3 e soldi 2, come fu calcolata dall’autore del conteggio qui riportato.
    Dal prospetto seguente fia facile rilevare che l’Entrata e l’Uscita del Comune di Pisa pubblicata dal Dott. G. Doenninges sembra stata scritta anziché all’epoca dell’imperatore Arrigo VII, verso la metà del secolo XIV, e poco innanzi la famosa peste del 1348, quando appunto si spendeva il fiorino d’oro per lire 1 e soldi 2.
    Dondechè, fatto il confronto con le rendite fisse del Comune di Firenze verso l’anno 1338, con quelle che furono descritte da Giovanni villani al cap. 92 del Lib. XI della sua Cronaca, risulterebbe che, mentre la repubblica fiorentina aveva un’entrata totale di fiorini d’oro 306400 l’anno, il Comune di Pisa incassava annualmente circa fiorini 246400 senza contare molte piccole rendite nel sommario predetto da messer Vanni di Zeno tralasciate.

    COMPUTI DEL FIORINO D’ORO, OSSIA GIGLIATO, IN LIRE, SOLDI E DENARI, DALL’ANNO 1295 AL 1380.

    - anno 1295
    prezzi correnti del Fiorino d’oro: il fiorino d’oro si spendeva per soldi 39 di piccioli, o lire 1.19.-
    documenti che lo confermano: ARCH. DIPL. FIOR. Carte della Badia a Ripoli del 18 aprile 1295.
    - anno 1297
    prezzi correnti del Fiorino d’oro: lo stesso fiorino d’oro valeva soldi 40, o lire 2.-.-
    documenti che lo confermano: RIFORMAG. DI FIRENZE del 13 Marzo 1296 ( stile fiorentino )
    - anno 1302
    prezzi correnti del Fiorino d’oro: il fiorino d’oro si spendeva per soldi 51, o lire 2.11.-
    documenti che lo confermano: GIO. VILLANI Cronica
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    Lib. VIII. C. 59
    - anno 1304
    prezzi correnti del Fiorino d’oro: il fiorino stesso valeva lire 2.12.-
    documenti che lo confermano: GIO. VILLANI Cronica Lib. VIII. C. 68
    - anno 1331
    prezzi correnti del Fiorino d’oro: lo stesso fiorino valeva lire 3.-.-
    documenti che lo confermano: GIO. VILLANI Cronica Lib. X. C. 196
    - anno 1345
    prezzi correnti del Fiorino d’oro: il fiorino valeva lire 3.2.- (Così lo conteggiò l’A. del MS. sull’Entrata e Uscita del Comune di Pisa qui sopra riportata).
    documenti che lo confermano: GIO. VILLANI Cronica Lib. XII. C. 26
    - anno 1352
    prezzi correnti del Fiorino d’oro: lo stesso fiorino valeva lire 3.8.-
    documenti che lo confermano: MATTEO VILLANI Cronica Lib. III. C. 52
    - anno 1355
    prezzi correnti del Fiorino d’oro: lo stesso fiorino valeva lire 3.9.-
    documenti che lo confermano: MATTEO VILLANI Cronica Lib. V. C. 2
    - anno 1372
    prezzi correnti del Fiorino d’oro: lo stesso fiorino valeva lire 3.9.6
    documenti che lo confermano: Codice dell’Arch. Arciv. Pis.
    - anno 1378
    prezzi correnti del Fiorino d’oro: il fiorino per decreto del governo, fu valutato Lire 3.8.-
    documenti che lo confermano: RIFORMAG. DI FIRENZE del luglio 1378.
    - anno 1379
    prezzi correnti del Fiorino d’oro: nel febbrajo del 1379 nella Terra di Colle il fiorino d’oro valeva lire 3.14.-
    documenti che lo confermano: ARCH. DIPL. FIOR. Carta della Com. di Colle 15 febbrajo 1378.
    - anno 1380
    prezzi correnti del Fiorino d’oro: lo stesso fu valutato lire 3.10.-
    documenti che lo confermano: AMMIR. Stor. Fior. Lib. XII .

    Senza dire degli smembramenti cui fu soggetto il territorio pisano posteriormente alla sua riunione al distretto della Repubblica fiorentina, mi ristringerò ai cangiamenti più recenti ivi accaduti;
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    il primo de’ quali nell’anno 1765 quando fu unito alla provincia inferiore sanese il territorio dalla Comunità di Castiglion della Pescaja; il secondo smembramento ed il terzo nel 1834, quando vennero riuniti al Compartimento di Grosseto i paesi e Comunità di Piombino, di Campiglia e di Suvereto; il più moderno finalmente nel 1837, quando il Compartimento di Pisa cedé a quello di Grosseto i territorj comunitativi di Monteverdi e della Sassetta.
    Potendo attualmente rettificare la superficie del Compartimento di Pisa con l’aggiunta di 4 comunità dell’Isola dell’Elba, ne comparisce un totale di quadrati 974.345, dai quali sono da detrarre quadrati 35.234 per corsi d’acque e strade; restando di territorio imponibile in tutto il Compartimento di Pisa quadrati 939.111. – Nell’anno 1833 vivevano costà 321.273 abitanti, pari a circa abitanti 274 e ½ per ogni miglio quadrato di suolo imponibile. Ma nel 1840 essendovi nella superficie medesima una popolazione di 345.246 abitanti ne risulta, che toccavano in cotesto anno repartitamente circa 295 e ½ abitanti per ogni miglio quadrato di terreno imponibile.

    PROSPETTO della Comunità del COMPARTIMENTO di PISA distribuito per Cancellerie.

    -
    Capoluogo di CANCELLERIA: 1. PISA (Cancelleria di I classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d’Arno
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 66,858
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 32,211
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 41,206
    - Capoluogo di Comunità: Bagni di S. Giuliano
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Serchio
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 25,589
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 13,631
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 14,860
    - Capoluogo di Comunità: Cascina
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d’Arno
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 21,633
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 13,969
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 15,800
    - Capoluogo di Comunità: Vecchiano
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Serchio
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 18,472
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    /> Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,989
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,438

    - Capoluogo di CANCELLERIA: 2. BAGNONE (Cancelleria di III classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 17,620
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 5,667
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 4,705
    - Capoluogo di Comunità: Albiano
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 2,986
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,051
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,123
    - Capoluogo di Comunità: Groppoli
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 2,695
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 712
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 774
    - Capoluogo di Comunità: Terra Rossa
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 5,243
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 407
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,849

    - Capoluogo di CANCELLERIA: 3. BARGA (Cancelleria di III classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Serchio
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 21,378
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 6,869
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 7,296


    - Capoluogo di CANCELLERIA: 4. FIVIZZANO (Cancelleria di III classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 64,043
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 12,682
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 13,380
    - Capoluogo di Comunità: Casola
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 12,165
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,568
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,534

    - Capoluogo di CANCELLERIA: 5. GUARDISTALLO (Cancelleria di III classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina
    Superficie
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    territoriale della Comunità in Quadrati: 6,650
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,140
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,372
    - Capoluogo di Comunità: Bibbona
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 24,987
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 814
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,196
    - Capoluogo di Comunità: Casale
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 4,131
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 817
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 884
    - Capoluogo di Comunità: Gherardesca
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 40,615
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,476
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,887
    - Capoluogo di Comunità: Montescudajo
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 5,349
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 930
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,052

    - Capoluogo di CANCELLERIA: 6. LARI (Cancelleria di I classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Valli d’Era e Tora
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 23,155
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 7,484
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 8,529
    - Capoluogo di Comunità: Chianni
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d’Era
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 17,695
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,996
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,376
    - Capoluogo di Comunità: Colle Salvetti
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Tora
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 35,303
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 5,510
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 6,072
    - Capoluogo di Comunità: Fauglia
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Tora
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 19,373
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 5,029
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,461
    -
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    Capoluogo di Comunità: Lorenzana
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Tora
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 5,433
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,284
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,414

    - Capoluogo di CANCELLERIA: 7. LIVORNO (Cancelleria di I classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Tora
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 27,008
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 75,273
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 79,752

    - Capoluogo di CANCELLERIA: 8. PECCIOLI (Cancelleria di II classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d’Era
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 26,240
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,973
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,496
    - Capoluogo di Comunità: Lajatico
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d’Era
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 16,252
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,526
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,619
    - Capoluogo di Comunità: Terricciola
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d’Era
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 12,208
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,815
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 3,315

    -
    Capoluogo di CANCELLERIA: 9. POMARANCE (Cancelleria di III classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 70,973
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,803
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,551
    - Capoluogo di Comunità: Castelnuovo di Val di Cecina
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 18,085
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,304
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,471

    - Capoluogo di CANCELLERIA: 10. PIETRASANTA (Cancelleria di I classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Versilia
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 13,957
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 7,772
    Popolazione anno
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    1840, abitanti n° 8,539
    - Capoluogo di Comunità: Seravezza
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Versilia
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 11,310
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 6,076
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 6,578
    - Capoluogo di Comunità: Stazzema
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Versilia
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 21,853
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 6,240
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,885

    - Capoluogo di CANCELLERIA: 11. PONTEDERA (Cancelleria di II classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d’Era
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 10,291
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 7,843
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 8,032
    - Capoluogo di Comunità: Capannoli
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d’Era
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 6,256
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,110
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,498
    - Capoluogo di Comunità: Palaja
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d’Era
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 25,810
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 8,782
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 9,278
    - Capoluogo di Comunità: Ponsacco
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d’Era
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 5,614
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,640
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,899

    - Capoluogo di CANCELLERIA: 12. PONTREMOLI (Cancelleria di II classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 39,649
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 9,230
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 10,182
    - Capoluogo di Comunità: Calice
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 12,209
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,732
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 3,018
    - Capoluogo di Comunità: Caprio
    Valle in cui si trova il Capoluogo:
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    Val di Magra
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 5,235
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,163
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,307
    - Capoluogo di Comunità: Filattiera
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 3,949
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 744
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 853
    - Capoluogo di Comunità: Zeri
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 32,682
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,068
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 4,648

    - Capoluogo di CANCELLERIA: 13. PORTOFERRAJO (Cancelleria di II classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Isola dell’Elba
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 9,800
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,008
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 4,235
    - Capoluogo di Comunità: Porto Longone
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Isola dell’Elba
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 12,200
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,957
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,858
    - Capoluogo di Comunità: Marciana senza l’Isola di Pianosa
    Valle in cui si trova il Capoluogo: per la sola Isola dell’Elba
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 29,800
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 5,900
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 6,553
    - Capoluogo di Comunità: Rio
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Isola dell’Elba
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 10,400
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 3,557
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 3,802

    - Capoluogo di CANCELLERIA: 14. ROSIGNANO (Cancelleria di II classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Fine
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 30,871
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 3,928
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 4,401
    - Capoluogo di Comunità: Castellina Marittima
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Fine
    Superficie territoriale della Comunità
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    in Quadrati: 13,102
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,284
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,324
    - Capoluogo di Comunità: S. Luce
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Fine
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 19,344
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,936
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,016
    - Capoluogo di Comunità: Orciano
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Fine
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 3,454
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 717
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 787
    - Capoluogo di Comunità: Ripalbella
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 23,160
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,112
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,630

    - Capoluogo di CANCELLERIA: 15. VICO PISANO (Cancelleria di II classe)
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d’Arno
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 15,595
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 9,600
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 10,177
    - Capoluogo di Comunità: Bientina
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d’Arno
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 8,527
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,209
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,337
    - Capoluogo di Comunità: Calcinaja
    Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d’Arno
    Superficie territoriale della Comunità in Quadrati: 4,139
    Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,735
    Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,997

    - TOTALE superficie territoriale delle Comunità: Quadrati 974,345
    Per Corsi d’acque e Strade non imponibili: Quadrati 35,234
    Restano al netto: Quadrati 939,111
    In conseguenza per ogni miglio quadrato di suolo imponibile, ripartitamente diviso, toccavano nel 1833 circa 274 e 3/4 abitanti, e nel 1841 abitanti 295

    - TOTALE popolazione anno 1833: abitanti n° 321,273
    - TOTALE popolazione anno 1840, abitanti n° 345,246

    STRADE REGIE TRACCIATE NEL
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    COMPARTIEMNTO DI PISA

    1. Strada Livornese per Pisa , che da Firenze guida a Livorno. – Entra nel Compartimento di Pisa al ponte della Cecinella o Chiecinella (Comune di Palaja) e di là per Pontedera, Cascina, Pisa fino a Livorno.
    2. Strada traversa Livornese. – Staccasi dalla regia suddetta alla casa Carmignana (Comune di Cecina) e per Macerata passa sull’argine del fosso Reale per ponte di collina e Vicarello, Colle Salvetti, la Torretta, Marmigliajo il ponte del Malandrone e quello del fitto di Cecina e di là sino alla torre di S. Vincenzo, dove entra e prosegue per il Compartimento di Grosseto lasciando in questa città il nome di Strada Emilia per quello di Strada Aurelia, sotto il qual vocabolo attraversa tutto il restante del littorale toscano.
    3. Strada da Pisa a Lucca. Guida da Pisa a Lucca passando per i Bagni di S. Giuliano a Ripafratta, donde poi entra nel Ducato di Lucca.
    4. Strada Sarzanese . – È quel tronco di Strada postale che entra nel territorio Pietrasantino al ponte di Capezzano, passa per pietrasanta sino alla Torre di porta, dove prosegue per altri Stati e Sarzana e di là a Genova.
    5. Strada traversa di Val di Nievole. – Staccasi dalla Strada regia Livornese fuori di Pontedera per il ponte nuovo del Gusciano, passa l’Arno e di là per la Collina di S. Colomba rasenta la gronda australe del Lago di Bientina, di là dal quale prosegue nel Compartimento fiorentino per il Galleno e il ponte della Sibolla fino al Borgo a Buggiano dove si unisce alla strada regia Lucchese.
    6. Strada suburbana di Pisa. – Dalla porta fiorentina lungo le mura suburbane di oltr’Arno fino alla Strada regia Livornese
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    che trova fuori di porta a Mare al ponte delle Bugie .
    7. Strada suburbana di Livorno. – Dalla Barriera fiorentina a levante, e lungo la nuova cinta di Livorno alla Barriera Maremmana.
    8. Strada militare di Fivizzano. – Dal confine dell’ex feudo di Fosdinovo a quello del ducato di Reggio sull’Appennino di Camporaghena passando per Ceserano e Fivizzano.

    STRADE PROVINCIALI TRACCIATE NEL COMPARTIMENTO DI PISA

    1. Strada Massetana, detta del Cerro Bacato. – Parte da Volterra per Massa, ma non entra nel Compartimento di Pisa che al ponte sospeso sulla Cecina nella Comunità delle Pomarance, lungo i Lagoni di Monte Cerboli e per Castelnuovo di val di Cecina sino al confine della Comunità di Massa.
    2. Strada di val di Cecina, da Volterra a Vada. – Entra nel Compartimento di Pisa al confine territoriale di Montecatini con Riparbella e di là a Vada.
    3. Strada traversa della Camminata. Staccasi dalla Via suddetta al ponte Ginori nella Cecina e per Val di Sterza sale il poggio per arrivare a Bibbona donde scende nella Strada Emilia.
    4. Strada di Val d’Era. – Entra nel Compartimento di Pisa nel confine della Comunità di Montecatini della Val di Cecina con quella di Lojatico passando sul nuovo ponte della Sterza e di là sotto Terricciola e Capannoli attraversa Ponsacco sino a Pontedera.
    5. Strada del Littorale. – Staccasi a Livorno dalla Barriera Maremmana passando rasente il lido del Mare sotto Montenero e di là per Calafuria, il Romito e Castiglioncello arriva a Vada.
    6. Strada traversa Livornese. – Da Ponsacco alla strada Regia Emilia presso Vicarello passando per Cenaja.
    7. Strada Francesca del Val d’Arno di sotto. – Spetta al
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    Compartimento di Pisa l’ultimo tronco che comincia in luogo detto la Fratta passando dalla scogliera del Bufalo recentemente tagliata infino al ponte nuovo a Bocca d’Usciano.
    8. Strada Vicarese, o di Piemonte. – Staccasi dalla Regia traversa di Val di Nievole a S. Colomba e di là dirigesi per Calcinaja, S. Giovanni alla Vena, Cucifino alla Porta alle Piagge di Pisa.
    9. Strada del Tiglio. – staccasi dalla Via Regia traversa di Val di Nievole presso il nuovo ponte sull’Arno a Bocca d’Usciana fino al confine lucchese presso la dogana del tiglio passando per Bientina.
    10. Strada di Val di Magra. – Staccasi dalla Via militare a Ceserano e di là per l’Aulla, Terra rossa, Filattiera e Pontremoli sale l’appennino della Cisa per unirsi alla provinciale del ducato di Parma.

    PISA CITTÀ. Al § paragrafo Pisa sotto il dominio de’ Goti e de’ Longobardi . Si aggiunga ciò che saviamente avvertiva il Marchese Gino Capponi in una sua lettera sui Longobardi in Italia, dove si legge: «la città di Pisa durante il dominio de’Longobardi era loro suddita o piuttosto confederata? Certo è che lo stato de’ Longobardi non ebbe al tempo del re Rotari altre marine fuori di quelle di Aquileja nel mare Adriatico, e di Pisa nel Mediterraneo ».
    Indi al suo luogo si rammenti un istrumento del 6 aprile dell’anno 1223 scritto presso il castel di Panico nel Bolognese, dal quale si scuopre che un Ranieri conte di Panico era fratello del conte Ugolino stato potestà di Modena. –  ( Archivio del Capitolo del Duomo di Pisa ). Anche fra le carte del Vescovado di Pistoja pervenute nell’ Arch. Dipl. Fior. trovasi quella del giuramento di fedeltà prestato a Graziadio, stato eletto in vescovo di Pistoja, da Ranieri conte di Panico per
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    se e per Ugolino suo fratello a motivo del feudo che i conti di Panico tenevano da quei prelati.
    Al §. Cerchi diversi della città di Pisa , si aggiunga anche un istrumento dell’ Archivio Arcivescovile di Lucca del.5 febbrajo anno portante la data di Pisa in Porta S. Felicis in claustro Hospitalis S. Laurentii de Rivolta.
    Coerente a ciò è una membrana del Monastero di S. Michele in Borgo di Pisa scritta nel claustro dello spedale di S. Michele in Borgo li 5 maggio del 1173 ( stile pisano ) il quale spedale si dichiara posto nella Porta di S. Felice presso la chiesa di S. Lorenzo alla Rivolta n Pisa. –  ( Arch. Dipl. Fior. Carte del Monastero citato ).
    Ed è, io credo, quella Porta S. Felice , della quale faceva menzione un istrumento dell’ Archivio Arcivescovile di Pisa del 31 dicembre 1091,quando l’arcivescovo Daimberto permutava alcuni beni della sua mensa vescovile con quelli della chiesa de’ SS. Regolo e Felice posta nella città di Pisa prope posterulam que dicitur de Vicedomino . –  MATTHAEI, Histor. Eccl. Pisan . T. I. pag. 181 .)
    In quanto spetta all’epoca del secondo assedio fatto dai Fiorentini a Pisa (dal 1498 al 1506) può dare un’idea dello stato di quella città dopo l’assedio l’informe prospetto della popolazione del suo contado fornitoci da Luigi Guicciardini, tale però da non potere confrontare con la popolazione del 1515 quella del 1491 che ivi si riporta per gli abitanti del contado pisano perché incompleta e sopra l’età di 18 anni. Alla quale ultima statistica potrebbe forse servire di qualche confronto quella fatta prendere nello stesso contado nell’anno 1551 dal Duca Cosimo de’Medici, che qui sotto si aggiunge.
    Dal codice pertanto 1422 della classe Vili della biblioteca Magliabechiana, dove esiste quel MS., ho stimato pregio dell’opera rendere di pubblico diritto le seguenti
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    poche cose dal fratello dello storico Francesco Guicciardini ivi notate.
    «II contado di Pisa (sono parole del citato scrittore), dal 1492 al 1515 ha alienato tanti beni ai non sopportanti (cioè aggravj pubblici) et nel tempo stesso è talmente diminuito in teste paganti , che la somma dell’estimo è ridotta (anno 1515) a fiorini 480 di 839,4 fiorini che era nei 1492».
    «Aggiungasi a ciò, che nel 1492 questo paese era più pieno di abitatori ed erano tutti paganti , ora ve n’è minor numero assai, e tra questi si trovano 211 exempti ».
    A questi 211 exempti per altro (dice più sotto l’A.) toccava di extimo fiorini 160. «Inoltre si trova che Pisa in conseguenza di questa guerra ha fatto debito assai con la città di Firenze, ed ora deve pagare le spese che corrono anno per anno: et oltre a ciò deve scontare i debiti vecchi; in modo cbe per tutte queste cose dove avanti al 1494 pagavano per cento fiorini 2.10, in circa al presente toccano fiorini 8 al cento, o più».
    «Assai cittadini fiorentini, ed altri non sopportanti , sona entrati in questo paese, et in breve se non si ripara se lo mangeranno tutto ».
    «Tutti gli exempti , cioè i non sopportanti , pei capitoli fatti quando Pisa si riebbe, si trovano nel vicariato di Vico (Pisano), et la maggior parte sono sotto le potesterie di Librafatta , ora de’ Bagni a S. Giuliano , et di Casina ».
    «Sono meno un terzo le teste al presente anno 1515 che avanti il 1494, et per questo meritano meno exstimo , perché nel 1491 erano le teste (forse qui parla della città di Pisa) senza gli exempti N.° 13318, et al presente sono 7500».
    «Valevano
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    i beni del contado di Pisa nel 1487 scudi 99196 (da lire 7 lo scudo?) et di questa somma troviamo al presente esserne alienati per la valuta di oltre scudi 12000 ai religiosi e cittadini fiorentini et altri non sopportanti .
    «Trovansi meno assai forestieri al presente (1515) che nel 1494, et tutto il contado guasto per la guerra, rovinate le cese, guasti i poderi, allagato il paese vicino a Pisa e fatti molti debiti nella guerra».
    Inoltre fra le osservazioni che l’A. fece sulle spese e sulle correzioni da essolui proposte, ho creduto limitarmi alle poche riguardanti il sistema economico-amministrativo ed idraulico di questa contrada, come appresso: «Il Ponte a Stagno è giudicato sia meglio farlo morato che di legname, (come era allora) e la spesa è calcolata di circa scudi 650».
    «La foce dell’Arno è necessario fare; spenderassi almeno scudi 3000».
    «I fossi di Cittadella nuova sono molto necessari’, e senza quelli ciò che si è fatto non vale niente; saranno di spesa circa scudi 4000».
    Quindi l’A. escendo fuori del contado pisano entra in Livorno per dire, «che sarebbe bene che il molo, il porto, et le altre cose bisognano a Livorno, si facessino».
    «In Livorno si tiene un provveditore sopra la munizione et simili cose con un fante, cui si pagano scudi quaranta al mese; potrebbesi far senza questa spesa, et così si faceva avanti il 1494».
    Segue la Nota riguardante i Capi di Casa ed il numero delle Bocche del contado di Pisa sopra gli anni 18, presa nel 1491 da Francesco Cambini di Firenze nei luoghi qui sotto segnati.

    SUBBORGHI DI PISA

    Nome dei Comuni, Capi di Casa e Bocche

    1. nome del Comune: S. Michele degli Scalzi, Comune
    capi di casa: n° 30
    bocche: n° 83
    2. nome del Comune: S. Apollinare
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    a Barbaricina , Comune
    capi di casa: n° 36
    bocche: n° 106
    3. nome del Comune: S. Giusto in Canniccio , Comune
    capi di casa: n° 40
    bocche: n° 136
    4. nome del Comune: S. Giovannni al Gatano , Comune
    capi di casa: n° 43
    bocche: n° 132
    5. nome del Comune: S. Biagio a Cisanello , Comune
    capi di casa: n° 22
    bocche: n° 58
    6. nome del Comune: S. Giusto a Cisanello , Comune
    capi di casa: n° 11
    bocche: n° 43
    7. nome del Comune: S. Jacopo a Orticaja, Comune
    capi di casa: n° 27
    bocche: n° 92
    8. nome del Comune: S. Marco alle Cappelle, Comune
    capi di casa: n° 60
    bocche: n° 203
    9. nome del Comune: S. Marco di Calcesana, Comune ( soppressa ),
    capi di casa: n° 12
    bocche: n° 24
    10. nome del Comune: Cappella di Vetole, Comune ( soppressa ),
    capi di casa: n° 25
    bocche: n° 80
    TOTALE capi di casa: n° 306
    TOTALE bocche n° 957

    I. VICARIATO DI VICO PISANO

    1. POTESTERIA DI VICO PISANO. Comuni 5.

    1. nome del Comune: VICO PISANO, Comune
    capi di casa: n° 70
    bocche: n° 290
    2. nome del Comune: Buti, Comune
    capi di casa: n° 88
    bocche: n° 370
    3. nome del Comune: S. Giovanni alla Vena, Comune
    capi di casa: n° 79
    bocche: n° 320
    4. nome del Comune: Calci, Comune
    capi di casa: n° 70
    bocche: n° 350
    5. nome del
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    Comune: Monte Magno, Comune
    capi di casa: n° 50
    bocche: n° 230
    TOTALE capi di casa: n° 357
    TOTALE bocche: n° 1560

    II. POTESTERIA DI LIBRAFATTA. Comuni 23.

    1. nome del Comune: Ripoli, Comune
    capi di casa: n° 22
    bocche: n° 48
    2. nome del Comune: Limile, Comune
    capi di casa: n° 13
    bocche: n° 34
    3. nome del Comune: Gello di Val d’Oseri, Comune
    capi di casa: n° 18
    bocche: n° 49
    4. nome del Comune: Vecchializia, Comune
    capi di casa: n° 21
    bocche: n° 60
    5. nome del Comune: Covinaja, Comune ( soppressa )        
    capi di casa: n° 13
    bocche: n° 39
    6. nome del Comune: Pappiana, Comune
    capi di casa: n° 32
    bocche: n° 100
    7. nome del Comune: Avane, Comune
    capi di casa: n° 30
    bocche: n° 122
    8. nome del Comune: Patrignone, Comune ( soppressa )
    capi di casa: n° 11
    bocche: n° 39
    9. nome del Comune: Bottano, Comune ( soppressa )          
    capi di casa: n° 28
    bocche: n° 82
    10. nome del Comune: Ponte a Serchio, Comune
    capi di casa: n° 19
    bocche: n° 50
    11. nome del Comune: Orsignano, Comune
    capi di casa: n° 21
    bocche: n° 65
    12. nome del Comune: Pescatola, Comune
    capi di casa: n° 17
    bocche: n° 53
    13. nome del Comune: Lugnano e Quosa, Comune
    capi di casa: n° 42
    bocche: n° 136
    14. nome del Comune: Cafaggioreggio, Comune ( soppressa )
    capi di casa: n° 9       
    bocche: n° 25
    15. nome del Comune: Vecchiano (S.
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    Alessandro) , Comune
    capi di casa: n° 49
    bocche: n° 143
    17. nome del Comune: Ghezzano (S.Giovanni a), Comune
    capi di casa: n° 20
    bocche: n° 75
    18. nome del Comune: Avena, Comune
    capi di casa: n° 27
    bocche: n° 93
    19. nome del Comune: Vecchiano (S. Frediano), Comune
    capi di casa: n° 23
    bocche: n° 79
    20. nome del Comune: Nodica, Comune
    capi di casa: n° 50
    bocche: n° 259
    21. nome del Comune: Cornazzano, Comune
    capi di casa: n° 10
    bocche: n° 43
    22. nome del Comune: LIBRAFATTA
    capi di casa: n° 100
    bocche: n° 350
    23. nome del Comune: Ulmiano
    capi di casa: n° 25
    bocche: n° 100
    TOTALE capi di casa n° 600
    TOTALE bocche n° 2044

    III. POTESTERIA DI CASCINA. Comuni 18.

    1. nome del Comune: Putignano, Comune
    capi di casa: n° 21
    bocche: n° 83
    2. nome del Comune: CASCINA Comune
    capi di casa: n° 136
    bocche: n° 470
    3. nome del Comune: S. Sisto al Pino, Comune
    capi di casa: n° 18
    bocche: n° 70
    4. nome del Comune: S. Lorenzo alle Corti, Comune           
    capi di casa: n° 24
    bocche: n° 96
    5. nome del Comune: Navacchio, Comune
    capi di casa: n° 12
    bocche: n° 39
    6. nome del Comune: S. Casciano a Settimo, Comune
    capi di casa: n° 14
    bocche: n° 43
    7. nome del Comune: Lujano, Comune
    capi di casa: n° 11
    bocche: n° 33
    8. nome del Comune: Marciana minore, Comune, riunito al seguente
    capi di casa: n° 29
    bocche: n° 100
    9. nome del Comune: Marciana maggiore, Comune
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    capi di casa: n° 30
    bocche: n° 120
    10. nome del Comune: Ripoli, Comune
    capi di casa: n° 9
    bocche: n° 27
    11. nome del Comune: Titignano, Comune
    capi di casa: n° 25
    bocche: n° 100
    12. nome del Comune: Casciavola, Comune
    capi di casa: n° 27
    bocche: n° 104
    13. nome del Comune: S. Ermete a S. Rimedio, Comune
    capi di casa: n° 9
    bocche: n° 34
    14. nome del Comune: Oratojo, Comune
    capi di casa: n° 19
    bocche: n° 60
    15. nome del Comune: Zambra, Comune
    capi di casa: n° 15
    bocche: n° 60
    16. nome del Comune: Musigliano, Comune
    capi di casa: n° 18
    bocche: n° 70
    17. nome del Comune: Visignano, Comune
    capi di casa: n° 22
    bocche: n° 93
    18. nome del Comune: S. Benedetto a Settimo, Comune
    capi di casa: n° 17
    bocche: n° 70
    TOTALE capi di casa n° 456
    TOTALE bocche n° 1672

    IV. COMUNE DI PONTEDERA. Comune 1.

    1. nome del Comune: PONTEDERA
    capi di casa: n° 101
    bocche: n° 450

    II. VICARIATO DI LARI

    1. POTESTERIA DI LARI. Comuni 23.

    1. nome del Comune: LARI, Comune
    capi di casa: n° 156
    bocche: n° 536
    2. nome del Comune: Castell’Anselmo, Comune
    capi di casa: n° 30
    bocche: n° 100
    3. nome del Comune: Parrana, Comune
    capi di casa: n° 33
    bocche: n° 119
    4. nome del Comune: Ceuli, Comune
    capi di casa: n° 73
    bocche: n° 300
    5. nome del Comune: Casciana, Comune
    capi di casa: n° 116
    bocche: n° 420
    6. nome del
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    Comune: Parlascio, Comune
    capi di casa: n° 33
    bocche: n° 109
    7. nome del Comune: Crespina, Comune
    capi di casa: n° 50
    bocche: n° 200
    8. nome del Comune: Perignano, Comune
    capi di casa: n° 33
    bocche: n° 111
    9. nome del Comune: Fauglia, Comune
    capi di casa: n° 40
    bocche: n° 160
    10. nome del Comune: Lorenzana, Comune
    capi di casa: n° 33
    bocche: n° 104
    11. nome del Comune: Usiglian di Lari, Comune
    capi di casa: n° 40
    bocche: n° 190
    12. nome del Comune: S.Ruffino, Comune
    capi di casa: n° 25
    bocche: n° 102
    13. nome del Comune: Postignano, Comune            
    capi di casa: n° 22
    bocche: n° 110
    14. nome del Comune: S. Ermo, Comune
    capi di casa: n° 18
    bocche: n° 64
    15. nome del Comune: Lavajano, Comune
    capi di casa: n° 14
    bocche: n° 56
    16. nome del Comune: S. Regolo, Comune
    capi di casa: n° 15
    bocche: n° 60
    17. nome del Comune: Montalto, Comune ( sop presso )
    capi di casa: n° 5
    bocche: n° 20
    18. nome del Comune: Vicchio di  Fauglia, Comune ( soppresso )
    capi di casa: n° 5
    bocche: n° 22
    19. nome del Comune: Tremole to, Comune
    capi di casa: n° 9
    bocche: n° 36
    20. nome del Comune: Gabbro, Comune
    capi di casa: n° 15
    bocche: n° 69
    21. nome del Comune: Orciano, Comune
    capi di casa: n° 14
    bocche: n° 56
    22. nome del Comune: Colle Montanino, Comune
    capi di casa: n° 20
    bocche: n° 80
    23. nome del Comune: Rosignano, Comune
  •    pag. 248 di 257

    capi di casa: n° 80
    bocche: n° 360
    TOTALE capi di casa: n° 879
    TOTALE bocche: n° 3384

    II. POTESTERIA DI PALAJA, Comuni 5

    1. nome del Comune: PALAJA, Comune
    capi di casa: n° 140
    bocche: n° 560
    2. nome del Comune: Treggiaja, Comune
    capi di casa: n° 36
    bocche: n° 150
    3. nome del Comune: Collegalli, Comune
    capi di casa: n° 10
    bocche: n° 40
    4. nome del Comune: Santo Pietro, Comune
    capi di casa: n° 60
    bocche: n° 250
    5. nome del Comune: Villa Saletta, Comune
    capi di casa: n° 20
    bocche: n° 90
    TOTALE capi di casa: n° 266
    TOTALE bocche: n° 1090

    III. POTESTERIA DI PECCIOLI, Comuni 5

    1. nome del Comune: PECCIOLI , Comune
    capi di casa: n° 69
    bocche: n° 298
    2. nome del Comune: Forcole, Comune
    capi di casa: n° 43
    bocche: n° 200
    3. nome del Comune: Bagno a Acqua, Comune
    capi di casa: n° 27
    bocche: n° 109
    4. nome del Comune: Chianni, e Rivalto, Comune
    capi di casa: n° 56
    bocche: n° 250
    5. nome del Comune: Terricciola, Comune
    capi di casa: n° 50
    bocche: n° 230
    TOTALE capi di casa: n° 245
    TOTALE bocche: n° 1087

    CAPITANATO DI CAMPIGLIA con i sette Comuni che comprendeva nel 1491, cioè CAMPIGLIA, di Gherardesca, di Bolgheri, di Castagneto, di Castiglioncello, di Montescudajo e di Guardistallo. Vi mancano però
  •    pag. 249 di 257
    le Comunità di
    Bibbona e di Casale, sen za notare quelle ch’erano alla destra del fiume Cecina. Il detto Capitanato contava allora
    capi di casa  n° 350
    bocche n° 1400

    RECAPITOLAZIONE

    SUBBORGHI DI PISA
    capi di casa  n° 306
    bocche n° 957

    I. VICARIATO DI VICO PISANO
    I. Potesteria di   Vico Pi sano
    capi di casa  n° 357
    bocche n° 1560
    Potesteria detta di Librafatta
    capi di casa  n° 600
    bocche n° 2044
    III. Potesteria detta di Cascina
    capi di casa  n° 456
    bocche n° 1672
    Potesteria detta di Pontedera
    capi di casa  n° 101
    bocche n° 450

    II. VICARIATO DI LARI
    I. Potesteria di Lari
    capi di casa  n° 879
    bocche n° 3384
    Potesteria detta di Palaja
    capi di casa  n° 266
    bocche n° 1090
    III. Potesteria detta di Peccioli
    capi di casa  n° 245
    bocche n° 1087
    CAPITANATO DI CAMPIGLIA
    capi di casa  n° 350
    bocche n° 1400

    TOTALE capi di casa  n° 3560
    TOTALE bocche n° 13644

    N.B. La statistica sommaria del 1515 indicata da Luigi Guicciardini nel Codice di sopra citato, è la seguente:
    Nel 1515, cioè al presente (scrive l’Autore) nella Potesteria di LIBRAFATTA fra esenti e paganti da 18 anni in su erano  Bocche N°  750
    Nella Potesteria di CASCINA ( igno ravasi ) Bocche N°  -
    Nella Potesteria di VICO PISANO ( igno ravasi ) Bocche N°  -
    Nella Potesteria di PONTEDERA ( igno ravasi il numero de fuochi ) , Bocche N°   1001
    Nei Sobborghi di PISA ( igno ravasi ) Bocche N°  -
    Nel
  •    pag. 250 di 257
    Vicarialo di LARI comprese le sue tre potesterie Bocche N°  2458
    Nel Capitanato di Canapiglia in tutti i sette Comuni Bocche N°  1200
    Cosicché in tanto vuoto di numeri e di paesi lasciati nella statistica del 1515 non vi è da fare alcun confronto fra questa e l'altra dell'anno 1491.
    Gioverà meglio allo scopo l’aggiungere qui la numerazione per Capi di Casa e per Bocche fatta redigere dal Duca Cosimo I all'anno 1551, procurando d'imitare per quanto è possibile le popolazioni e potesterie indicate da France sco Cambini nel Codice prenominato.

    STATISTICA NUMERICA DEL CONTADO DI PISA NEI VICARIATI DI VICO PISANO E DI LARI, NEI SUBBORGHI DI PISA E NEL CAPITANATO DI CAMPIGLIA ALL’ANNO 1551.

    I. SUBBORGHI DI PISA
    capi di casa n° 233
    bocche n° 1379

    I. VICARIATO DI VICO PISANO

    I. Potesteria di  Vico Pisano
    capi di casa n°   1075
    bocche n° 5078
    Potesteria detta di Pontedera
    capi di casa n°   407
    bocche n° 2127
    Potesteria delta di Ripa fratta
    capi di casa n°   796
    bocche n° 4109
    IV Potesteria delta di Cascina
    capi di casa n° 717
    bocche n° 3948

    II. VICARIATO DI LARI

    I. Potesteria di Lari
    capi di casa n° 955
    bocche n° 4861
    II. Potesteria della di Palaja
    capi di casa n° 1013
    bocche n° 4732
    Potesteria detta di Peccioli
    1301
    bocche n° 6881
    CAPITANATO DI CAMPIGLIA
    capi di casa n° 774
    bocche n° 3225

    TOTALE capi di casa n° 7271
    TOTALE bocche n° 36640

    COMPUTI DEL FIORINO D’ORO IN LIRA, SOLDI E DENARI DALL’ANNO 1270 AL 1451. – 
  •    pag. 251 di 257
    ( Vedere Vol. IV. pag  95. )

    È noto a tutti che il fiorino d'oro, nel 1252, quando fu cominciato a coniarsi in Firenze, valeva soldi 20, mentre nel 1270 era già salito in Siena a soldi 36 e denari quattro (MALAVOLTI, Istoria Sanese P. II  pag. 40), ed in Firenze per asserzione di Giovanni Villani, o di Ricordano Malespini, lo stesso fiorino d'oro valutavasi a ragione di soldi 38. – (RICORD. MALESPINI, Istor. Fior. Cap. 282.).
    Nel 1291 il fiorino medesimo valeva in Pisa soldi 38 e denari 4. – (ARCH. DIPL. FIOR. Carte di S. Martino di Pisa ) .
    In quanto alla valuta ognora progressiva del fiorino d'oro dal 1296 inclusive al 1534 veggasi la Tavola IV in fine al Vol. I dell'OPERA DELLA DECIMA del Pag nini, cui si può aggiungere la notizia dataci da un istrumento  inedito del 4 giugno 1305 che valutavasi in Firenze alla gabella de' contratti il fiorino d'oro lire due e soldi 12 e quasi la stessa valuta aveva in Siena. – (ARCH. DIPL. FIOR. Carte dell’Arch. Gen. e della Comunità di Montepulciano ) .
    Nel 1331 però in un istrumento del 4 agosto della Badia a Settimo nell’Arch. Dipl. Fior, il fiorino d'oro era computato a ragione di Lire 3 e soldi 2. – Nel 17marzo 1434 in un istrumento esistente nello stesso archivio Dipl. fra le carte del Sacro Cingolo di Prato, fu stabilito il prezzo di un pergamo dato a farsi a mastro Donato di Niccolò scultore di Firenze ( Donatello ) per ciascuna storia a fiorini 25 d'oro da lire 4 l'uno. – E lo stesso prezzo di lire 4 era computato il fiorino d'oro in Siena negli anni 1441 e 1451. – (ARCH. STESSO, Carte del Monastero  Degli Angeli di Siena. ) Lo stesso fiorino nel 1477
  •    pag. 252 di 257
    valutavasi in Pisa le medesime lire 4 l'uno. – (ARCH. DIPL. FIOR. dell’ Arch. Gen. del 24 maggio 1477).

    PISA COMUNITA’. – Dopo aver menzionato il livello  del  suolo di Pisa al portico interrato di S. Felice, arroge aggiungere un atto del 18 maggio 1244, rogato in Pisa nel portico della chiesa di S. Felice, ora nell’Arch. Dipl. Fior. fra le Carte del Monastero  di S. Lorenzo alla Rivolta. Rispetto poi al rinterrarmento continuo dell' Arno verso la sua foce in mare, ricorderò fra le molte una provvisione della Signoria di Firenze del 18 giugno 1463 che rammenta essere stati assegnati fino dal 31 marzo antecedente 800 fiorini di oro per pulire lo sbocco dell' Arno in mare, talché le galere non potevano più passare, per cui colla provvisione del 18 giugno suddetto si assegnarono altri denari per continuare l'opera incominciata. – (GAYE Corteggio ecc. Vol. 1 Ap pend. seconda ) . Vedere poco sopra .

    Rispetto al Compartimento di Pisa veggasi ciò che si dirà all'Articolo VIE FERRATE, REGIE e PROVINCIALI, od a quello di TOSCANA GRANDUCALE.

    La popolazione della COMUNITA’ DI PISA all'anno 1833 fu di 37227 abitanti, mentre essa nel 1845 era salita a 43810 individui come appresso:

    1493
    Calci, S. Andrea,  Abitanti N° 368
    Calci, S. Bartolommeo,  Abitanti N° 222
    Calci, S.Giovanni (Pieve),  Abitanti N° 2000
    Calci, S. Michele,  Abitanti N° 1268
    Calci, S. Salvatore,  Abitanti N° 352
    Canniccio,  Abitanti N° 906
    Cisanello,  Abitanti N° 443
    S. Ermete,  Abitanti N° 728
    Galano (S. Giovanni al),  Abitanti N° 2432
    Grado (S. Pietro in),  Abitanti N° 920
    Oratojo,  Abitanti N°  881
    PISA (città) S. Caterina,  Abitanti N° 1048
    , S. Cecilia2175
    , SS. Cosimo e Damiano,  Abitanti N° 1050
    , S. Cristina,  Abitanti
  •    pag. 253 di 257
    626
    , SS. Fred iano e Clemente,  Abitanti N° 2260
    , SS. I ppolito e Cassiano,  Abitanti N° 838
    , S. Marco alle Cappelle,  Abitanti N° 3717
    PISA, S. Maria Maddalena,  Abitanti N° 828
    , S. Marta1470
    , S. Martino in Kinsica,  Abitanti N° 1973
    , S. Matteo1005
    PISA, S. Michele in Borgo,  Abitanti N° 987
    PISA, S. Michele degli Scalzi,  Abitanti N° 1847
    , S. Niccola1306
    PISA, S. Pietro in Ischia,  Abitanti N° 321
    , S. Pietro in Vinculis,  Abitanti N° 1562
    , PRIMAZIALE ,  Abitanti N° 1566
    PISA, S. Sebastiano  nel Carmine865
    , S. Sepolcro,  Abitanti N° 106
    PISA, S. Sisto,  Abitanti N° 1075
    , Spedale di Pisa,  Abitanti N°  211
    , S. Stefano, extramoe niaAbitanti N° 737
    Pulignano,  Abitanti N° 1658
    Riglione ( porzione ),  Abitanti N°   970

    Annessi

    Caprona, dalla Comunità di Vi co PisanoAbitanti N° 78
    Ghezzano, dalla Comunità di S. GiulianoAbitanti N°   77
    Madonna dell'Acqua, dalla Comunità di S. Giuliano , Abitanti N°   170
    Nicosia, dalla Comunità di Vico PisanoAbitanti N° 344

    TOTALE   Abitanti N° 43844

    POPOLAZIONE  e MOVIMENTO degli Abitanti della COMUNITA’ DI  PISA  dall’anno 1841 sino a tutto aprile del 1845.

    -ANNO 1841
    POPOLAZIONE: n° 40,477
    NUMERO DEI NATI: maschi n° 733; femmine n° 749; totale n° 1482
    NUMERO DEI MORTI: maschi n° 588; femmine n° 597; totale n° 1185
    NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 305
    NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 86
    CENTENARJ: n° -
    -ANNO 1842
    POPOLAZIONE: n° 41,675
    NUMERO DEI NATI:
  •    pag. 254 di 257
    maschi n° 774; femmine n° 767; totale n° 1541
    NUMERO DEI MORTI: maschi n° 644; femmine n° 554; totale n° 1198
    NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 340
    NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 81
    CENTENARJ: n° -
    -ANNO 1843
    POPOLAZIONE: n° 42,512
    NUMERO DEI NATI: maschi n° 775; femmine n° 782; totale n° 1557
    NUMERO DEI MORTI: maschi n° 624; femmine n° 571; totale n° 1195
    NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 369
    NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 109
    CENTENARJ: n° -
    -ANNO 1844
    POPOLAZIONE: n° 43,121
    NUMERO DEI NATI: maschi n° 837; femmine n° 759; totale n° 1596
    NUMERO DEI MORTI: maschi n° 600; femmine n° 593; totale n° 1193
    NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 331
    NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 92
    CENTENARJ: n° -
    -ANNO 1845
    POPOLAZIONE: n° 43,840
    NUMERO DEI NATI: maschi n° - (*); femmine n° -; totale n° -
    NUMERO DEI MORTI: maschi n° -; femmine n° -; totale n° -
    NUMERO DEI MATRIMONJ: n° -
    NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° -
    CENTENARJ: n° -

    (*) Fino al 30 aprile del dicontro anno 1845.


    ARCIVESCOVATI DELLA TOSCANA. Sono quattro: Firenze, Pisa, Siena e Lucca. – Il primo per ordine di anzianità è quello di Pisa; creato nel 1092 dal pontefice Urbano II, che ne investì Daiberto, il celebre conduttore della Crociata toscana alla conquista di Gerusalemme; decorandolo del titolo di Patriarca, di Metropolitano della Corsica, e di Primate della Sardegna.
    I vescovi suoi suffraganei furono quelli di Ajaccio, di Aleria e di Sagona nella Corsica. Nel continente toscano aveva quello di Populonia, dato in seguito (1459) all’Arcivescovo di Siena, aggiuntivi più tardi i vescovi di Livorno e di Pontremoli.
    Secondo, rapporto all’epoca, primo come Mtropolitano è l’Arcivescovato di Firenze che conta quest’onoreficenza dall’anno 1420, quando Martino V ne rivestì il Vescovo Amerigo Corsini. Sono suffragenei della
  •    pag. 255 di 257
    chiesa fiorentina i Vescovi di Fiesole, di Pistoja e di Prato, di Sansepolcro, di Colle e di Sanminiato.
    La cattedrale di Siena fu eretta in chiesa Arcivescovile dal pontefice Pio II con bolla dell’anno 1459, con la quale le furono date per cattedrali suffragenee quelle di Chiusi, di Sovana, di Grosseto e di Massa marittima.
    All’antico Vescovato di Lucca fu dal pontefice Benedetto XIII accordato nel 1726 il titolo Archiepiscopale molto dopo le onorificenze del pallio e della croce che godeva sino dal secolo XII per bolla di Callisto II del 1120.
    Ebbe un Vescovo suffraganeo nel 1822, quando fu eretto il nuovo Vescovato di Massa di Carrara con una porzione della Diocesi di Sarzana e quella di Lucca.


    ZECCHE DIVERSE della Toscana. – Le Zecche più antiche della Toscana sono quelle di Lucca, di Pisa e di Firenze. Le prime due incominciarono a coniare lire, soldi e denari di argento e di oro fino dai tempi Longobardi, quella però di Firenze fu posteriore allo stabilimento della sua repubblica. Ignazio Orsini, per lasciare di tanti altri scrittori, ha occupato un intiero libro per riportare i vari conj col nome de' zecchieri sotto la repubblica fiorentina, a partire dal 1252, epoca in cui Firenze cominciò a battere la buona moneta del fiorino d’ oro. Infatti debbesi ai Fiorentini la gloria di essere stati i primi a ristabilire in Italia il conio delle monete pure di oro abbandonato per lungo tempo dalle altre città. Di epoca quasi contemporanea, ma sul declinare del secolo XII sono le Zecche delle città di Siena, di Volterra e di Arezzo, cui succederono le lire Cortones.i Tratto con criterio delle prime il Sig. Giuseppe Porri in un bel Saggio sulla Zecca sanese pubblicato nel 1844; disertò sulle seconde il ch. Pagnini
  •    pag. 256 di 257
    nella sua Opera della Decima, e discorsero della terza il Cav. Guazzesi e di recente il Dott. Antonio Fabroni, mentre versò sulle monete di Cortona il cortonese Alticozzi in un capitolo della sua Lettera apologetica al libro dell’antico Dominio del Vescovo di Areno in Cortona.
    Di breve durata fu la Zecca di Massa Marittima, e dubbie mi sembrano le monete attribuite alle città di Pistoja e di Chiusi.
    Le Zecche più recenti della Toscana sono quelle de' marchesi Malaspina di Fosdinovo e de' marchesi Cybo Malaspina di Massa di Carrara, la prima instituita o piuttosto ripristinata nel 1666, ed ora soppressa; la seconda aperta in Massa nel 1550, e tuttora esistente al pari di quelle di Lucca, di Firenze e di Pisa, l’ultima delle quali trovasi riunita alla Zecca di Firenze. Tutte le altre sono state da lunga mano inibite, oppure soppresse.


    ACQUEDOTTI DI PISA. Nel novero dei più sontuosi edifizi di questo genere che sorsero in Toscana nei secoli trascorsi primeggia senza dubbio quello che fornisce acque eminentemente purgate e leggere nella città di Pisa monumento dovuto al Granduca Ferdinando I, che nel 1601 lo incominciò, e a Cosimo II, che nel 1613 lo compì. Questi Acquedotti, che costarono la somma di 160000 scudi, si staccano dalla base occidentale del Monte Pisano, presso al castello di Asciano, di cui portano pure il nome, dopo aver raccolto in un gran serbatojo le varie fonti che ivi intorno scaturiscono. Di là per canale sotterraneo le acque, depurandosi per vie in numerose conserve, scendono sino alla pianura, dove lo stesso Acquedotto percorre sopra una lunga serie di archi, che continuano per il corso di circa 4 miglia, fino alle mura orientali di Pisa; dal qual punto si diramano in varie parti della città.

    VIA REGIA INTORNO ALLE MURA MERIDIONALI DI PISA. –
  •   pag. 257 di 257
    Parte dalla Porta Fiorentina, o di S. Marco, fino alla Via regia postale Livornese che ritrova fuori della Porta a Mare dopo aver corso miglia toscane 00, 74.

    VIA PROVINCIALE EMILIA. –Questa strada che fino a tutto il 1844 è stata compresa fra le regie al pari della sua continuazione al di là della Cecina, fu dichiarata da Pisa fino presso al Ponte del Fitto provinciale , dopochè è entrata nella classe delle Vie regie quella già provinciale del Littorale da Livorno fin presso alla Cecina.La suddetta Via provinciale Emilia frattanto corre per il tragitto di 28 miglia.

    All’Articolo VIA PROVINCIALE EMILIA si dica tale da Pisa al Quadrivio di Colle Mezzano , quasi un miglio innanzi di arrivare al ponte di legno sulla Cecina.
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Localizzazione
ID: 3278
N. scheda: 40630
Volume: 1; 4; 5; 6S
Pagina: 43, 109 - 110; 297 - 399; 729, 733, 838 - 839; 185 - 190, 273
Riferimenti: 3480, 14330, 41930
Toponimo IGM: Pisa
Comune: PISA
Provincia: PI
Quadrante IGM: 104-2
Coordinate (long., lat.)
Gauss Boaga: 1612778, 4841178
WGS 1984: 10.40081, 43.71662
UTM (32N): 612842, 4841352
Denominazione: Pisa - Acquedotti di Pisa - Arcivescovati della Toscana (Arcivescovato di Pisa) - Via Regia intorno alle Mura Meridionali di Pisa - Via Provinciale Emilia - Zecche Diverse (Pisa)
Popolo: S. Maria Maggiore a Pisa
Piviere: S. Maria Maggiore a Pisa
Comunità: Pisa
Giurisdizione: Pisa
Diocesi: Pisa
Compartimento: Pisa
Stato: Granducato di Toscana
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